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[Un teatrino dell'Io]

ISSN 2279-9184

Il teatrino dell'Io: piccolo manuale di sopravivvenza nell'era di Internet

Un teatrino dell'io [5: L'Enciclopedia dei morti]
Un manuale di sopravvivenza su Internet, un romanzo di formazione a puntate
di Oliviero Ponte di Pino


 
Un teatrino dell'io [4: la mia icona, ovvero un quarto d'ora di celebrità]
Un manuale di sopravvivenza su Internet, un romanzo di formazione a puntate
di Oliviero Ponte di Pino


 
Il teatrino dell'io [3: drammaturgia elementare]
Un manuale di sopravvivenza su Internet, un romanzo di formazione a puntate
di Oliviero Ponte di Pino


 
Il teatrino dell'io [2: password]
Un manuale di sopravvivenza su Internet, un romanzo di formazione a puntate
di Oliviero Ponte di Pino


 
Il teatrino dell'io [1: username]
Un manuale di sopravvivenza su Internet, un romanzo di formazione a puntate
di Oliviero Ponte di Pino


 

 

Il teatrino dell'io [1: username]
Un manuale di sopravvivenza su Internet, un romanzo di formazione a puntate
di Oliviero Ponte di Pino

 

Mi stanno chiedendo di scegliere il mio username.
Non è necessariamente il mio vero nome, può essere il mio nickname, il mio nomignolo.
Insomma, il mio nome così come voglio che appaia, così come lo vedranno tutti. Non è necessaro che sia il nome che mi hanno dato i miei genitori, quello scritto sui miei documenti.
E' un nome che mi scelgo io. Mi battezzo.
Scelgo un soprannome. Un po’ come nei paesi e nei borghi, dove tutti hanno un nomignolo che sottolinea un tratto fisico, la somiglianza con un animale, oppure il quartiere o la frazione d’origine, il mestiere tramandato da generazioni, o una qualche bizzarria del carattere, o magari la storpiatura infantile del mio vero nome.

Devo indicare anche la mia password, la mia parola d'ordine, la chiave per accedere ai miei dati e modificarli. Il mio nome segreto, il nome che conosceremo solo io e Lui.
Alcuni siti mi dicono, già mentre la digito per la prima volta, se mia password è abbastanza segreta, o se è troppo banale e dunque facile da “craccare”. Perché qualcuno cercherà, prima o poi, di rubarmela. La mia password è preziosa. Ci sono ditte che per una modica somma (100 dollari, da pagare solo in caso di successo) sono in grado di fornire le password per qualunque account di posta, social network, ma anche per accedere a conti bancari e carte di credito.
Compilo le due caselle sullo schermo, nella prima scrivo “olivieropdp”, quello che scrivo nella seconda non te lo posso dire, è un segreto tra me e Lui.

E' un gesto che con ogni probabilità hai compiuto anche tu, più di una volta. Per aprire una casella di posta, per iscriverti a un forum, per fondare un blog, per abbonarti a una testata online, per entrare in un social network...
E' un gesto che prima di noi hanno già compiuto milioni di esseri umani. Fin dalla notte dei tempi. Perché, anche se non me ne accorgo, quello che sto compiendo è un piccolo rito, una cerimonia di iniziazione. E' quello che gli antropologi hanno definito “rito di passaggio”: può segnare la transizione a una diversa classe d'età (la cresima, il bar mitzvà), l'ingresso in un gruppo totemico, l'adesione a una religione (il battesimo), l’affiliazione a una società segreta...
Nelle società primitive, tutte le tappe principali dell'esistenza erano scandite da cerimonie come queