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[Le Buone Pratiche 2012]
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ISSN 2279-9184

ateatro 142.97
2/18/2013 
#bp2013 Il verbalone delle Buone Pratiche del Teatro
Tutto quello che è successo il 9 febbraio a Firenze (con il video di Paolo Rossi ministro della Cultura "a sua insaputa")
di Maddalena Giovannelli e Roberta Ferraresi
 

[ma se avete fretta, c'è lo storify #bp2013 di Rosy Battaglia]



Pienone a Sant'Apollonia, come lo si vede dal tavolo... (foto di Oliviero Ponte di Pino).

Saluti iniziali e apertura lavori

Apre la giornata il saluto di Beatrice Magnolfi, Presidente della Fondazione Toscana Spettacolo. Magnolfi sottolinea fin da subito l’importanza di una giornata di confronto come quella delle Buone Pratiche, in un momento particolarmente delicato: un momento di profonda crisi e di consistenti tagli al FUS.



Sullo schermo, la tabella con i tagli al FUS (foto di Daniele Stortoni).

In questo contesto, la Fondazione Toscana Spettacolo vive invece un momento positivo, un vero “miracolo”: i teatri legati alla Fondazione restano aperti e propongono circa 700 repliche di spettacoli con un buon riscontro di pubblico. Scegliere di andare a teatro, in tempi di crisi come questi, significa rinunciare ad altro: gli spettatori che operano questo tipo di scelta ritengono evidentemente il teatro un bisogno primario, non un lusso.
Nella realtà contemporanea – una sorta di Truman Show –, il teatro rappresenta una squarcio di realtà, un antidoto. La crisi induce a confrontarsi con l’idea di cambiare, di fare meglio: in quest’ottica – sottolinea Beatrice Magnolfi – si rivela fondamentale fare rete, cooperare, condividere e non competere. Ed ecco allora l’utilità di un’occasione, come quella delle Buone Pratiche, che porti a fare rete a livello nazionale.
L’intervento di Magnolfi si chiude su uno dei temi che si rivelerà uno dei fili conduttori dell’intera giornata: la necessità di un ricambio generazionale. In questo senso, la Fondazione Toscana Spettacolo si sta già impegnando: le giovani compagnie – definite «antenne del territorio» – sono state messe a contatto con il pubblico degli abbonati. L’obiettivo, nella programmazione di un teatro e in qualsiasi politica culturale, deve essere quello di tenere insieme elementi colti e popolari, complessità e levità.

Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino danno inizio ai lavori dedicando la giornata a due personalità del teatro scomparse di recente. Renato Nicolini – mescolando le sue competenze di drammaturgo, politico e architetto – è riuscito a mostrare come la cultura possa trasformare profondamente il volto della città, ed è stato capace di tenere insieme con maestria alto e basso. La seconda dedica è al regista Massimo Castri, capace di interrogarsi profondamente sul ruolo del teatro nella società e di orientare su questo interrogativo tutta la sua arte.


1. Economia della cultura e buon governo del teatro

Il coordinatore del primo panel è Giulio Stumpo, che apre la sessione invitando i relatori a riflettere sul futuro scenario europeo delle politiche economico-culturali e sulla necessità di ibridazioni e di contaminazioni pubblico/privato.

L’intervento di Fabrizio Arosio (responsabile dell’indagine statistica sulla cultura per Istat) mette in luce le contraddizioni che segnano il rapporto tra statistica e cultura. In un contesto nel quale si disinveste sistematicamente rispetto alla cultura, non viene per nulla valorizzata neanche la statistica per la cultura. Eppure si pretende poi – da quell’ambito al quale non viene data rilevanza – di ottenere risposte certe.



Santini e De Capitani in prima fila... (foto di Daniele Stortoni).

Cercare di misurare il valore economico con gli stessi strumenti con cui si misura il settore industriale è molto pericoloso. La lente meramente economica sui processi culturali non può essere esaustiva. Arosio chiude, dunque, il suo intervento con alcune domande aperte, che lasciano comprendere come i rapporti tra statistica e cultura siano terreno scivoloso, sul quale è necessario muoversi con cautela: come si può misurare il benessere prodotto dalla cultura? E come misurare l’impoverimento che deriva dal non partecipare a un evento culturale? Il mero dato numerico è sufficiente?

Lucio Argano (Università Cattolica, Milano) introduce il proprio intervento con una considerazione sull’attuale mancanza di investimento e di attenzione per la cultura, anche all’interno dei programmi che sono stati presentati in vista della consultazione elettorale; il problema vero è che ciò è sinonimo più grande di una incapacità di progettazione di lungo periodo, che conduce a un possibile processo di deriva e di incivilizzazione in senso generale.
Argano, per le questioni di cui si occupa, dichiara di essere particolarmente sensibile ai temi della gestione, cioè al lavoro della pratica quotidiana; perché l’economia studia certamente i grandi flussi e le grandi tensioni politiche, però tutti si confrontano quotidianamente con una serie di questioni operative, che sono la realtà del lavoro. Argano invita a considerare quello che è successo negli ultimi anni, tramite provvedimenti e orientamenti: si è stati portati a una “banda stretta”, come campo di azione, che ha causato un progressivo deterioramento delle condizioni di lavoro. Riporta alcuni esempi, fra cui la Riforma Fornero, che non tiene conto delle particolarità e modalità del mondo del lavoro teatrale; l’incidenza fiscale, in relazione a cui si vedranno gli effetti, ad esempio, della tassa sui rifiuti; il cuneo fiscale, la Siae, l’eccesso della burocrazia, diretta e indiretta; la gestione finanziaria, con l’incapacità di riuscire ad avere una dialettica, anche minima, con le banche; l’ambiguità dei modelli giuridici, in cui le numerose realtà non-profit sono una terra di nessuno non sufficientemente regolata.
Per rimanere nell’ottica di questo appuntamento, Argano si focalizza su alcuni possibili obiettivi concreti alla base della quotidianità del lavoro, evidenziando come basterebbe rimettere in discussione alcune regole, facendo emergere contraddizioni e ambiguità. Sottolinea come in questi anni si sia osservata una “sbornia” economicistica, che ha portato a cercare di leggere il mondo della cultura e dello spettacolo attraverso una lente economica; si pensi agli assessori che misurano i festival in termini di impatto economico. Il festival di Topolò, che si svolge in un paesino di 33 abitanti in provincia di Udine e ha costruito, in una zona di confine, tutta un’altra vitalità, un altro senso, seppure per un periodo di tempo limitato: che impatto economico produce? Argano propone dunque di rendicontare il proprio lavoro, ma attraverso altri sistemi che non siano solo quelli economici: anche tramite termini che, nel loro linguaggio, sono definiti come “intangibili”.
Argano sottolinea come il lavoro di progettazione continui a essere una vestale nel rapporto coi territori: è una vestale importante, perché intanto permette anche di rinnovare. Propone, infine, due possibili riforme in ambito progettuale: innanzitutto meticciare-integrare-ricombinare – tutti verbi che, in una situazione turbolenta e di cambiamento come quella attuale, sono assolutamente fondamentali; e poi il tema della cooperazione, che va oltre le solite questioni legate alla rete: la definiscono coopetition, una parola inglese che sta a indicare una collaborazione competitiva.
In una bellissima intervista, la Ministra della Cultura francese, Aurélie Filippetti, dice, molto sensatamente, che è importante che la cultura ritorni a essere una parte fondamentale di un progetto politico globale.

Roberto Calari (Legacoop, Bologna) riflette sui processi che possono rendere la cultura una realtà autosufficiente e autonoma. L’intreccio tra cultura e creatività, afferma Calari, è una buona pratica e anche le istituzioni dovrebbero orientarsi in questo senso: l’Europa sta andando in questa direzione ed è necessario che anche l’Italia segua queste orme. Calari racconta, in particolare, gli esiti di un processo di osservazione di alcune industrie culturali creative in Emilia Romagna; qui è stato portato avanti un preciso progetto di sviluppo per la nascita dei talenti e il rilancio delle imprese. Si è potuto riscontrare che le imprese che investono sulla creatività reggono in modo più forte la crisi: la creatività, cioè, sta diventando fattore di sviluppo. Quindi la situazione che va creandosi, afferma Calari, è doppia: da un lato si tagliano i finanziamenti, dall’altro si aprono spiragli per produrre cultura in modo autonomo. Il processo in corso porta cioè verso l’impresa, entrando però in una più ampia progettualità del territorio: la cultura sta di fatto entrando in contatto con imprese non culturali, che vengono così riconosciute come radicate nel territorio e valorizzate. Lo strumento che la cultura ha per crescere – conclude Calari – è quello di trasformarsi in industria culturale creativa. Ci sono forme diverse per costituirsi e per coltivare il rapporto con il territorio e con il pubblico: la cooperativa, per esempio, prevede già a livello strutturale un coinvolgimento del pubblico.
Dalla crisi si esce inevitabilmente cambiati: è uno dei più forti fattori di cambiamento, è un nuovo rapporto dialettico tra pubblico e privato

Carlo Testini (ARCI) apre il proprio intervento puntualizzando come la cultura faccia parte del welfare – cioè benessere – e come dunque sia errato mettere sempre in concorrenza le spese per il welfare e quelle per la cultura: investire in cultura vuol dire investire nel benessere delle persone, quindi investire in welfare. È importante ribadirlo, perché la deriva economicista degli ultimi anni ha avuto una serie di ripercussioni su questo concetto, cioè sulla capacità di una società di non essere omologante, di valorizzare le diversità culturali; di dare la possibilità alle persone di esprimere il loro essere e la loro intensità, il loro diritto al sapere.
Entrando nel merito, Testini propone quattro “Buone Pratiche”.
La prima è relativa all’impresa culturale in senso lato: il mondo della cultura e della creatività è oggi variegato e diffuso, non si tratta più solo dell’impresa cooperativa, ma anche di quella associativa, da cui peraltro provengono molte delle strategie innovative. È importantissimo che tutto questo mondo venga riconosciuto e che molti dei soggetti che fino a ieri si sono sentiti gli unici protagonisti culturali si mettano a disposizione. Troppo spesso si dimentica la questione della cultura diffusa: non ci possono essere solo grandi soggetti, belli, innovativi, con tante risorse, in un territorio dove c’è il deserto culturale; intorno ci devono essere delle reti di spazi, di esperienze, di progettazione anche micro, che rendono forte la capacità di un territorio di intersecare esperienze culturali di qualità.
Da questo punto di vista, quello degli spazi dove fare cultura, è un problema gigantesco: non è un caso che alcune delle ultime esperienze partano dall’occupazione. Molte delle normative recenti andavano nella direzione di far chiudere gli spazi; sarebbe opportuno che qualcuno dei provvedimenti del nuovo Governo fosse indirizzato a sostegno degli spazi: come si fa ad avere degli spazi culturali che devono fare i conti con una tassazione iniqua e una serie di burocrazie devastanti?
Altra questione fondamentale, per Testini, è la formazione del pubblico. Si chiede, seppure i teatri pieni in Toscana rappresentino un ottimo risultato, quanto delle produzioni culturali innovative, di ricerca e di contemporaneo siano apprezzate dal pubblico. L’osservatorio nazionale ARCI rileva che c’è una sofferenza da questo punto di vista: Testini segnala come ci sia bisogno di una politica di formazione del pubblico che non sia solo indirizzata a valorizzare il tema del teatro in quanto tale, ma che cerchi anche di sviluppare una curiosità critica e culturale che sostenga tutto quello che è innovazione.
Ultima questione è quella del sostegno pubblico e delle risorse. Testini richiama una frase del documento delle Buone Pratiche dice: «fare di più con meno»; in relazione a questo, evidenzia come ci siano cose che vanno dette anche in maniera molto forte. L’intervento del settore pubblico nelle politiche culturali è fondamentale, altrimenti non si riuscirà mai a costruire una strategia di sviluppo di un sistema di un Paese basato anche sulla cultura e sulla creatività. Detto in maniera anche demagogica: meno F35 e più cultura, per quanto riguarda l’Italia; meno quote latte e più cultura, quando si parla di Europa, perché, nella discussione di ieri e di oggi sui fondi europei, uno dei grandi problemi è che il segmento che riguarda l’agricoltura viene salvato, ma viene invece decurtato quasi sicuramente quello che fa riferimento a politiche culturali e conoscenza. È necessario che tutti si esprimano in maniera forte, perché bisogna fare delle scelte di politica economica.

Giulio Stumpo chiede a Carlo Testini un punto ulteriore, riguardante la situazione della Siae.

Carlo Testini (ARCI) aggiorna brevemente sulla situazione della Siae, commissariata da tempo, anche in relazione al ruolo che ha, non solo per quanto riguarda il sostegno degli autori, ma per l’intero mondo delle produzioni culturali. Il nuovo statuto, approvato dal Governo un mese fa è deleterio, perché trasforma Siae in una Società per Azioni, in cui i grandi autori ed editori avranno il totale controllo sul Consiglio di Sorveglianza. Testini individua un principio di incoerenza in questa scelta, perché la Siae è una società pubblica con 90.000 associati e il nuovo statuto andrebbe a ucciderne la capacità di essere un soggetto collettivo. Testini chiude informando che il 13 febbraio si è organizzata un’iniziativa davanti alla Siae, per chiedere al Governo di cambiare il nuovo statuto.

Giulio Stumpo chiede all’On. Emilia De Biasi (PD, Commissione Cultura, Scienza e Istruzione, XVI Legislatura) quali mosse dovremo aspettarci dalla politica nel prossimo periodo nel campo delle politiche culturali.
De Biasi mette in luce come nella scorsa legislatura si sia provveduto a un’indagine politica sulla SIAE, durata sei mesi: se questo procedimento è stato così lungo, è stato perché si sono voluti deliberatamente allungare i tempi. La commissione d’inchiesta è stata così protratta fino al rush finale della legislatura: ma De Biasi conferma la volontà di voler riproporre la commissione anche nella prossima legislatura. Non è possibile – secondo l’Onorevole – ridurre al puro e semplice mercato una materia come quella della proprietà intellettuale, né è accettabile che la SIAE prosegua in questa struttura ambigua tra pubblico e privato; o, ancora, andrebbe evitato che possa appropriarsi della tassazione su iniziative culturali che sono promosse localmente con finanziamenti pubblici.
De Biasi entra poi nel merito della questione dei tagli alla cultura: sui regolamenti del 2014 sono state prese delle decisioni a Parlamento chiuso e il parere della commissione non è stato richiesto, cosa che è illegale. «Abbiamo alle spalle tre ministri di larga incompetenza», chiosa De Biasi: «non è questione di governo tecnico. Ogni governo è politico, perché fa delle scelte». Bisogna dunque pensare a nuove regole sullo spettacolo dal vivo: molti aspetti vanno aggiornati, ci vuole una relazione codificata più tra la Stato e gli Enti locali. Non è possibile che lo Stato continui ad erogare un FUS assottigliato e che gli Enti locali facciano altrettanto. I temi caldi per i prossimi anni, chiude l’Onorevole saranno senz’altro quello della defiscalizzazione e del rapporto più fluido tra pubblico e privato; ma la cultura non deve e non può ridursi a mero mercato.

Mimma Gallina informa che la ragione dell’anticipazione della Buona Pratica di cui parla Massimo Luconi, prevista per il pomeriggio, è che si inserisce in un ragionamento dello sviluppo economico in rapporto a un territorio e al teatro: Prato/tessuto/spettacolo (corso di formazione per costumisti).
Massimo Luconi (Teatro Metastasio) apre il proprio intervento individuando un binomio forte per la città di Prato, che unisce le polarità legate al tessuto e allo spettacolo e ne sottolinea così il ruolo di polo di attrazione per l’industria tessile di tutto il mondo cinematografico e dello spettacolo così come, da tempo, in quanto fucina di talenti che si occupano di spettacolo. Luconi specifica che questa è una delle ragioni per cui il Teatro Metastasio ha ideato, assieme alla Provincia, un corso di formazione per costumisti dello spettacolo; più che formazione, qualificazione: è un corso abbastanza speciale, legato ai due aspetti dell’industria tessile e al programma del teatro. Il progetto fa parte di un ventaglio ampio che il Metastasio ha dedicato alla formazione: una scuola per giovani attori, una serie di laboratori con le scuole intorno al mestiere del teatro con le scuole, la formazione del pubblico.
Il corso dura 600 ore, si apre a novembre e finirà a luglio con uno stage che si svolgerà proprio nella produzione del Metastasio; è stato frequentato da giovani fra i 18 e i 30 anni: ne sono stati selezionati 120, fra cui ne sono stati scelti 15 che, non solo sono legati al mondo dello spettacolo, ma sono anche dei creativi legati alla moda. È un corso molto pratico, perché svolge diverse attività legate alla sartoria e all’artigianato. Gli insegnanti sono alcuni fra i professionisti, i costumisti più significativi.

Oliviero Ponte di Pino, mentre si avvicinano al tavolo i prossimi relatori, informa di voler dedicare qualche minuto ad Armando Punzo, per dare voce alla battaglia che sta facendo per un Teatro Stabile in Carcere; chiede al regista della Compagnia della Fortezza di Volterra, perché questo passo sia diventato necessario.

Armando Punzo mette in luce come i venticinque anni di attività della Compagnia della Fortezza si siano svolti costantemente in spazi sempre insufficienti e con mezzi risicati. «Le Buone Pratiche devono essere portatrici di innovazione: ci troviamo invece di fronte a un rifiuto ostinato ad aiutarci a far evolvere questa esperienza di teatro in carcere». La Compagnia si trova, secondo Punzo, in un momento chiave: deve terminare la propria esperienza o cambiare, ottenendo uno spazio stabile e un centro di formazione permanente per i detenuti. Quella del Teatro Stabile è, in un certo senso, una provocazione: Punzo ricorda come Franco Quadri si interrogasse sulla scelta di utilizzare un termine così legato alle forme di teatro istituzionale. Ma l’idea di un Teatro Stabile significherebbe per la Compagnia semplicemente avere una casa, un luogo. Si tratta – ricorda Punzo – dell’esperienza di teatro in carcere più longeva: ora ci sono 110 realtà che operano in questo ambito e si sta cercando di esportale in Europa. Far morire l’esperienza di Volterra, che ne è stata capofila, sarebbe dunque un paradosso. Se la disseminazione è già avvenuta, ora è il momento di tutelare l’eccezionalità del lavoro che è stato fonte di ispirazione per così tante, e così diverse, realtà.

Giuliano Scabia legge alcuni versi del primo coro delle Baccanti, dove si parla delle regole.
«Chi è nella via? chi nella via? chi? In casa rientri...». Scabia spiega come il primo coro della tragedia raccomandi di fare attenzione, perché sta passando qualcosa di molto pericoloso.
«Beato colui che felice, i misteri divini sapendo, – Scabia si focalizza sulla parola “teletàs”, che, spiega, fa riferimento alle regole per ballare: se sbagli passo e esci dalla trance controllata, muori, come succede a Penteo alla fine della tragedia; dunque, se non rispetti le regole, muori – pura conduce la vita e l’anima confonde nel tiaso, ballando».



Giuliano Scabia e le Regole di Dioniso (foto di Giulio Stumpo).

Scabia prende spunto da questo passo, in relazione alla tematiche delle Buone Pratiche: il “buon governo” del teatro.
Racconta che, una sera precedente, la figlia di un amico, in motorino, è stata investita da un signore che non aveva rispettato lo stop e poi è scappato. Il richiamo è a Euripide che, parlando alla sua polis, che stava rompendo molte regole ed era in gravissimo pericolo, voleva dire: state attenti, state attenti, perché se non rispettiamo nell’interiorità le regole, nel lavoro dell’attore su se stesso, non facciamo un lavoro politico per il buon governo della polis. L’attore è il cittadino.
Il cardine di tutto il teatro greco – forse di tutto il teatro – è la dike, la giustizia, che non è quella dei procuratori: la giustizia è l’atto interiore dell’armonia, cioè il rispetto delle regole, ma dentro, non predicando a teatro. Perché si vede subito se un attore ha lavorato su se stesso o no.
Il messaggio, conclude Scabia, è che, quando non rispetti la regola, rischi di investire una giovanetta ed ammazzarla. In teatro e fuori.

Oliviero Ponte di Pino, ringraziando Giuliano Scabia per il suo contributo alla definizione del “buon governo”, rimanda al particolare dell’affresco scelto – ben prima che scoppiasse lo scandalo del Monte dei Paschi – per rappresentare questa giornata: già allora si sapeva che, per governare bene la città, ci volevano anche la cultura e lo spettacolo.


2. I processi di selezione: nomine, progetti, bandi e bandomania

Giovanna Marinelli, coordinatrice della sessione, apre i lavori rilevando da subito uno dei nodi fondamentali dei processi di selezione: la necessità delle regole da un lato, l’esigenza che quelle regole vengano dettate da un’etica, dall’altro. Marinelli richiama, come viatico ai relatori, una citazione di Albert Einstein: «Uno dei maggiori guai dell’umanità non consiste nell’imperfezione dei mezzi, ma nella confusione dei fini». Il processo di selezione, allo stesso tempo, deve tener conto di idee immateriali e di obiettivi molto concreti: è un panorama complesso in cui solo le regole possono riuscire a dare orientamento, ma la chiarezza dei fini deve procedere necessariamente nell’ambito di una visione dei processi a lungo termine – di questo difficile equilibrio deve tenere conto un buon processo di selezione.
(Per una riflessione più estesa sul tema, firmata da Giovanna Marinelli: La migliore delle selezioni possibili).

Ilaria Fabbri (Regione Toscana) inaugura il suo intervento sottolineando come la Regione Toscana, contrariamente a ciò che accade nel panorama nazionale, non abbia mai tagliato i fondi per la cultura; Fabbri specifica che ciò comporta, per gli amministratori che la gestiscono, grande senso di responsabilità: i soldi ci sono e vanno usati bene. Inoltre, dichiara che il senso di responsabilità diventa particolarmente complesso, con l’approvazione della nuova legge regionale.
Procede dunque a ripercorrere alcuni passaggi della messa a punto della normativa. Fabbri racconta che, in una prima fase, ci si è posti nella posizione del pensare delle regole innanzitutto per costruire l’immagine dell’oggetto, le caratteristiche ideologiche e gli obiettivi che la Regione si poneva; quindi, ancora prima di una selezione specifica di bando: progettare delle politiche, che significa mettere a sistema gli indirizzi e le possibilità che questo territorio può esprimere, cercando di pensare il sistema culturale come unitario e, quello dello spettacolo, come sotto-insieme di un sistema più ampio, che deve essere interdisciplinare.
Costruire le regole, evidenzia Ilaria Fabbri, ha comportato il pensare a un sistema che potesse dare delle garanzie di stabilità anche economica – il riferimento è al finanziamento pluriennale –, ma con meccanismi di ricambio: si entra e si esce, se no, al solito, si incorre nel rischio della cristallizzazione. Poi, segnala Fabbri, si tratta del passare dal finanziamento a dei soggetti, al finanziamento ai progetti; ciò significa porsi su un territorio a partire dal punto di vista di una esigenza propria delle politiche regionali, che hanno alla base il pensiero di intervenire nell’arte e nella cultura per garantire un servizio al pubblico.
I sistemi non sono fatti solo di regole, ci tiene a sottolineare, ma anche di relazioni, di relazioni vere: fra chi governa la politica – cioè chi la imposta – e chi ne è destinatario, ma, nello stesso tempo, anche fra i soggetti che vengono finanziati, che devono contribuire a definire le attività, cioè qualcosa che possa produrre un ciclo espansivo.
Dal punto di vista dei bandi, le regole devono riflettere le esigenze reali. Già all’interno di quelli che sono gli indicatori di carattere quantitativo, si possono scegliere delle strade; un esempio banale: è inutile continuare a chiedere la produzione di almeno uno spettacolo all’anno, si deve lasciare una libertà, perché oggi non c’è la stessa realtà distributiva e si è ridotta la domanda.
Ilaria Fabbri dichiara che non sarà un percorso facile, perché implica cominciare a muovere dei meccanismi e ripensare un sistema che possa davvero provare a corrispondere a un’idea diversa del sistema culturale e dello spettacolo dal vivo. Uno degli elementi fondanti, puntualizza, è l’onestà intellettuale; l’altra cosa importante è l’ascolto dei soggetti: non si costruiscono strategie operative nella solitudine degli edifici pubblici o delle proprie case, ma solo attraverso una capacità di relazionare e di stare dentro le cose concrete, come i problemi quotidiani che gli artisti si trovano ad affrontare.

Alessandro Hinna (Master Economia della Cultura, Università di Tor Vergata) apre il suo intervento richiamando la citazione di Giovanna Marinelli: la confusione dei fini menzionata da Einstein è uno dei temi caldi per la valutazione dei processi di selezione. Il processo selettivo – sottolinea Hinna – si deve muovere in equilibrio tra tre poli: il valore sociale della proposta, la capacità operativo-economica del progetto e la legittimazione del progetto nel suo contesto di riferimento. La mancanza di un’idea forte sui fini – e l’insorgere della crisi – ha provocato una conseguenza molto chiara: la prassi della selezione tiene conto soltanto della numerabilità dei risultati economico-finanziari, trascurando gli altri due criteri. Questo è chiaro se si guarda con attenzione ai bandi: c’è un insistere sui risultati attesi in termini di numerabilità o un’enfasi sulla qualità e l’affidabilità del soggetto. Il risultato, inevitabilmente, è che si finanziano soggetti e progetti già noti e già ampiamente sviluppati: la possibilità di dare ricambio viene completamente perduta. Hinna sottolinea poi come – per ottenere un miglior bilanciamento tra i due poli – sia necessario allontanare i processi di selezione dalla pubblica amministrazione.
Occorre rivisitare il modello di uno Stato che gestisca in proprio la selezione: il pubblico deve creare uno spazio dove più attori possano gestire una progettualità in una sinergia pubblico/privato. Il quadro normativo attuale permette la possibilità di costruire simili momenti di partecipazione e di dialogo, anche competitivo. Questo, precisa Hinna, non significa de-responsabilizzare l’amministrazione: nel quadro di riferimento dell’Europa, si sta andando proprio in questa direzione. Anche le esperienze del Valle raccontano proprio di una domanda di rottura dello schema: questa domanda deve trovare risposta in un nuovo quadro di regole istituzionali, nel contesto di un nuovo rapporto pubblico/privato. Hinna invita dunque a sperimentare su questo fronte. Il processo della selezione non può essere un momento singolo, ma deve essere un atteggiamento permanente: e questo atteggiamento – un’idea di un monitoraggio a lungo termine – manca, nella maggior parte dei casi. La rendicontazione sociale deve essere un momento di inclusione della comunità stessa: su questo punto si può lavorare per costruire un nuovo rapporto con il pubblico.

Giovanna Marinelli individua, all’interno dell’intervento precedente, il richiamo a un tema molto importante: la qualità della committenza, un nodo che ci si deve porre e che significa tutto quello che Alessandro Hinna ha detto, ma implica anche un cambio di prospettiva. Segnali, in questa direzione ce ne sono, come la citazione dell’esperienza del Valle; dunque, è chiamato in causa, in maniera molto pertinente, Marco Cacciola.

Marco Cacciola (attore) passa velocemente in rassegna le esperienze che si potrebbero richiamare in merito, oltre a quella del Valle Occupato (il Garibaldi Aperto di Palermo, l’Ex Asilo Filangieri di Napoli e Macao a Milano), ma – dal momento che sono previsti altri interventi più esaustivi su questo fronte e per la sua esperienza personale di regista e attore in una compagnia indipendente – dichiara di preferire di impostare il proprio intervento su altri termini. Inoltre, segnala come sarebbe facile gridare allo scandalo, parlando di selezioni e bandi, ad esempio citando il caso di Luca De Fusco a Napoli, per l’accentramento di potere di cui è protagonista, o quello dell’esperienza di O.C.A. a Milano, un bando fortemente voluto dall’Assessore alla Cultura Stefano Boeri che, secondo Cacciola, rappresenta un esempio di come non debbano essere fatti i bandi, perché è il tentativo di fare istituzionalmente quello che una comunità di lavoratori sta già facendo e, chiamando con un bando 200 associazioni, 50.000 euro vengono dati a una sola di queste, che è sempre la solita.
Lasciano da parte questi aspetti, Cacciola procede a riportare una favola Cherokee, in cui un uomo racconta al nipote, che gli chiede perché ci sia la guerra, che arriva sempre il momento di combattere; ma la battaglia più importante che ci sia, è sempre quella fra i due lupi, che sono dentro di ognuno di noi: un lupo cattivo, che vive di odio, gelosia, egoismo, e uno buono, pace, amore, speranza, generosità e umiltà. Al nipote, che chiede chi vincerà, risponde: quello che nutrirai di più.
Cacciola richiama alla situazione attuale, in cui ci si lamenta, ma si nutre il lupo buono; tuttavia, deve esistere anche quello cattivo, se no la battaglia non c’è; anche perché l’artista vive di questa battaglia, se no non avrebbe nulla da scrivere.
La ripartenza per una politica culturale, dichiara, è anche questo: significa che la poesia è l’orizzonte su cui appoggiare gli occhi e il terreno su cui appoggiare i piedi; ma significa anche che il lupo cattivo c’è, così come le ingiustizie nella selezione e nei bandi: Cacciola sottolinea come siano in pochi sotto i 40 anni a parlare e decidere e come al giorno d’oggi spesso i bandi sembrino delle istigazioni alla menzogna.
Cacciola conclude, dicendo che è importante combattere il lupo all’interno di ognuno, ma che è necessario lottare anche contro quello fuori: ci sono realtà che, avendo fondi pubblici, hanno più doveri che diritti e va riconosciuta loro una funzione; ma va riconosciuta a ognuno la capacità di muovere questa funzione. Il Valle e le altre esperienze non sono altro che un’assunzione di responsabilità: possono piacere o meno, ma è evidente che rappresentano un desiderio di cambiamento.
L’unica pratica che intende proporre, oltre quella poetica, è che si obblighi qualsiasi ente, produttivo o gestionale, ad avere in residenza ogni stagione due compagnie – una emergente e una affermata –, per un periodo, con un minimo economico garantito per poter creare un progetto e permettere davvero la ricerca.

Giovanna Marinelli specifica come emerga così un ulteriore aspetto: la qualità di chi risponde alla committenza. Restando nella metafora, si chiede come si possa far dialogare il lupo buono e quello cattivo, rispondendo che probabilmente servono delle regole, altrimenti il rischio è che questo dialogo non ci sia affatto.
Apprezza la proposta concreta delle due residenze è apprezzabile e invita coloro che, in questo momento, fossero impegnati a riscrivere dei regolamenti, a cominciare a rifletterci.
Passa la parola a Francesca Vitale, che ha un’esperienza interessante: per un verso, è un’attrice, per l’altro è anche un avvocato, dunque conosce bene il tema delle regole.

Francesca Vitale (avvocato e attrice) apre l’intervento mettendo in luce un particolare aspetto del processo di selezione: la selezione dei selezionatori. In questo contesto, non mancano le linee guida: un Decreto Ministeriale del 2007 stabilisce criteri ben precisi. Ma se non mancano i criteri, Francesca Vitale sottolinea come il problema sia la loro applicazione, ed è precisamente questo il ruolo dei selezionatori: a chi guida un processo di selezione, dovrebbero essere richieste innanzitutto trasparenza e competenza; non ci devono essere conflitti di interesse e bisogna che ci sia la capacità di valutare se un progetto risponda a determinati requisiti. Vitale passa poi ad analizzare alcuni esempi di cattive pratiche in Sicilia – suo luogo di provenienza, anche se opera professionalmente a Milano. In Sicilia è l’Assessore al Turismo, Sport e Spettacolo che sceglie un nucleo di valutazione per i progetti teatrali: ma, se si scorre l’elenco dei nomi, si scopre come nessuno di questi abbia competenze legate al teatro. Vitale procede poi raccontando un episodio emblematico dei problemi che si verificano quando i selezionatori non svolgono correttamente la loro funzione: tre associazioni – rispettivamente di Catania, Messina, Acireale – si sono rivolte a Vitale nel momento in cui sono stati private dei contributi che percepivano da anni. Le associazioni, nel caso di spettacoli molto costosi, decidevano di organizzare l’evento presso una delle tre associazioni, convogliando volta per volta il pubblico delle tre aree cittadine. I contributi sono stati cancellati perché le attività delle associazioni risultavano identiche; eppure – nota Vitale – si tratta di una prassi valida e conosciuta come “economie di scala”. Francesca Vitale si offre dunque di recarsi a Palermo per verificare la situazione; dopo un confronto, un funzionario dichiara che chiederà consiglio all’avvocatura. Ma nulla si muove, così Vitale procede allora con un ricorso per auto-tutela; i funzionari le fanno però sapere che, poiché il nucleo di valutazione non ha dato risposta, non possono intervenire... La vicenda si perde così in una burocrazia kafkiana: mostrando come chi si incarica dei processi di valutazione spesso non ne sia all’altezza.
La soluzione, conclude Francesca Vitale, deve essere quella di creare elenchi di operatori del settore sulla base del curriculum (esperti di discipline legali, esperti in diritto commerciale, esperti culturali...) dai quali estrarre, volta per volta, i selezionatori per sorteggio.

Giovanna Marinelli puntualizza i temi emersi – chi seleziona il selezionatore e la qualità del selezionatore – e aggiunge due elementi: quello della competenza e quello dell’incompatibilità, un questione molto calda in Italia. Avvia a conclusione il proprio panel con l’intervento di Renato Palazzi, che affronta un tema, fino a questo momento, emerso solo indirettamente: quello del rapporto tra selezione quantitativa e qualitativa.



Una partecipazione attenta...(foto di Rosy Battaglia).

Renato Palazzi (“Il Sole 24 Ore”) raccoglie gli ultimi “assist” dai precedenti interventi, in particolare la riflessione intorno al concetto di “esperto” all’interno delle commissioni, un tema cruciale. Evidenzia come i problemi non siano semplicemente legati all’esperienza, alla qualificazione delle commissioni o alle loro modalità di giudizio: in campo teatrale, tutti aspirano a un giudizio il più possibile oggettivo e che costituisca un riconoscimento della qualità; Palazzi, mettendo in relazione queste due necessità, individua come, con il riconoscimento della qualità, tutti i criteri di oggettività vengano messi in discussione.
Palazzi racconta un aneddoto risalente alla fine degli anni Ottanta, quando era direttore alla scuola “Paolo Grassi” di Milano, per evidenziare come sia difficile valutare – in quel caso, di un’attrice – fra risultati oggettivi e altri elementi differenti, come la motivazione e il coinvolgimento, che possono concorrere anch’essi a pieno titolo nel valore complessivo. Palazzi mette in relazione queste esperienze di selezione con quelle legate alla valutazione di proposte progettuali: se è così difficile premiare e valutare un attore, dichiara, figuriamoci giudicare l’attività di un teatro o di una compagnia: come sia difficile distinguere tra un teatro che presenta un progetto ottimo, ma poi magari non è in grado di realizzarlo, o un teatro che ha un livello artistico eccelso, ma non è capace di fare promozione e di portare il pubblico a vedere gli spettacoli.
Palazzi puntualizza come i critici abbiano un occhio molto oggettivo sul teatro, che li porta spesso, all’interno delle commissioni, a essere i più estremisti, perché gli operatori hanno un altro modo di vedere, altre valutazioni, che sono altrettanto legittime, rispetto a quelle del critico che guarda soltanto alla qualità. Il critico si chiede come si possa uscire da questo soggettivismo e risponde che l’unico modo è avere dei progetti molto chiari e definiti, all’interno dei quali possano coesistere linee diverse. Dal punto di vista storico, quarant’anni fa, la qualità era molto chiara: richiama gli esempi di Strehler o Squarzina, oltre i quali tutto il resto non andava bene; oggi, probabilmente, non c’è più quella qualità eccelsa, ma c’è una molteplicità di qualità diverse, di linguaggi e tendenze, che è una risorsa da tutelare.
Palazzi procede a elencare alcuni esempi e modelli che vanno in questa direzione. La Biennale Teatro diretta da Romeo Castellucci (la call aperta su Ateatro), in cui il progetto era talmente definito che potevano rientrarvi lavori di qualità diversa, perché erano giustificati dal contesto, come se fosse un unico grande spettacolo. Lo stesso si può dire per le ultime edizioni del festival di Santarcangelo affidate agli artisti romagnoli, in particolare quella di Enrico Casagrande di Motus (il sito dell’edizione 2010): si definisce che cosa si vuole dal teatro e si chiamano i gruppi di conseguenza. Questo si vede anche a Milano, in alcuni multisala come l’Elfo Puccini o il Franco Parenti.
Palazzi conclude citando alcuni aspetti in questa direzione emersi di recenti all’interno della commissione del Comune di Milano per l’assegnazione delle convenzioni dei teatri di cui fa parte. Si sono individuati dei nuclei e delle fasce tematiche, una delle quali corrisponde ai teatri decentrati e periferici, che operano sul quartiere: il Ringhiera, il Teatro della Cooperativa e il Teatro Officina; ha senso alimentarne il finanziamento, non tanto o non solo in relazione alla produzione di spettacoli, ma perché rappresentano questo tipo di attività riconoscibile. L’altra linea di tendenza è che sono stati individuati alcuni spazi milanesi dove l’attività prevalente non è quella di presentare spettacoli, ma di fare laboratori, di ospitare residenze, di dare un appoggio alla preparazione degli spettacoli altrui: il Teatro La Cucina, il Pim Off e Campo Teatrale.
Una commissione ottiene un buon risultato, conclude, non tanto se riesce a dare il finanziamento al teatro “giusto”, ma se riesce a individuare dei criteri e delle linee di tendenza da suggerire alle pubbliche amministrazioni, in modo da avere dei bandi chiarissimi sulla direzione in cui si vuole andare. Per il critico sarebbe sufficiente cambiare qualche parola e fa l’esempio legato al termine “innovazione”, che si trova scritto tante volte nei bandi, ma in modo vago e andrebbe specificato meglio per ottenere migliori risultati; all’esperto spetta dunque dare indicazioni su come restringere il campo e rendere la richiesta più chiara.

Giovanna Marinelli si aggancia a questo tema, evidenziando l’importanza di tenere separati qualità e integralismo, perché è necessario impegnarsi nella difesa delle diversità e della ricerca.
Chiude il panel tracciando un percorso che ha portato a emergere i temi essenziali legati alla questione della selezione, per condurre, infine, al “tema dei temi”: la chiarezza dei fini, dunque l’esigenza di lavorare, sul piano della selezione, sapendo molto bene dove si vuole andare; facendo riferimento all’ultimo esempio riportato da Renato Palazzi, dice che non basta la parola “innovazione”, ma bisogna che l’innovazione abbia una sua finalità.

3. La qualità della programmazione e la distribuzione
Coordinano Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino

Mimma Gallina introduce il terzo panel della giornata, evidenziando come la complessità delle tematiche che si andranno a trattare sia intrecciata con quelle emerse fino ad ora.
Si dedica a una breve contestualizzazione dei temi, individuando negli aspetti distributivi una caratteristica importante per il sistema teatrale italiano, tradizionalmente “di giro”; negli ultimi quindici-vent’anni, però, si è accentuata l’attività stabile.
Procede a passare in rassegna le tematiche che saranno affrontate: dei cambiamenti del sistema che, magari, a livello istituzionale e normativo non si sono ancora recepiti – quindi cambiamenti di metodo; la riflessione sul rapporto tra produzione e distribuzione: tutti sono d’accordo dell’importanza che i teatri siano abitati, però c’è il problema di un sistema distributivo che sia svincolato da condizionamenti eccessivi legati alle permanenze stabili; la questione della selezione: come accennava anche la Presidente Magnolfi, c’è il problema di avere una nuova generazione di programmatori o curatori, persone capaci e in grado di fare delle scelte per i teatri comunali o per i circuiti.
Mimma Gallina passa la parola a Elio De Capitani, chiamato in causa dall’ultimo ragionamento di Renato Palazzi: la presenza di un multisala – l’articolazione in più spazi dell’attività, che è sempre stata prevalentemente produttiva, ma che è anche di programmazione – come il Teatro dell’Elfo a Milano con il Puccini, è un modello che aiuta molto a riflettere su questi temi.

Elio De Capitani (Elfo Puccini) ripercorre il percorso compiuto negli ultimi anni dall’Elfo, a partire dall’acquisizione della nuova sede, avvenuta nel 2010. Per mantenere la nuova struttura, è necessario che la compagnia sia tutto l’anno in tournée: De Capitani, se non fosse stato per una sostituzione, non avrebbe ancora recitato nelle tre sale dell’Elfo. Arriva così a delineare una situazione paradossale: l’impossibilità di gestire un teatro come l’Elfo Puccini con gli attuali criteri, anche se nell’eccellenza. Pur con una sana gestione, pur con l’economia di scala, anche se l’Elfo è il migliore dei teatri possibili, non è possibile gestirlo: non sono state fatte, secondo De Capitani, scelte politiche. Neanche una maggiore cifra destinata dal FUS potrebbe cambiare realmente le cose, finchè non si mettono in discussione i criteri in maniera profonda e radicale. De Capitani passa poi a raccontare un aneddoto, sintomatico delle politiche ministeriali: un anno è stato segnalato all’Elfo un improvviso abbassamento della qualità, di un decimo, secondo i criteri ministeriali. Quando dall’Elfo hanno chiesto spiegazioni, è emerso che la questione derivava da un errore di somma: eppure c’è una commissione che dovrebbe occuparsi approfonditamente di questi aspetti. Anche le domande al Ministero – denuncia De Capitani – non vengono lette: il contributo ministeriale è rimasto invariato, anche se diversi fattori legati alla gestione del teatro si sono via via modificati e anche se sono stati cambiati deliberatamente alcuni dati nel bilancio. Si tratta, secondo De Capitani, di una vera e propria beffa, che all’Elfo hanno provato a smascherare: in una pagina centrale della richiesta al ministero, hanno inserito una proposta di un viaggio gratuito a Cuba... e non hanno ricevuto alcuna risposta o notazione in merito.
Se non si verifica un cambiamento nelle logiche di finanziamento pubblico, le cose non possono andare avanti: non sono state fatte delle scelte.
De Capitani decide di condividere parte del bilancio sociale del 2012: la struttura dell’Elfo Puccini – che fino a pochi anni fa costava 540.000 euro all’anno – a regime (seguendo le norme di sicurezza: aumento delle maschere fino a 16, aumento dei tecnici...), costa circa 742.000 euro. È un costo da sostenere per il teatro, per così dire, a “porte chiuse”: prima ancora di iniziare la programmazione, la struttura richiede una spesa così alto. Qualcosa si riesce a recuperare con l’affitto delle sale: circa 517.000 euro. Ma poi vanno considerati anche gli uffici, che rappresentano anch’essi un costo consistente. O i meccanismi del finanziamento cambiano – conclude De Capitani – o il teatro soccombe: non è pensabile che l’Elfo di oggi abbia meno finanziamenti che nel 1992. Perché l’Elfo di oggi non è l’Elfo del 1992.

Paolo Magelli (Teatro Metastasio) dedica la propria introduzione all’attuale disattenzione, in clima elettorale, per la cultura: è preoccupante che non si discuta sul finanziamento e che non si chiarisca una volta per tutte che non è possibile sopportare più che l’Italia si trovi all’ultimo posto fra i Paesi cosiddetti sviluppati, in una posizione avvilente. Magelli riporta un paragone con la situazione austriaca: se 11 milioni di persone pagano di più – effettivamente, non in proporzione – di quello che pagano 60 milioni di italiani, l’errore è nell’accettazione di una politica che non è assolutamente più accettabile, perché non c’è la voglia, la curiosità o la capacità di guardare come gli altri funzionano. Conclude l’introduzione con un riferimento all’attuale discussione, al Parlamento di Strasburgo sulla nuova Costituzione europea: c’è una proposta – da parte dei francesi – che il teatro entri a farne parte come servizio sociale e pare che la Commissione italiana partecipi scarsamente. Si chiede come mai i teatri svizzeri siano fra i migliori del mondo, ma la Svizzera italiana non abbia neanche un teatro e se non sia dunque una malattia tutta italiana, quella di essere avversari del teatro.
Magelli procede a illustrare la situazione del Metastasio che, in questo momento, vive una stagione di grande successo di pubblico: l’anno scorso, con le attività straordinarie, si sono superate le 40.000 presenze; ma sottolinea anche come questi dati non siano più molto considerati, visto che, nonostante questo, il teatro è penalizzato da un taglio di 720.000 euro. Ciò nonostante, riesce a realizzare il 60% delle attività ad incasso, cercando evidentemente di utilizzare al minimo gli scambi: fa l’esempio della programmazione del Teatro Fabbricone, quest’anno dedicato a 6 autori italiani che presentano i propri spettacoli.
Passa ad affrontare la questione della creatività del territorio, all’interno di cui si è sviluppato un rapporto con la Fondazione Toscana Spettacolo. Al Teatro Magnolfi sono state presentate circa 40 compagnie, ma non c’è stato nessun finanziamento. Sono state inventate nuove attività, come quella delle arti e mestieri: una scuola per attori, il corso per costumisti, c’è l’intenzione di provare anche con l’illuminotecnica; ma nessuno dà una lira.
Su 18 produzioni, 15 sono state commissionate a compagnie, con l’intento sempre, in un momento in cui le compagnie chiudono, di provocare e alimentare nuove realtà. Magelli specifica che questa scelta è orientata dal principio della lunga durata, coerente con la mission di un teatro stabile: non è possibile che si faccia la prima e poi si vada in giro per l’Italia a fare cassetta; al Fabbricone, si tengono repliche per tre settimane e il pubblico viene. Riporta l’esempio di Valerio Binasco con cui, in coincidenza di una chiamata per una regia, si è cercato di mettere in moto qualcosa: la Popular Shakespeare Kompany è nata da La Tempesta, dunque con il finanziamento di uno spettacolo è nata una compagnia, in un momento in cui tutti chiudono. Questo è il rapporto, conclude Magelli, fra programmazione e produzione: in teatro, fare spettacoli è normale; ma il teatro pubblico deve avere un’ispirazione, quella di essere più Maison de la Culture. Ciò significa sviluppare un’attività polivalente, ad esempio con laboratori nelle scuole, che corrisponde al segreto del successo di pubblico del Metastasio: in due anni si sono coinvolti più di 300 ragazzi in due anni. Che non vengono per fare gli attori, ma perché scoprono che il teatro è uno spazio democratico, l’unico territorio libero, da difendere. Lo facciamo, chiude, come possiamo.

Mimma Gallina introduce l’intervento di Marco Giorgetti, chiamato a raccontare l’evoluzione recente del Teatro della Pergola, teatro italiano per eccellenza, parlando di ospitalità, che ha avuto una dismissione in relazione alle vicende dell’Eti.

Marco Giorgetti Teatro della Pergola) racconta come il Teatro della Pergola,dopo la soppressione dell’Eti, il Teatro della Pergola si è trovato a chiedersi come fosse possibile salvare le proprie attività. Si è determinato uno sforzo di tutti – il Ministero, il Comune, l’Ente Cassa – per riuscire a realizzare un progetto che, il 9 settembre 2011, ha visto nascere la Fondazione Teatro della Pergola, con la partecipazione di Comune e Ente Cassa. A oggi, specifica Giorgetti, è ancora in una fase di avviamento, che può essere interessante sottoporre allo studio, perché è una fase in cui si sono ricostituite le strutture, ritrovando, cammin facendo, i problemi che citava Elio De Capitani.
Giorgetti richiama anche il discorso precedente di Lucio Argano, in merito ai problemi della gestione e del lavoro quotidiano, che inevitabilmente pesano sulle scelte, anche di programmazione.
Racconta di come non sia stato facile, in questo frangente, mantenere una qualità, ma anche che si è trovato un nuovo rapporto con la città, la gente, il pubblico – con l’attenzione al teatro, un valore incredibile, riassume, richiamando l’intervento di Paolo Magelli.
Giorgetti affronta anche i temi della misurazione e della rendicontazione, che si sono posti all’inizio di questa esperienza, ribadendo come occorra affermare con forza che il teatro non è misurabile – seppure, specifica, debba essere rendicontabile, perché il discorso della trasparenza è correttissimo –, che quello che produce non è assimilabile a nulla; paragona la dimensione del teatro, il suo farsi ogni sera con gente viva, alle caratteristiche di misurabilità diverse di quello che producono le altre arti, come quella cinematografica.
Giorgetti entra nello specifico delle scelte e della qualità della programmazione, partendo da un’osservazione delle esigenze del teatro che ha orientato le decisioni dell’ultimo Consiglio di Amministrazione: la scorsa stagione, sono arrivate compagnie allo stremo, alcune delle quali non venivano pagate da 180 giorni, e con l’esigenza di rimettere in piedi le scene in un teatro che avesse questa possibilità; è stato deciso, riporta Giorgetti, che la prossima stagione dovrà rispondere a queste esigenze: realizzare una stagione che paga immediatamente e offrire le sale intorno al teatro per rimettere in prova degli spettacoli o fare delle migliorie alle scene che possono essere necessarie. Dunque, riassume, la prossima stagione punterà alla qualità, all’accoglienza, rispondendo prima di tutto a queste esigenze; forse sarà poco o potrà sembrare elementare, specifica, ma è fondamentale.
Giorgetti conclude dicendo come sia importante costruire una lucidità diversa intorno al tema del “fare qualcosa” e che proprio questo tipo di incontri potrebbero, approfittando del termine “pratiche”, puntare a qualcosa di molto concreto, per poter risolvere almeno qualcuno di questi problemi.

Mimma Gallina risponde che in questi anni si sono analizzate alcune piccole cose che si potrebbero fare e che il settore teatrale potrebbe individuare delle linee anche più precise e trasversali per fare delle proposte.
Introduce gli interventi di Carmelo Grassi e Gilberto Santini, sottolineando l’importanza che hanno i circuiti nelle aree regionali: in fondo, non hanno modificato le loro funzioni originarie – cioè la consulenza artistica e la vocazione distributiva e di promozione –, ma si trovano nella necessità attuale di entrare in rapporto con una situazione che è molto modificata, anche tenendo conto delle emergenze, prima fra tutte quella del rinnovamento, che è emersa più volte nel corso della mattina.
Riporta come molte delle domande per Salvatore Nastasi e delle Buone Pratiche arrivate, sottolineino il disappunto di molte compagnie giovani che, anche laddove le si prenda in considerazione in modo magnanimo, a volte, è solo apparenza: spesso sono sottopagate, soffrono dei costi, non c’è una reale possibilità. Non per dire che sia una responsabilità dei circuiti, ma per richiamare il malessere che è stato recepito da Ateatro.

Carmelo Grassi (Teatro Pubblico Pugliese) interviene come primo dei due rappresentanti di circuiti regionali. Grassi parte dalla propria esperienza in Puglia, dove gli assessori non si dimostrano mai preparati in ambito teatrale. Per questo, il Teatro Pubblico Pugliese si fa carico di un vero e proprio lavoro di formazione, un percorso di formazione degli amministratori. Il Teatro Pubblico Pugliese, negli anni Novanta, è stato commissariato per sette anni; il Ministero, a quel punto, ha operato giustamente dei tagli, ma quando poi le circostanze sono cambiate e il circuito ha recuperato in qualità, non si sono più ricevuti riscontri. Il circuito ha cercato di approfondire ulteriormente la conoscenza del territorio, per fare al meglio il lavoro di programmazione, e la Regione è stata di grande supporto in questo processo. La Regione ha infatti destinato al Teatro Pubblico Pugliese, oltre ai fondi del bilancio ordinario, anche fondi europei: ma, per accedervi, è stato necessario operare per rendere le strutture adeguate. Tutto questo, ricorda Grassi, ha permesso al Teatro Pubblico Pugliese di arrivare sul territorio con compagnie giovani e con una programmazione alternativa a quella delle consuete stagioni teatrali; soprattutto, ha consentito di formare un pubblico nuovo e più giovane. Il ruolo dei circuiti regionali – continua Grassi – non deve limitarsi a essere quello della distribuzione: bisogna che i circuiti diventino reti intelligenti, capaci di farsi punto di riferimento per la produzione regionale. È importante che le reti regionali si facciano anche carico di portare avanti delle istanze nei confronti del panorama politico; alcuni assessori, racconta Grassi, sono stati disponibili a farsi guidare su terreni nuovi proprio nel confronto quotidiano con il Teatro Pubblico Pugliese.
Una delle cose più importanti, conclude Grassi, è coltivare il rapporto con il pubblico: una vera politica di rinnovamento, per aprirsi alla contemporaneità ,deve favorire questa sensibilità nello spettatore e radicarla nel territorio.

Gilberto Santini (Amat) presenta il lavoro portato avanti nelle Marche, partendo da una citazione dal Re Lear: «dobbiamo accettare il peso di questo tempo triste, dobbiamo dire ciò che sentiamo, non ciò che conviene». In tempi di crisi occorre essere lucidi; ed essere lucidi – suggerisce Santini – significa esattamente dire ciò che sentiamo. Fare questo lavoro, nota Santini in accordo con Elio De Capitani e con Lucio Argano, è diventato molto difficile: è lecito parlare di un deterioramento delle condizioni di lavoro. I fondi vengono ampiamente dispersi per le normative sulla sicurezza; e parte dei soldi che si vorrebbe destinare alle compagnie vanno invece impiegati in questo ambito. Santini propone poi una provocazione: in Italia, nota, non esiste una vera distribuzione. Amat ha un bilancio di circa 5 milioni di euro: 2 di questi provengono dal pubblico, 2 dagli Enti Associati (Comuni), e di quello restante metà deriva dal Ministero, e l’altra metà dalla Regione e da altri introiti. La partita si gioca quindi tra il pubblico e Comuni proprietari dei teatri. Per quanto riguarda il pubblico, è importante intercettare le sue esigenze, i suoi desideri reali: il tempo che gli spettatori dedicano al teatro è il loro tempo libero. Questo primo aspetto è molto interessante da coltivare e indagare; i desideri sono da un lato di evasione (Alberto Savinio dice a questo proposito che «il teatro è il premio serale che l’uomo dà alla sua fatica diurna»), dall’altra un desiderio di invasione: il pubblico ha bisogno che qualcosa scavi in lui, che gli entri dentro. Anche Grotowski aiuta a riflettere su questo, quando mette in luce come l’uomo non abbia bisogno del teatro, ma di superare “le frontiere tra me e te”. Queste sono le questioni che pone la committenza del pubblico; ma poi resta quella dei Comuni, ben più difficile da gestire. Santini propone allora un passo scritto da Roberto de Monticelli nel 1985, che analizza la differenza sottile tra la monoliticità del “consenso”, e la sua ambiguità, e l’andamento dialettico del “successo”, elemento che può essere discusso e può creare contrasto.
La riflessione porta alla luce la difficoltà dei rapporti con la politica e la pubblica amministrazione: si ha la sensazione che il primo obiettivo di chi opera nel settore sia la ricerca del consenso, che lo scopo sia quello di trovare non il successo, ma il consenso. Per concludere, Santini aggiunge che non si deve ragionare nell’ottica di una dicotomia enti storici/compagnie emergenti: i primi devono servire a favorire le start-up, altrimenti devono essere chiusi. Gli enti sono parte di un sistema se sanno esserlo: se sanno cioè leggere il nuovo e aiutarlo nell’avvio.

Angelo Curti (Teatri Uniti) comincia richiamando la storia della compagnia: Teatri Uniti esiste da venticinque anni – e prima ancora esisteva Falso Movimento – e non ha mai avuto un teatro. Il primo contratto di Falso Movimento è un contratto Eti, per una rassegna che si svolgeva a Palermo, e valeva 400.000 lire. Quello spettacolo fece un ampio giro Eti; dopo ce ne fu un altro, altrettanto bello, ma il funzionario dell’epoca dell’Eti, continuava a dire di fare come il precedente. Qui, parlando di distribuzione, viene fuori uno dei problemi gravi dell’Italia: sia la natura del territorio, che permette agli spettacoli di vivere a lungo, sia la smania di avere novità. Se lo spettacolo va bene, il pubblico è potenzialmente infinito: se adesso si riprendesse Tango glaciale, probabilmente tanti tornerebbero. In Italia manca il repertorio, che è anche una forma di sperimentazione. Si aggancia al tema del nuovo: la vera innovazione è soltanto la tradizione da piccola, dichiara, e i grandi innovatori sono quelli destinati a diventare tradizione. Puntualizza, inoltre, come occorra lavorare tenendo conto del risultato, che è un esito artistico, ma anche un esito pubblico: tante persone in una sala di cento posti valgono più di cinquecento persone in una sala di mille.
Curti passa a affrontare lo specifico del sistema teatrale italiano, talmente retorico che si scende, ma non si sale mai: il gruppo lavora fin dagli anni Settanta, ma soltanto nel 1985, con un incremento del Fus, ci fu un salto, una scossa; invece, con la fusione di Teatri Uniti, si ottenne semplicemente la somma dei contributi. Richiama l’intervento di Elio De Capitani, raccontando di come, fra il 2007 e il 2010, portando in giro uno spettacolo che impegna molti attori e tecnici, ci sia stato un minimo assestamento; mentre l’anno scorso, tornando a livelli più ordinari, c’è stata una flessione.
Il cambiamento può avvenire solo attraverso la catastrofe, dichiara Curti, una rottura traumatica per rimettere tutto in discussione; anche perché questo non è un Paese, ma in un insieme di situazioni: non si può parlare di Italia come di una somma – dal punto di vista economico, sociale e anche per il teatro. Chi vive al Nord ha una condizione, che spesso non è migliore di chi vive al Sud, però le realtà sono disomogenee; allora, o si pensa di considerarla una specie di eccezione culturale, di considerare chi si occupa di creazione e di cultura in una maniera che possa permettere anche di sopravvivere, di resistere a queste differenze, se no si è destinati a difendersi, al “si salvi chi può”.
Da un lato c’è il teatro convenzionale, dall’altro esistono dei tentativi di innovazione, che diventa un genere, così come esiste il genere del teatro di parola: pensare che l’innovazione possa essere una corrente o un settore è falso. Così come per il teatro convenzionale possono esserci tanto una grande messinscena di Pirandello quanto dei territori grigi di convenzioni, dall’altra parte esistono dei reali innovatori e degli altri che invece sono degli epigoni. Si può essere più giovani a cinquant’anni, se si è in sintonia con la propria epoca, che a venti se si è emuli di qualcosa. Ci deve essere una spinta reale, che va verificata col confronto del pubblico. Si chiede, sulla scia degli ultimi dati, cosa accadrebbe se il teatro perdesse, in due anni, metà dei propri spettatori. Chiude con una citazione: «Grande la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente».

Davide D’Antonio ( C.Re.S.Co. racconta come l’esperienza di un coordinamento di circa 150 realtà eterogenee, tra teatri stabili, teatri di innovazione e festival, abbia preso avvio dalla consapevolezza delle responsabilità del curatore. Si è arrivati, così, alla redazione di un vero e proprio codice etico, un regolamento capace di mettere in relazione teatro, compagnie e pubblico. Non è un regolamento facile, perchè cerca di guardare alla realtà con oggettività: è un dato di fatto, per esempio, che i finanziamenti per i teatri arrivino tardi, mentre le compagnie pretendono di essere pagate subito. In casi come questi, il regolamento ha cercato di richiedere almeno che le compagnie abbiamo comunicazioni corrette e realistiche circa le tempistiche dei pagamenti. Le altre regole sono disponibili sul sito web di C.Re.S.Co., ma, in questa sede, prosegue D’Antonio, vale la pena di svolgere qualche riflessione più generale: non esiste la possibilità di una vera e propria formazione per i curatori teatrali italiani e troppi si sono “inventati” curatori di teatro. La distribuzione e la produzione, in Italia, si rapportano in modo ambiguo: altrove, per esempio in Francia, la divisione tra i due ruoli è più netta. È dunque necessario, prosegue D’Antonio, riequilibrare il sistema: la distribuzione non può e non deve essere legata all’anzianità, bisogna procedere a un riciclo. Questo riciclo, purtroppo, in Italia non sta avvenendo; per i curatori, questo è spesso legato alla questione di una mancanza di una formazione.

Le occupazioni
Benedetta Cappon prende la parola a nome del Teatro Valle Occupato (Roma): l’esperienza dell’occupazione del Valle, racconta, nasce come una reazione a una situazione di crisi per i lavoratori dello spettacolo. La volontà di chi ha dato vita a questa iniziativa è quella di creare le condizioni perché le persone che lavorano in questo settore possano esprimersi. Il Valle esiste e va avanti ogni giorno grazie al lavoro volontario di coloro che vogliono essere parte di questa esperienza: ognuno porta il suo contributo per formare una realtà in cui possa riconoscersi. Il Valle occupato, spiega Cappon, si trova ora in una fase di profonda trasformazione che va evolvendosi giorno per giorno: si sta pensando a costituire una fondazione e la raccolta dei fondi è già ad un ottimo punto. Si tratta, dunque, di interrogarsi su possibili criteri di regolamentazione. Il focus del nostro interesse – precisa Benedetta Cappon – è sulla processualità che porta allo spettacolo: occorre prendersi dei tempi per un iter formativo che comprenda anche il coinvolgimento del pubblico. Ma il problema, per portare avanti queste iniziative, è il reperimento delle risorse: crediamo fortemente – conclude Cappon – che un’esperienza come quella del Valle vada finanziata.

Mimma Gallina evidenzia come il prolungamento dell’occupazione stia portando a maturazione una importante riflessione sul bene comune.
Passa a introdurre l’esperienza del Teatro Rossi Aperto di Pisa – testimoniata alle Buone Pratiche da Dario Focardi, Melanie Gliozzi e Ilaria Distante –, individuando due possibili modelli attraverso cui si sono espresse le recenti esperienze di occupazione di luoghi teatrali: un primo attraverso cui la decisione è orientata attraverso scopi precisi e definiti, quindi tendenzialmente è a termine; un secondo, di durata maggiore, che si sviluppa in riferimento alla mancanza di spazi e opportunità.

Dario Focardi di Teatro Rossi Aperto (Pisa) sottolinea preliminarmente la “giovinezza” dell’esperienza del Teatro Rossi Aperto, la cui durata si aggira oggi intorno ai 4 mesi e mezzo: dunque, non è ancora possibile stabilire se tale riapertura si possa inserire in una delle categorie proposte da Mimma Gallina.
Il Teatro Rossi è rimasto chiuso dal 1967, ad eccezione di qualche attività-spot proposta in maniera non continuativa: infatti, quando sono entrati, si sono resi conto che non disponeva di nulla rispetto alla propria funzione originaria (assenza di riscaldamento, allacciamenti elettrici, apparati tecnici). Se non c’era niente ancora in funzione, Focardi si chiede, dunque, quali motivi li abbiano spinti a restare nel Teatro: probabilmente proprio perché questo teatro, al centro di una città come Pisa, non funzionava da tempo. Riaprirlo non ha l’obiettivo di “rimetterci stucchi e velluti” – anche perché c’è già un altro teatro con questo ruolo –, ma per agire sul problema che, in una città universitaria come Pisa, non è possibile vedere teatro contemporaneo.
Focardi individua come elemento di cruciale interesse, all’interno del network dei “teatri liberati”, quello dell’azione di un gruppo di cittadini arrabbiati, che trova incredibile che si siano spazi come questi che restano chiusi. In questi tempi in cui si parla molto di partecipazione attiva, gli attivisti del Rossi sono entrati nel teatro per capire cosa volesse significare concretamente, stando lì dentro: le deleghe non sono più sufficienti, oggi ognuno deve fare qualcosa.
Un tema cruciale individuato da Focardi è quello della sostenibilità: all’inizio, il Teatro Rossi Aperto ha chiesto uno sforzo agli artisti – di regalare la propria arte –, ma ora si sta sviluppando un ragionamento più articolato, anche in grado di superare lo sfruttamento dell’opera dell’artista; è in atto un intenso lavoro con il quartiere, cui si chiedono delle sottoscrizioni a sostegno delle attività e una riflessione su quali forme assumere. Per fare un esempio, Focardi conclude raccontando l’esperienza dell’ultima tre giorni che ha visto il Rossi coinvolgere in un workshop Jean Guy Lecat, storico scenografo di Peter Brook: anche la celebre compagnia, entrando la prima volta al Théâtre des Bouffes du Nord, aveva trovato una situazione simile a quella del Rossi; così si è pensato a un laboratorio per mettere a punto insieme un progetto di auto-recupero da sottoporre alla Sovrintendenza.


Le Buone Pratiche: lavoro, selezione, programmazione, distribuzione

Claudio Autelli (Lab121), regista, racconta come il progetto Lo sportello del teatrante in crisi sia nato da confronti e discussioni innanzitutto tra amici, in particolare con Valentina Falorni (responsabile del progetto GASP, vedi infra); Autelli racconta di avere riscontrato, tra le persone che lavorano in ambito teatrale, una diffusa esigenza di chiarezza e di confronto sui temi dell’organizzazione teatrale. È emersa la consapevolezza di una sostanziale confusione da parte di chi inizia a confrontarsi con questo mondo; è nata così una serie di incontri sull’organizzazione rivolti a giovani gruppi, giovani attori diplomati, giovani associazioni, registi, autori...
Una delle particolarità del progetto è dunque un’eterogeneità di utenti; in questi tempi di crisi – nota Autelli – ogni teatrante è chiamato ad avere competenze su ambiti diversi, da quello tecnico, a quello organizzativo, amministrativo. Valentina Falorni e Marisa Villa hanno messo in gioco la loro professionalità e la loro competenza in questo senso. Il primo incontro, organizzato a Milano, è andato molto bene.
Le particolarità di Lab 121 sono dunque due: la prima è che si tratta di un’iniziativa pensata per i “non-esperti”, per gli artisti; la seconda è che si tratta di un processo gratuito con un contributo volontario per pagare le spese. La sensazione è quella di aver intercettato un bisogno diffuso; ed è anche, conclude Autelli, un principio di responsabilità nei confronti di chi ha appena iniziato.

Mimma Gallina passa la parola a Marta Galli, che presenta un progetto in parte collegato a quello riportato da Claudio Autelli, sottolineando come la mancanza di uno spazio adeguatamente approfondito per le tematiche legate al lavoro, abbia condotto alla scelta di presentare alcune iniziative, fra le Buone Pratiche, che affrontano questo problema. In merito, richiama il pezzo di Winnie Pliz pubblicato su Ateatro (Il paradosso della cuoca. Pagare per lavorare al tempo della crisi).

Marta Galli (ArteVOX) si ricollega al discorso di Claudio Autelli, raccontando che a settembre ArteVOX, agenzia di promozione con sede a Milano, Arci Milano e Cgil Lombardia hanno lanciato Prosa et Labora, un festival che avrà una nuova edizione il 22 e 23 giugno a Sesto San Giovanni e che è basato sul tema del lavoro, sia dal punto di vista artistico che anche delle condizioni di lavoro del mondo dell’arte, della cultura e della creatività.
Il festival è solo una parte di Prosa et Labora Project, che ne riprende il nome perché da lì ha avuto origine. L’iniziativa si è aperta con un dibattito intitolato Non sarà mica un lavoro, che è quello che solitamente viene risposto quando si dice che si fa l’attore o il regista; da questo dibattito, che è stato molto seguito, si è riscontrata un’esigenza importante – richiama l’intervento precedente di Autelli – sul lavoro; Galli riporta come, a un certo punto, la collaborazione con il sindacato sia stata illuminante, riportando una mancanza di idee, di assistenza, di consulenza da parte di chi potrebbe occuparsene. Così si è deciso di mettere in campo un progetto per costruire un centro di assistenza e consulenza per i lavoratori dello spettacolo in Lombardia. Galli sottolinea come, nonostante si tratti di un progetto ancora in embrione – il festival è del 15 settembre, quindi il progetto ha circa sei mesi di vita –, siano stati fatti già diversi passaggi, tra cui quello, a loro avviso importantissimo, con il Comune di Milano.
Le finalità di questo centro sono quelle di fornire una serie di servizi ai lavoratori dell’arte e dello spettacolo, come: assistenza fiscale e legale, formazione dei lavoratori, consulenza Siae ed Enpals, sostegno alle start-up d’impresa, coordinamento e messa in rete delle realtà esistenti, raccolta di domanda e offerta del lavoro, consulenza per la partecipazione a bandi pubblici e privati – tutta una serie di servizi, riassume, di cui si è riscontrata la necessità, attraverso gli incontri fatti fino a oggi di presentazione del progetto.
Marta Galli conclude specificando l’importanza che il progetto sia di carattere pubblico: ad esempio, c’è la prospettiva di sperimentare, con l’Assessorato alla Cultura comunale, un “pre-centro”, ovvero una prova nel mese di giugno, accompagnato da una serie di incontri che hanno l’obiettivo di testare e verificare le necessità espresse dal territorio.

Lorenzo Carni (Atir) presenta l’iniziativa Play Festival 3.0, che si svolgerà nel luoghi del Teatro Ringhiera a Milano. Il Festival – pensato allo stesso tempo come gara e come gioco – prende le mosse da un’idea di Serena Sinigaglia, direttrice artistica di Atir, sulla base di alcuni principi: rete, trasversalità, giudizio critico, visibililtà, gruppo. In un periodo di crisi, è quanto mai importante fare rete: una collaborazione tra teatri pubblici e privati, anche molto differenti tra loro, aiuta e favorisce l’arte. Altrettanto importante, spiega Carni, è la trasversalità che lega le periferie (come quella dove sorge il Teatro Ringhiera) e il centro: per mezzo di questa trasversalità si arriva al coinvolgimento nuovo pubblico. Il giudizio critico deve prendere nuove forme: Play Festival avrà due differenti giurie – una prima di critici under 35, la seconda formata dal pubblico. Per i giovani gruppi è poi fondamentale avere visibilità: negli anni sono nati, nonostante la crisi, molti buoni spettacoli che non riescono però a trovare palcoscenici disposti ad accoglierli e a sostenerli. Una particolare attenzione va destinata alla capacità di fare gruppo: nonostante la crisi, è importante non chiudersi su se stessi. Dodici spettacoli, selezionati da un comitato artistico di Atir entro marzo, verranno presentati dal 13 al 19 maggio, con due spettacoli per sera: le due giurie decreteranno lo spettacolo vincitore, che sarà poi ospitato al Teatro Studio di Milano. Questa edizione, conclude Carni, vuole essere la prima tappa di un percorso che si sviluppi negli anni e che lavori per un pluralismo culturale capace di rendere ricco un paese.

Mimma Gallina passa la parola a Angela Dal Piaz, che testimonia un’esperienza anomala: toscana, ha vinto un bando per un teatro del Sud, per la gestione e la direzione artistica e organizzativa del Teatro Comunale di Lamezia Terme. La circolazione degli artisti, specifica, è davvero una Buona Pratica.

Angela Dal Piaz (Il rilancio del Teatro Comunale di Lamezia Terme) si presenta: si occupa da trent’anni di produzione; un anno, con Roberto Toni – che, all’epoca, era direttore organizzativo del Teatro Stabile della Calabria – ha lavorato in Calabria, per un intero inverno; all’interno di questa esperienza, ha avuto l’occasione di conoscere il Teatro di Lamezia, presso cui si stava provando uno spettacolo. Angela Dal Piaz specifica che non pensava di stare seminando per il futuro, ma, cinque anni fa, Daniele Spisa – con lei, anima del progetto – l’ha chiamata per vedere un teatrino all’epoca ritenuto disgraziatissimo, perché era una struttura degli anni Quaranta, in un quartiere marginale della città, ma che rappresentava una soluzione possibile alla chiusura del teatro principale in relazione al fallimento della gestione precedente. Con un occhio estraneo, il quartiere disgraziato è apparso bellissimo, perché era il meno abusato dalla speculazione edilizia, e il teatrino, una ricchezza; con l’ingenuità e l’entusiasmo del neofita, Angela Dal Piaz e Daniele Spisa si sono impegnati nel cercare di farlo diventare un teatro importante, soprattutto nell’attenzione degli artisti: gli ultimi cinque anni sono stati spesi nel convincere amici artisti che valeva la pena intraprendere un viaggio così lungo per farsi conoscere in una città in cui per tanti anni non c’era mai stato un teatro d’arte. Così sono arrivate personalità diverse di varia provenienza, racconta Dal Piaz, che ci hanno creduto: in questi anni si sono accumulate presenze di artisti che non erano mai stati in Calabria.
Sono riusciti, prosegue, a costruire anche una rete di fiducia del pubblico nei confronti di alcune proposte che si potrebbero definire “inaspettate”: ad esempio, dieci giorni fa, ci sono stati Vetrano e Randisi; il pubblico, pur non avendo comprato tutti i biglietti, è andato ed è stato felice di vederli. Quindi, riassume, si è creata una sorta di credibilità che permette di portare anche artisti non così facilmente riconoscibili. In questo, va sottolineato l’importante ruolo dell’amministrazione, che ha lasciato piena delega. In questi anni, conclude, l’impegno è stato quello di inserire Lamezia all’interno del circuito nazionale; questo, sottolinea, è anche il racconto di una serie di ingenuità: venendo dalla produzione, si pensava di fare produzioni, laboratori, sinergie coi teatri della Regione – a distanza di cinque anni, tutto questo non è stato possibile farlo, perché, stando lontano, rende molto difficile attivare percorsi che richiedono una presenza continua; in compenso, la distanza permette di portare a Lamezia una serie di realtà che forse non ci sarebbero mai andate. È una Buona Pratica? – si chiede –, non si può dire, ma, dopo trent’anni di produzione, è stata un’esperienza che illumina di senso anche tutto il lavoro fatto in precedenza.

Mimma Gallina procede a presentare due esperienze che cercano entrambe, in qualche modo, di rispondere alle problematiche distributive delle compagnie, anche per quanto riguarda metodi innovativi di lavoro e possibili nuove funzioni del ruolo dell’organizzazione. Le Buone Pratiche che vengono presentate adesso, sono orientate verso il futuro: Terzo Paesaggio di Andrea Perini e GASP, Galleria dello Spettacolo, Marisa Villa e Valentina Falorni.

Andrea Perini operatore milanese con una lunga esperienza presso il Teatro Crt, presenta il progetto Terzo Paesaggio: un’impresa creativa di servizi per la cultura in fase di start-up e che propone, di fatto, un “rovescio” del mercato. L’idea si è nutrita di alcuni scritti: Gilles Clément – filosofo e architetto paesaggista – parla del délaissé, della necessità di valorizzare le zone residuali. Se si applica questa suggestione all’ambito teatrale, si ottiene l’idea di un “altro mercato” nel quale proporre spettacoli per ottenere la crescita di nuovo pubblico. Perini racconta, allora, di essere arrivato alla selezione di dieci compagnie e di aver progettato un viaggio – che si svolgerà a marzo per tutta Italia – per andare a intervistare il pubblico con alcune domande e trarne dati e tracce. Dalle risposte ottenute sarà possibile comprendere se il questo “altro mercato” esista e se il teatro sia riproducibile anche in spazi privati, non teatrali: dalle feste ai musei. Questa iniziativa sarà lanciata in occasione di “Fa’ la cosa giusta”, fiera degli stili di vita sostenibili che si svolgerà a Milano dal 15 al 17 marzo. L’operazione ha trovato fin ora adesioni trasversali e non si avvale di nessun finanziamento, ma mira a finanziarsi dal basso. L’idea, conclude Perini, è quella di fare subito qualcosa di concreto per reagire a certi modi di pensare la distribuzione ed è, nei confronti di questi, una critica «sottilmente sovversiva».

Marisa Villa presenta il progetto GASP – Galleria dello spettacolo a partire dal lavoro di AV Turné, un’associazione di organizzatrici teatrali attiva dal 2009, offrendo diversi servizi nell’ambito dello spettacolo dal vivo: il nostro lavoro, riassume, è quello di cercare di capire quali possano essere le zone d’ombra e trovarvi delle possibili soluzioni nell’immediato.
Negli ultimi due anni hanno smesso di occuparsi di distribuzione, per ragioni di sostenibilità economica interna; nonostante questo, sono giunte oltre 60 richieste di distribuzione di spettacoli, non solo da realtà nuove, ma anche da compagnie affermate che non si penserebbe avessero questo tipo di necessità.
Così è stato creato un sito, GASP, che è un database di spettacoli. È semplice come i motori di ricerca per cercare casa, ad esempio casa.it: c’è una mascherina di ricerca in cui si può scegliere la categoria, inserire criteri economici e stabilire parametri organizzativi e tecnici; la ricerca dà luogo a dei risultati fra gli spettacoli del database a disposizione per la stagione, che sono presentati da schede omologate (presentazione, contatti, ecc.), a cui è possibile allegare i propri materiali, che spesso affollano le caselle di posta. Lo scopo è quello di mettere a punto un servizio che lavori sulla messa in relazione della domanda e dell’offerta. Marisa Villa puntualizza che non si entra nel merito della validità del progetto artistico – infatti GASP non possiede un criterio curatoriale –, ma è uno strumento che intende agevolare la fruibilità di questi materiali. Inoltre, l’accento, aggiunge, è su tutti gli spazi che non sono convenzionalmente teatrali, ma che possono essere “teatrabili” (come palazzi storici, musei, ville e giardini, ecc.), per accogliere l’esuberante domanda di teatro che si sta osservando e che può rappresentare oggi una possibilità alternativa per la rappresentazione, anche per coloro che normalmente non trovano spazio in contesti comunemente teatrali.

Mimma Gallina, nel passare la parola ad Arianna Borso del Teatro dell’Acquario, sottolinea l’importanza, nell’ambito delle Buone Pratiche, di soffermarsi anche su quelle realtà che, in momenti di crisi come questo, si trovano in situazione di grave difficoltà. <L’Acquario di Cosenza – ricorda Mimma Gallina – è una struttura gloriosa e presidio in una regione come la Calabria.

Arianna Borso rilancia l'appello per il Teatro dell’Acquario di Cosenza: sulla pagina web è possibile leggere e firmare l’appello contro la chiusura del teatro, causata da tagli dell’80%. Si tratta del triste epilogo di una storia lunga e fortunata (iniziata 33 anni fa in un capannone) di programmazione e di formazione. Il Teatro dell’Acquario non è giunto alla fine di un percorso, ma è ora una realtà quanto mai viva: si tratta di un polo culturale per il territorio che ha molto lavorato sulla formazione del pubblico, presentando ricerca e innovazione, ma anche tradizione. L’Acquario ha una lunghissima tradizione di ospitalità: tra gli altri, Barba, Fo, De Berardinis, Delbono, Celestini, Servillo...
Inoltre, ha dedicato molti sforzi per l’educazione al teatro, tra scuole e famiglia. Tutto questo, conclude Arianna Borso, sta per concludersi per responsabilità di una politica regionale insensata e disattenta. La bacheca del Teatro dell’Acquario ha affisso al suo esterno un manifesto bianco, a testimonianza di una stagione che non si farà, ma che si vorrebbe scrivere.

Report dagli incontri preparatori
Marcella Nonni, BP Verso l’Europa (Ravenna, 18 gennaio 2013): vedi Quanta Eurpa alle Buone Pratiche di Ravemna di Roberta Ferraresi.

Filippa Ilardo, Verso Sud (Catania, 26 gennaio 2013): vedi Perché forse anche la Sicilia può cambiare di Silvio Parito.


Oliviero Ponte di Pino introduce l’intervento di Salvatore Nastasi, Direttore Generale per lo Spettacolo dal vivo (MIBAC). Sono stati inviate alcune domande dai soci dell’Associazione Culturale Ateatro, e tra queste ne sono state selezionate cinque.

Oliviero Ponte di Pino procede dunque con la prima domanda: «Viviamo in un assetto teatrale senza cambiamenti sostanziali, e il FUS viene sistematicamente tagliato. Non poteva essere evitato questo ultimo taglio? Perché sforbiciare la cultura? E cosa si può fare a questo punto per limitare i danni?».
Stando qui ad ascoltare gli interventi – racconta Nastasi –, ho raccolto l’impressione di come venga percepito il Ministero dall’esterno: una stanza dei bottoni chiusa, in cui si prendono decisioni. Invece, dietro quelle pareti, ci sono degli uomini che provano ad applicare delle regole, che a volte sbagliano e che, tramite il confronto, possono migliorare.
Nastasi passa poi all’argomento dei tagli e risponde mettendo in luce come i politici – che ora si lamentano della situazione – abbiano votato in maggioranza questa legge di stabilità nel dicembre scorso. Dal 1985, quando fu istituito il FUS, il fondo è calato del 65% come valore nominale e con un valore reale forse ancora superiore. E ora il Parlamento ha approvato, senza colpo ferire, questa legge di stabilità con una riduzione di ben 20 milioni: da operatore, confessa Nastasi, io stesso non me l’aspettavo, anche perché si era assicurato un impegno nel mantenere la stabilità del fondo, mentre poi, nonostante questo, sono stati lo stesso proposti dei tagli trasversali. La soluzione tecnica ci potrebbe essere: ogni Ministero, tra il mese di giugno e il mese di luglio, propone al Ministro dell’economia un assestamento di bilancio, che potrebbe far recuperare i 20 milioni.

Mimma Gallina segnala poi che alcune domande arrivate mettono in luce come l’azione di Nastasi tenderebbe ad allargarsi fino ad entrare nella sfera politica. Una controprova di questa tendenza sarebbe che, in questi ultimi giorni, il Direttore ha presentato frequentemente delle ipotesi di modifica alla legge. Qual è il progetto del ministero?
Nastasi afferma di avere il dovere, come funzionario pubblico, di proporre delle modifiche. Racconta di essere diventato Direttore dello spettacolo nel 2004, a 31 anni, per una serie di casualità fortunate. Dopo nove anni di lavoro, prosegue Nastasi, è un dovere raccontare al Ministro che verrà cosa non è andato nel verso giusto in questi anni e che cosa si può cambiare. Ecco allora alcune verità che il Direttore si sente di segnalare: il sistema è completamente ingessato da regole che bloccano i finanziamenti.
La situazione è quella di enti territoriali che tagliano progressivamente i loro contributi; lo Stato avrebbe dovuto in parte essere sostituito dagli enti locali, mentre quest’ultimi oggi si sottraggono e chiedono di essere sostituiti dallo Stato. Il sistema della stabilità – prosegue Nastasi – ha fallito: ci sono situazioni che rimangono invariate dal 1980 e questo, in un paese civile, non è possibile. I teatri stabili hanno gli stessi direttori da decenni, che propongono loro regie all’interno del loro teatro: ogni vincolo di esclusività in questo senso va modificato e va stabilito che il direttore di un ente non possa proporre regie all’interno del suo stesso stabile.
Le quattro categorie di stabilità vanno eliminate, prosegue Nastasi: un teatro stabile percepisce soldi pubblici e non deve fare concorrenza, dunque deve avere obbligo di ospitalità. Uno Stabile deve arare il terreno vicino a casa, deve sostenere la formazione del pubblico.
Nastasi racconta come, quando diventò direttore, il predecessore Carmelo Rocca lo mise in guardia dai meccanismi della triennalità, dicendo che difficilmente si può tenere fede a un programma triennale; ora Nastasi riconosce quella prospettiva come un errore. Il FUS si muove, è inevitabile che abbia delle oscillazioni in una legge finanziaria: ma nella prospettiva della triennalità ora si può e si deve lavorare. Quelli che si affacciano per la prima volta ad un contributo, si muoveranno in una prospettiva annuale; quelli che hanno una lunga storia nel percepire contributi saranno incanalati in un progetto triennale.
Nastasi propone un’autocritica su altro aspetto: si è creduto erroneamente, spiega, che stringere i criteri di accesso al finanziamento avrebbe salvato il sistema, e invece l’ha rovinato. Se si fossero abbassati i criteri, si sarebbe ricevuto un maggior ricambio.

Oliviero Ponte di Pino richiama i criteri di selezione, di cui si è parlato nel corso della mattinata: riuscirà mai una piccola compagnia a entrare nel radar del ministero? Come ripensare i criteri le regole intercettando il nuovo senza mandare all’aria l’esistente?
Nel 1996, Veltroni presenta un decreto legge e introduce le commissioni per la scelta dei finanziamenti; è stato molto criticato, perché trovare un metodo per valutare e decidere non è facile. Ora, afferma Nastasi, occorre introdurre un sistema sganciato dalla storicità, abbassando i criteri di accesso: bisogna dividere qualità e quantità in punteggi uguali e così si otterrà un vero ricambio. Bisogna far lavorare le commissioni nel corso di tutto l’anno e togliere la singola scadenza (come accade nel cinema): si allargano così le possibilità di domanda. Tutto questo deve accompagnarsi naturalmente a una stabilità di risorse.
Bisogna poi, prosegue Nastasi, che entri in gioco maggiormente la questione delle residenze. In Italia ci sono esperienze di residenza meravigliose: ma la residenza non è un luogo fisso, è un insieme di luoghi tra cui ci deve essere uno scambio, deve essere frutto di un accordo di programma pluriennale.
Interviene Giovanna Marinelli, tornando a richiamare la questione della qualità selezionatori.
È una questione fondamentale, ammette Nastasi: l’unica cosa da fare, in questo senso, sarebbe chiedere al Ministro di togliersi la facoltà di scegliere i selezionatori. Questo non è mai avvenuto negli ultimi trent’anni.

Mimma Gallina sottolinea come sia importante recepire la diversità all’interno del sistema e presenta una domanda: l’arte deve essere libera, secondo Costituzione. Il finanziamento statale non crea rapporti di disparità? La pratica di finanziamento del FUS non è di fatto un’ingerenza? Non si è generata una prassi di concorrenza sleale tra i diversi produttori di teatro? Chi è il garante e quali regole sono garanti di imparzialità?
Salvatore Nastasi risponde ammettendo che i complicati e farraginosi criteri quantitativi creano senz’altro una situazione ingessata, un fenomeno per il quale compagnie e teatri stabili raggiungono negli anni un certo contributo, mentre altri che portano avanti la stessa attività prendono molto meno. Questa è una cattiva pratica, qualcosa da cambiare, chiosa Nastasi. C’è un gruppo di giovani che spinge per sbloccare il sistema e va sostenuto dal Ministero. Un contributo pubblico allo spettacolo deve esistere, ma lo Stato deve sostenere l’arte nella maniera più equa possibile. Il garante deve essere la politica, il Ministro dei Beni Culturali: ed è proprio questo che deve fare la politica.

Oliviero Ponte di Pino procede con l’ultima domanda: a fronte di risorse sempre minori, si può procedere aprendo le porte ai giovani, alle nuove realtà e alle residenze senza però intaccare i fondi destinati a chi porta avanti bene il lavoro da anni? Le risorse bastano?
Nastasi risponde partendo da un dato di fatto: il ministero stanzia 400 milioni di euro, di cui 310 a fondo perduto. Se il nuovo Ministero raddoppiasse i fondi, non ci sarebbero problemi: ma – sottolinea Nastasi – non è probabile che accada. Se la cifra rimanesse la stessa, Nastasi suggerisce di chiedere al nuovo Ministro tre cose precise: nuove regole per i finanziamenti; maggiore stabilità del FUS; una maggiore leva fiscale. Va abbassata l’IVA fino quasi ad azzerarla, va eliminata la gabella sui Vigili del Fuoco; occorrono esenzioni fiscali agli esercenti, ai proprietari delle sale, su certi contributi per i lavoratori. Nell’ambito del cinema, si offrono questi sgravi ai privati, ai finanziatori; ma nell’ambito del teatro non funzionerebbe. Si devono chiedere criteri più giusti e diversi; la leva fiscale per ridurre le spese fisse per chi si affaccia a questo ambito. Queste – e non certo chiedere un FUS a 800 milioni – sono richieste sostenibili.



Un posto in prima fila: Paolo Rossi, Salvo Nastasi, Ninni Cutaia... (foto di Oliviero Ponte di Pino).

4. La formazione del pubblico e il marketing teatrale
Coordinano Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino

Lanfranco Li Cauli (Piccolo Teatro di Milano) richiama la rilevanza di alcuni interventi della mattina, in particolare quello di Carlo Testini, che ha rivendicato l’importanza del percorso di formazione del pubblico. Nel corso del suo intervento, scorrono sullo schermo alcune immagini di pubblico del Piccolo Teatro di Milano.
Li Cauli passa in rassegna un po’ di numeri riguardanti il pubblico del teatro: nella stagione 2011/’12, le tre sale del Piccolo hanno avuto il picco di presenze del pubblico degli ultimi dieci anni, quasi 272.000; mentre il numero degli abbonati della stagione in corso è fra i più alti ultimi dieci anni, intorno ai 22.000.
Li Cauli individua due aspetti, entrando nel merito della formazione del pubblico, attività che il Piccolo da sempre ha sviluppato. Il primo riguarda il fare formazione, costruendo percorsi ad hoc tramite l’Ufficio Promozione – fondato da Paolo Grassi negli anni Cinquanta – che si occupa di organizzare circa 500 incontri nelle scuole, ma anche negli spazi del Teatro, che hanno come oggetto la presentazione degli spettacoli e degli autori, dibattiti con il pubblico. Specifica che questa tipologia di percorsi è importante che si inizi da piccoli, riportando l’esempio di un laboratorio di teatro d’ombra, attivo al momento al Teatro Strehler, dedicato a bambini fra i 4 e i 6 anni; ma che poi ci sono percorsi di formazione che si avvicinano di più al teatro per adulti, con proposte per le scuole secondarie. L’idea, evidenzia, non è solo quella di dedicarsi ai ragazzi, ma a tutto il pubblico: a queste serate partecipano anche adulti, anziani, abbonati. C’è anche un percorso di collaborazione con le università – non solo quelle deputate al teatro, ma anche per esempio il Politecnico – e si lavora con il territorio, con le istituzioni. In qualche modo, riassume, è un percorso di crescita del pubblico: per richiamare l’intervento di Carlo Testini, ad ogni inizio di stagione, il Piccolo formula dei possibili percorsi di avvicinamento al teatro, anche per quanto riguarda l’innovazione e la ricerca. Il primo spettacolo ideale per tutti è l’Arlecchino o lo spettacolo di Paolo Rossi, lavori di sicuro successo; il passo successivo, la grande sfida, è ad esempio Il panico di Spregelburd diretto da Luca Ronconi, che è stato per tre settimane al Teatro Strehler con la sala piena; ma quello era un pubblico che si era creato il proprio avvicinamento al teatro.
Li Cauli passa a spiegare come si fa a realizzare tutte queste attività di formazione: attraverso i canali tradizionali, come l’Ufficio Promozione, e – ultimo punto su cui intende soffermarsi – internet, su cui viene operato un grande lavoro; basti pensare che oltre il 50% dei biglietti sono venduti online. Un esempio è, invece di realizzare soltanto il programma di sala, di inventare un’app: in questi ultimi giorni è stata lanciata per Il panico. Infine, una web tv dedicata ad approfondire i contenuti e i social network: Oliviero Ponte di Pino è stato testimone, qualche mese fa, di una vera e propria “invasione” alle prove di uno spettacolo, che era stata organizzata esclusivamente tramite i social.

Alessandra Valerio presenta l’attività di promozione della cultura che Fondazione Cariplo porta avanti, dedicando circa 50 milioni di euro a progetti culturali in Lombardia. Le risorse vengono destinate in parti uguali alle attività culturali e al patrimonio culturale; i progetti per lo più vengono finanziati tramite bandi. Per il 2013, sono previsti 6 bandi già online, 3 nuovi bandi entro la primavera e 5 progetti in fase di gestione (tra questi: Progetto Laiv con le scuole superiori e il Progetto Être sulle residenze). La Fondazione ha sostenuto inizialmente le attività istituzionali degli enti culturali, ma è passata successivamente alla promozione di modelli organizzativi efficaci, orientati alla sostenibilità. Da tre anni è stato lanciato un piano d’azione dedicato alla partecipazione del pubblico alla cultura con tre bandi: il bando nuovo pubblico, il bando delle sale culturali polivalenti e il bando delle biblioteche di lettura. Il primo ha un budget di due milioni di euro, finalizzato alla crescita qualitativa e quantitativa del pubblico e a sostenere interventi di formazione; ha due scadenze annuali e, negli ultimi tre anni, sono stati finanziati circa 100 progetti. La Fondazione propone di promuovere, in questo modo, una conoscenza e una riflessione sul pubblico; si vuole incentivare la sperimentazione di meccanismi di partecipazione, attivare processi di rinnovamento e di ricambio generazionale, stimolare occasioni di incontro non convenzionali. I cambiamenti che la Fondazione vorrebbe stimolare sono nella direzione di una sempre più ridotta distanza tra i creatori di contenuti e i fruitori, di una maggior vicinanza ai bisogni del pubblico; si vorrebbe dare modo di sviluppare una nuova attenzione ai giovani e di permettere investimenti sulla formazione.
I progetti che sono stati finanziati hanno in comune una serie di elementi: alcuni si sono concentrati sul coinvolgimento dei fruitori nella conduzione culturale, nella programmazione o nella valutazione dell’offerta culturale; altri hanno sperimentato soluzioni su misura per un contesto specifico. Si tratta di un bando accessibile, che porta a sperimentare soluzioni innovative.

Oliviero Ponte di Pino annuncia uno scoop e chiama sul palco , Paolo Rossi, presentandolo come il ministro della Cultura del prossimo governo, per un’intervista fuori programma.
O.PdP: È stato molto noioso ascoltare gli interventi di tutta la giornata?

P.R.: È la prima volta che ascolto una conferenza teatrale... e non è stato affatto noioso. Magari la seconda...

O.PdP: Qualche commento a proposito futuro governo?

P.R.: Ho molti problemi ad andare a votare... Una volta sono stato anche candidato, ma non me l’avevano detto e non sono neanche andato a votare.

O.PdP: Si è parlato molto di ricambio generazionale e di pedagogia. Tu, che hai lavorato con giovani attori, quali consigli ti senti di dare?

P.R. Intanto datemi un consiglio. Io non prendo sovvenzioni dal ‘92. Dopo oggi, mi è venuta voglia di chiedere finanziamenti: dato che sono stato assente tanti anni, conviene che mi presenti come giovane o come vecchio?
Ho avuto molti e grandi maestri, non sempre generosi: Fo, Strehler, Gaber, Cecchi... Loro hanno dato tanto a me, ma anche io ho dato molto a loro. E lo stesso è successo a me: in un momento di crisi creativa, ho preso molto dai giovani.

O.PdP: Come portare a teatro il pubblico?

P.R.: A Piombino un ragazzo mi ha detto: «Io a teatro non ci vado perché sono ignorante». L’ha detto come appartenesse a un movimento. Io, comunque, faccio teatro popolare. Le ipotesi sono due: prendere un format basso e alzarlo o prendere un format alto e abbassarlo, così da lasciare l’opportunità di due letture.



Paolo Rossi ministro della Cultura "a sua insaputa" (dalla diretta di Studio28.tv).

O.PdP: Hai sentito gli interventi dei ragazzi dei teatri occupati. Che posizione hai rispetto a questo movimento?

P.R.: Mi sento vicino a queste esperienze, e sono stato molte volte al Valle; spero che queste occupazioni diventino anche dei momenti di produzione.

O.PdP: Avverti anche tu la crisi?

P.R.: Il teatro sperimentale dovrebbe ragionare sul prezzo del biglietto. I prezzi alti non creano una consuetudine nel pubblico... noi stiamo ragionando su come ridurre i costi.

O.PdP: Stasera ci vediamo al teatro Puccini alle 21?

P.R. Ah, io ci devo essere di sicuro!



(foto di Rosy Battaglia).

Oliviero Ponte di Pino, ringraziando Paolo Rossi per il suo intervento, riprende il filo del panel e introduce il contributo di Andrea Nanni che, essendo direttore di un festival, deve affrontare il problema di portare il pubblico a vedere creazioni “più strane”, rispetto ad altre realtà.

Andrea Nanni (Armunia) specifica questo elemento di “stranezza”, presentando il lavoro che Armunia svolge in special modo nei confronti dei giovani artisti del teatro e della danza.
Procede ad affrontare il tema della formazione del pubblico, individuando alcune nozioni fondamentali: la prima è il lavoro con le scuole, più che nelle scuole; la seconda è l’individuazione delle specificità del territorio su cui si opera – due aspetti da cui, a suo avviso, non si può prescindere.
I progetti con le scuole sviluppati da Armunia fanno riferimento a un lavoro piuttosto articolato: il percorso di laboratori nelle scuole è una sorta di progetto pilota a livello nazionale, realizzato in collaborazione con il Laboratorio Ichnos della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa e rivolto a classi dalle scuole elementari in su, in cui quattro operatori diversi si intrecciano, mescolando filosofia, danza, teatro e musica, rispetto a un tema individuato con gli insegnanti. Questo lavoro, specifica Nanni, si collega con una stagione teatrale che si svolge la domenica pomeriggio, rivolta alle famiglie, in cui la presentazione degli spettacoli è sempre accompagnata da un momento conviviale: i bambini hanno la possibilità di incontrare gli artisti che hanno appena visto in scena, facendo assieme merenda – di solito offerta da piccoli produttori locali individuati secondo certi parametri, come il biologico e la filiera corta.
Oltre il lavoro con le scuole, approfondisce, ce n’è uno più specificamente legato alla danza, rivolto alle scuole di danza della provincia di Livorno e realizzato in collaborazione con Virgilio Sieni e la sua Accademia sull’arte del gesto: ha già dato dei frutti importanti in questi anni, come spettacoli che hanno già avuto una tournée nazionale e che ora stanno per partire per Marsiglia, Capitale Europea della Cultura; il progetto quest’anno è proceduto: sarà declinato ulteriormente all’interno del festival Inequilibrio, che si svolge dal 28 giugno al 7 luglio.
Attraverso questo progetto, Nanni individua un’informazione molto importante, per quanto riguarda la formazione del pubblico: quella che non tutti coloro che prendono parte a questi percorsi, diventano poi dei professionisti; ma l’importante è che, in qualche modo, entrano dentro il meccanismo del fare e quindi acquisiscono una competenza che permette di porsi in modo diverso rispetto a ciò che vedono in scena. Lo stesso, riporta Nanni, è successo con un laboratorio diretto da Federico Tiezzi, che è stato due mesi in residenza e ha deciso di coinvolgere i membri di un coro non professionista di Rosignano, la Scuola Cantorum; alla fine dell’esperienza, moltissime persone sono andate a ringraziare di persona, perché, non solo si sono sentiti valorizzati rispetto alle proprie potenzialità, ma sono anche entrati nel meccanismo del fare, vedendo prendere forma uno spettacolo e sentendosi così partecipi di un percorso che andava ben al di là del fatto che, a un certo punto, loro vi partecipassero col canto.
Nanni passa al secondo aspetto, quello legato alle specificità del territorio, presentando il progetto Foresta bianca, realizzato con la complicità di Stefano Laffi, sociologo, e Matteo Balduzzi, curatore di progetti di arte pubblica: è consistito nel selezionare e formare un gruppo di ragazzi del luogo, di cui molti universitari, che hanno raccolto, attraverso delle registrazioni audio, le storie delle persone di Rosignano Marittimo, partendo dalle loro foto di famiglia. Si è dunque costruito una sorta di grande album di famiglia, raccogliendo un centinaio di storie; parte di queste verranno esposte in una mostra all’interno del Castello Pasquini di Castiglioncello – questo è un altro elemento, conclude, che permette di affrontare le specificità del territorio, perché è un tentativo di dare contributo alla ricostruzione del tessuto connettivo e sociale; infine, permette di portare le storie delle persone all’interno del Castello, che è il luogo più prestigioso, ma che come tutti i castelli possiede una dimensione aristocratica e quindi viene di norma vissuto con un certo distacco o timore.



(foto di Daniele Stortoni).

Oliviero Ponte di Pino coglie l’occasione delle esperienze presentate, per formulare una considerazione intorno a quello che appare come un cambiamento molto profondo del ruolo e della figura dello spettatore teatrale: ipotizza che quella che una volta era una divisione molto netta e pacificamente accettata fra chi sta in scena e chi sta seduto, fermo, spesso addormentato, a guardare, stia mutando, nel contesto di un passaggio graduale dallo spettatore tradizionale teatrale allo spettatore attivo.
Procede a introdurre l’intervento di Patrizia Coletta, che vertirà su un progetto di formazione della Fondazione Toscana Spettacolo, che, fra l’altro, ha supportato la logistica di questa edizione delle Buone Pratiche.

Patrizia Coletta (Fondazione Toscana Spettacolo) legge alcuni versi dal Prologo dell’Enrico V di Shakespeare: «Se può una semplice cifra su un foglio rappresentare in piccolo spazio un milione, concedete anche a noi gli zeri di questa grossa somma (…). Concedete di muovere la vostra fantasia; supponete, racchiuse dentro la cinta di queste mura, due monarchie potenti che dalle sponde opposte di un rischioso braccio di mare si guardano superbe e minacciose (…) Sopperite alla nostra insufficienza con la vostra immaginazione». Questo punto di vista è interessante, afferma, perché in questo momento c’è troppa realtà nella realtà, quindi, bisogna incominciare a chiedersi perché il pubblico continui ad andare a teatro, visto che la Fondazione ha chiuso la scorsa stagione con 10.000 presenze in più rispetto agli anni precedenti. La crisi di certo incrementa il bisogno di aggregazione e di stare insieme, ma non è solo quello.
Coletta procede a passare in rassegna alcuni numeri indicativi, utili a orientarsi per chi opera su un territorio tanto ampio, specifico e articolato: la Fondazione realizza 43 stagioni di prosa e danza, con 700 recite; 26 stagioni per l’infanzia e la gioventù, 13 rassegne di prosa, 6 di danza. Arricchiscono questi numeri 49 progetti speciali, 106 iniziative. Evidenzia come questo sia il riferimento della scelta artistica di cui si è parlato la mattina, con la Presidente della Fondazione.
Non essendoci margini di tempo per raccontare ognuno di questi percorsi, Patrizia Coletta ci tiene a evidenziare che tutto questo viene realizzato con artisti, università, enti del territorio e che, attraverso questa esperienza, si è scoperto che bisogna ricominciare dall’immaginazione e dal potenziale umano. Riporta l’esempio di una sala comunale parte del circuito che, qualche mese dopo il suo arrivo in Toscana, manifestava una flessione sugli abbonamenti: chiedendo delucidazioni, si è scoperto che la ragione era l’anzianità degli abbonati, di cui alcuni nel frattempo erano morti; altro caso, quello di una disattenzione su un altro Comune, che si è scoperta causata dalla componente di oltre 600 macedoni sui 1200 abitanti, forse interessati ad altri tipi di proposta rispetto a quella che veniva formulata.
Utilizza questi casi esemplari per segnalare come la Fondazione si sia accorta di avere bisogno di alleati per andare ad arare queste specificità del territorio; allo stesso tempo, segnala, c’era l’esigenza di dare risposte ai giovani, non solo artisti, ma anche operatori, così come di supportare le difficolta degli enti locali che aderiscono. Così, conclude, è nato proMOVE: un corso che ha portato ad avere venti persone oggi sparse sul territorio, che si sono riuniti in un gruppo, che si confronta al proprio interno e, per la Fondazione, è fonte di idee.
Maria Cristina Bertacca racconta la nascita del gruppo proMOVErs, che si è costituito all’interno del laboratorio proMOVE, un corso che ha avuto l’obiettivo di approfondire questa nuova figura specifica che è quella del promotore teatrale.
La Buona Pratica del gruppo è quella di praticare il lavoro di promozione teatrale secondo un’ottica di mediazione, non solo di marketing, perché il prodotto artistico è un evento da attraversare, prima, durante e dopo lo spettacolo. In questo, lo spettatore va considerato una figura di riferimento, di cui fidarsi e a cui affidarsi.
È importante avviare un’azione di sensibilizzazione verso il teatro, in modo da creare una reale comunità, che possa avere desiderio di esperienza teatrale, per scoprire il teatro insieme, in modo collettivo, e dare modo agli spettatori di confrontarsi rispetto a ciò che ogni singola esperienza teatrale lascia loro.
Il gruppo è eterogeneo, sia per provenienza geografica che per formazione e competenze: creare questa rete di promotori teatrali in Toscana, ma guardando al di là dei confini regionali, è molto stimolante, nell’ottica di realizzare un lavoro fattivo sul territorio, con la consapevolezza che se lo spettatore non va a teatro, dev’essere il teatro che va dallo spettatore: nelle case, nelle scuole... Conclude con una citazione da Aristippo di Cirene: «uno spettatore attivo è un cittadino migliore».

Vito Minoia (Teatri delle Diversità) rimarca il senso di comunità che si crea intorno alle Buone Pratiche. In Toscana, afferma Minoia, c’è poi un attenzione specifica al territorio, alla diversità del pubblico; non a caso è nata qui l’esperienza del teatro in carcere. E proprio in Toscana è stata ospitata la rassegna nazionale “Destini incrociati”, tre giorni di spettacoli che hanno mobilitato circa 1500 spettatori. È poi una regione, prosegue Minoia, con una progettazione specifica sul teatro sociale, Come rivista, Teatri delle Diversità si occupa della formazione del pubblico e della formazione di una riflessione critica: riuscire a dare spazio a diverse scuole di pensiero è fondamentale per meditare sugli errori e sulle devianze. Il teatro sociale si presta più degli altri a un rapporto nuovo e profondo con lo spettatore. Dall’incontro con le Buone Pratiche è nata l’idea di una nuova mappatura delle esperienze di teatro sociale e di comunità, da sviluppare tra Teatro delle Diversità e Ateatro e il Master di Teatro Sociale dell’Università di Torino. E anche la critica teatrale dovrebbe essere valorizzata in questo senso.


Le Buone Pratiche: formazione del pubblico e marketing

Lisa Cantini (Il Funaro) introduce il proprio intervento (Teatro – storie – saperi – saporiattraverso una breve introduzione de Il Funaro, un luogo di residenza e incubatore di progetti, ma soprattutto di formazione teatrale, sia professionale che di base – in una città come Pistoia, ciò significa: bambini, adolescenti, fino agli adulti. Quest’anno ci sono stati 150 iscritti.
Per arrivare a questo, puntualizza, si è attuata una Buona Pratica che è importante condividere. Si è attivato un processo di crescita organico: Il Funaro, cioè la casa, il contenitore, il luogo è arrivato in un secondo momento, quando il contenuto – il progetto – aveva bisogno di una nuova casa, più grande. Si è trovata una casa a un progetto: ogni spazio del Funaro ha un suo perché, era indispensabile poter ospitare gli artisti, avere una caffetteria che fosse un luogo di incontro, una sala teatrale ben attrezzata.
L’ufficio stampa, Elisa Sirianni, racconta, è stato inserito nell’organico soltanto nel 2011, con lo scopo di raccontare fuori dal teatro quello che succede dentro; in questo contesto, si è giunti alla consapevolezza che comunicare quello che si fa è un grande atto di generosità e condivisione reale verso il territorio che – rimandando agli interventi precedenti – si sta “arando”. Elisa Sirianni è andata a dare voce e parola a quello che si stava facendo.
Lisa Cantini conclude con una riflessione legata all’intervento di Salvatore Nastasi: l’elemento speciale del Funaro è che un ente privato; è verissimo che è difficile che un privato investa in cultura, ma in questo caso è successo. Si chiede: quando c’è un privato che investe risorse per dieci anni in un progetto che poi si rivela virtuoso, a quel punto, è possibile che il pubblico segua il privato, che lo appoggi e lo accompagni?

Inti Nilam presenta il progetto del Torino Fringe Festival (3-13 maggio), che è nato dell’esigenza di cambiare, persino le parole: non si parla di “bando”, ma di “chiamata alle arti”; non “conferenze”, ma “agorà”, non “salotti”, ma “colazioni, momenti di incontro libero”. Il Torino Fringe Festival riprende il modello di Edimburgo: si vuole permettere alle compagnie emergenti di lavorare al fianco di quelle affermate e ai produttori di cultura di incontrare il mercato, in un confronto tra chi produce e chi compra teatro. Il desiderio del Festival è quello di invadere la città: un’occasione di portare il teatro alla gente, senza aspettare che la gente vada a teatro. Ecco allora l’esigenza di cercare spazi non teatrali: le ARCI, le piazze, le chiese sconsacrate. La peculiarità sarà che le compagnie staranno in residenza e replicheranno lo spettacolo ogni giorno alla stessa ora per nove giorni. Abbiamo coinvolto il pubblico cittadino, già da ora: con feste e con richieste di ospitalità degli artisti presso le case. A Torino, conclude Nilam, ci sarà uno squarcio della normalità: quali saranno le reazioni?

Gianfranco Pedullà (Destini Incrociati)rappresenta la prima rassegna nazionale di Teatro in Carcere, che ha avuto la sua prima edizione a Lastra a Signa e nelle carceri di Firenze, Prato e altri; Destini incrociati è stato promosso dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e dalla compagnia Teatro Popolare d’Arte. Il sostegno istituzionale della Regione e il patrocinio del Ministero dei Beni Culturali, hanno consentito di fare una prima e unica esperienza di rassegna nazionale di quello che è stato prodotto in questo ultimo anno, il 2012, nelle carceri italiane – un movimento ormai ampio: sono più di 100 le esperienze da Palermo a Milano. Sono stati realizzati 15 spettacoli per 1500 spettatori, molti video e un dibattito finale.
L’importanza di questo confronto, segnala Pedullà, è stato l’emergere di diversità delle pratiche di lavoro e di metodo: il tessuto di una cultura di una nazione si misura dal teatro “medio” e non solo dalle punte più avanzate; in Italia c’è un grosso problema di tessuto medio e le esperienze di teatro sociale, compreso il lavoro svolto in carcere, ha a che fare con questo, come sperimentazione. È un punto di snodo tra il sociale e l’artistico, in cui i risultati ottenuti sono molto tangibili.
La rassegna è itinerante: di anno in anno, si sposta tipo carovana.
Riguardo alle considerazioni di Armando Punzo, è stato il primo a essere invitato e questa rassegna non è contro nessuno; anzi, l’esperienza del teatro in carcere si inserisce in anni del cambiamento del teatro italiano, dalla storica condizione delle tournée con il bisogno di territori nuovi – questo è quello che tutti stanno cercando di fare, per esempio con il sistema delle residenze a livello regionale. Parlando del pubblico, Pedullà dichiara di sentire di dover restituire alla comunità dei frutti culturali e delle verifiche pubbliche del lavoro che si svolge.

Oliviero Ponte di Pino introduce un momento di riflessione sull’editoria teatrale: chi si orienta sul mercato web, chi abbandona la carta per dedicarsi alla rete e chi intraprende il percorso opposto.

Mattia Visani presenta il progetto Cue Press, prima casa editrice italiana, orientata prevalentemente verso il digitale, che si occupa di libri sul teatro. Il cartaceo, spiega Visani, sarà rispolverato per alcuni materiali di eccellenza. ll nome della casa editrice è già orientato verso l’estero, con cui è previsto un fitto scambio: “Cue”, in inglese, è la battuta iniziale, il suggerimento, l’imbeccata.
L’obiettivo è quello di creare un catalogo di rilievo, andando anche a recuperare testi di scarsa reperibilità o fuori mercato: verranno pubblicati testi di Casini Ropa, De Marinis, Guccini, Savarese; ma anche opere di maestri scomparsi come Cruciani, Meldolesi, Zorzi; ancora testi della scena come quelli di Martinelli, Scaldati, Bucci e Sgrosso. Un progetto particolare sarà poi a cura di Andrea Porcheddu: una serie di guide sulla vita teatrale di alcune città del mondo (da Buenos Aires a Tunisi, da Parigi a New York), uno strumento utile per tutti quelli che si trovano in una città e, pur essendo appassionati di teatro, non sanno come orientarsi. La sostenibilià del progetto si fonda sull’entusiasmo, primo capitale della nostra impresa, chiude Visani: la disponibilità riscontrata testimonia la bontà dell’iniziativa. Abbiamo raccolto adesioni e slanci, a partire anche dall’amministrazione della città dove la casa editrice ha sede, Imola. Si tratta comunque di un progetto partito da basso e che punta a raccoglierne i meriti.

Teatro e Critica dalla rete alla carta (Simone Nebbia e Andrea Pocosgnich, Kleis Edizioni) A partire da un errore nel titolo dell’intervento (nell’ordine del giorno compariva la parola “e commerciale” invece di “&” fra “Teatro” e “Critica”, ndr), da cui può nascere in qualche modo un augurio in termini di sostenibilità, Simone Nebbia racconta di come Teatro e Critica sia diventata Kleis edizioni. Passa la parola ad Andrea Pocosgnich, direttore e fondatore di Teatro e Critica, chiedendo di esprimere le ragioni di questa nuova creazione, anche specificando come possa diventare una opportunità economica per un settore che, come quello della critica, non ne ha.
Andrea Pocosgnich evidenzia come, da diversi anni, si avverta la necessità di uscire dalla solitudine del web: oggi il critico può restare fermo nel proprio blog o nella propria rivista o diventare una figura che si “sporca le mani”. In questa partecipazione, racconta, si è capito che il momento successivo, dopo essere stati per alcuni anni a creare contenuti gratuiti sul web, era quello di provare sia a portare Teatro e Critica su carta – con il progetto Teatro e Critica on paper, il numero zero su carta “stampabile”, perché la scelta finale resta all’utente, che può decidere se continuare la propria lettura in digitale o stamparla – e di creare una piccola casa editrice, che al momento si sta muovendo su due progetti: la collana Ariel, sperimentata con Teatro Minimo di Michele Santeramo e Michele Sinisi quando sono venuti al Valle Occupato di Roma per il loro spettacolo La Rivincita, che si esprime con contenuti originali (articoli, interviste) e interventi grafici, in questo caso, di Renzo Francabandera, è dedicata alle compagnie che interessano, con cui si condivide un progetto e una visione estetica e sociale. L’altro progetto è molto più vicino a Cue Press – si vedrà come incrociarli – e nasce da una consapevolezza della carenza dell’editoria teatrale italiana per quanto riguarda la scoperta di giovani autori, ma soprattutto stranieri; il tentativo che ha preso forma è quello di provare, attraverso una rete di colleghi di altri Paesi, a cercare nuovi drammaturghi, tradurre le loro opere e pubblicarle in versione digitale. A quel punto, le compagnie potranno disporre di un database di testi.
Simone Nebbia contestualizza la nascita di Kleis edizioni, puntualizzando come non si tratti della fondazione di una casa editrice in termini classici: il tentativo è quello di muovere, ancora una volta, sul terreno della concorrenza, avendola sempre pensata in termini di condivisione; ad esempio, sono presenti Maddalena Giovannelli di Stratagemmi e Roberta Ferraresi del Tamburo di Kattrin, con cui, in questi anni, si sono strutturati dei rapporti di concorrenza, che hanno fatto in modo che l’ambiente si allargasse e si incrementasse la partecipazione.

Michela Paolucci presenta il progetto ECLAP, una biblioteca digitale nel campo delle arti e dello spettacolo, che raccoglie e aggrega contenuti con il coordinamento della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Firenze. Gli obiettivi sono quelli di operare in questo settore e di fornire servizi alle istituzioni e agli archivi, nell’ottica anche di una promozione a livello europeo (in particolare nel rapporto con “Europeana”, la biblioteca digitale promossa dalla Commissione Europea). Il portale di ECLAP raccoglie materiali e contenuti (circa 300 000 contenuti, tra video, audio, 3D) spesso accessibili online per la prima volta. ECLAP ha organizzato conferenze per divulgare il progetto (in quella del 2011 hanno partecipato Dario Fo e Franca Rame). Si può prendere parte al progetto sia come singoli che come istituzioni.

Oliviero Ponte di Pino porta a chiusura la giornata, con l’ultimo intervento di Monica Amari è l’autrice del Manifesto per la sostenibilità culturale: le Buone Pratiche 2013 si sono inaugurate, la mattina, con considerazioni intorno a questa tematica, dunque chiede, oltre di presentare il Manifesto, anche le proprie impressioni sulla giornata di oggi in relazione alle questioni affrontate.

Il manifesto per la sostenibilità culturale (Monica Amari, Armes progetti)
Monica Amari, che si occupa di politiche culturali, in particolare relativamente allo spettacolo, ringrazia innanzitutto Lucio Argano, per il suo riferimento al concetto di diritti culturali, su cui si fonda questa riflessione sulla sostenibilità culturale.
Passa a spiegare cosa sia Il manifesto per la sostenibilità culturale: è un manifesto e una campagna di adesioni. La riflessione nasce dall’indignazione: continuano a tagliare tutti questi finanziamenti alla cultura, precisamente dal momento in cui Tremonti si permise quelle curiose esternazioni in cui affermava che con la cultura non si mangia, triste storia del nostro passato politico. Il libro parte dal concetto di sostenibilità culturale e non nasce solo dall’indignazione, ma anche dalla volontà di capire perché si continuano a tagliare in modo spudorato i fondi alla cultura e non ci si ribella, perché non si hanno gli strumenti anche per andare in piazza.
Cominciando a riflettere, Monica Amari si è accorta che c’è un motivo, che è possibile rintracciare nel 1998, quando l’Unione Europea, con il Trattato di Lisbona, ha dettato il nuovo modello di sviluppo, basato su tre fondamenti: sostenibilità ambientale, economica e sociale; non si è mai menzionata la sostenibilità culturale.
Spiega in cosa consista il concetto di sostenibilità: significa, per una società, creare quelle condizioni necessarie per generare processi – di vita in contesto ambientale, economici e sociali, se si parla rispettivamente di sostenibilità economica e sociale. Tali condizioni necessarie per instaurare questo tipo di processi legati alle tre sostenibilità si creano dando finanziamenti; difatti, si nota, che, parlando di sostenibilità economica, si hanno i contributi alle imprese; per la sostenibilità ambientale è nata la green economy; in ambito sociale, ci sono gli aiuti alla sanità. Non si parla, evidenzia Amari, di sostenibilità culturale, che ha messo a punto una definizione: la sostenibilità culturale sono quelle condizioni necessarie per creare processi culturali che, come per gli altri campi, necessitano di finanziamenti e non di tagliarli. Non è più possibile continuare a dire che, in ambito culturale, è necessario inventare mille modi per fare economia.
L’errore del 1998 del Trattato di Lisbona, di non identificare la sostenibilità culturale fra i modelli di sviluppo, riassume, ha portato a questi continui tagli ai finanziamenti. Monica Amari si chiede perché l’abbiano fatto e a cosa serva la cultura: serve fondamentalmente a creare valori, risponde, cioè a creare modelli di comportamento condivisi, ma soprattutto a creare quei processi di interiorizzazione delle regole, a creare etica. Allora, ipotizza, che tutto questo processo di tagli sia parte di un piano prestabilito, per far sì che i Paesi vadano a catafascio perché non c’è più etica da nessuna parte; mentre la cultura serve a dare etica. Se si riflette, in nome della sostenibilità economica sono stati dati fondi al Monte dei Paschi di Siena; mentre, per la cultura, non esiste questo concetto.
Amari conclude, arrivando alle proposte concrete: occorre aumentare i finanziamenti alla cultura a livello europeo, non nazionale. Per questo, è necessario fare un nuovo patto di sostenibilità culturale, come si è riusciti per l’equilibrio economico, per cui tutti gli Stati membri debbano dare alla cultura l’1% del proprio Pil; oppure si può fare una campagna di adesione: attraverso la direttiva europea, raccogliendo un milione di firme in tutta Europa, si può far diventare legge un’iniziativa popolare. Sul suo sito si stanno raccogliendo le firme: 194, fino a oggi. Perché non chiedere all’Unione di aumentare i finanziamenti alla cultura?, si chiede: forse, a partire da questo palco, ci si potrebbe riuscire.

Mimma Gallina conclude le Buone Pratiche 2013, ringraziando Monica Amari per il suo intervento: non è sufficiente avere un sistema di regole migliori, per cui si prende un po’ da una parte e un po’ dall’altra, assemblando qualche istituzione storica e non avendo comunque le risorse sufficienti. Che le risorse possano arrivare da forme inedite, come la defiscalizzazione, va benissimo, purché arrivino alla cultura, perché si è troppo al di sotto delle proprie necessità e della media europea. Questi aggiustamenti vanno benissimo per affrontare l’emergenza, ma in prospettiva non sono sufficienti.
Rimanda alla prossima iniziativa delle Buone Pratiche, che si svolgerà l8 aprile a Milano: l'incontro con il titolo Giù al Nordoffrirà una approfondita (e provocatoria) riflessione sulle funzioni e lo sviluppo del teatro pubblico, che a Nord si è sviluppato, proponendo un’analisi delle funzioni del teatro pubblico, in particolare dei rapporti fra questo e la città.



L'ultimo tagcloud delle Buone Pratiche.



 

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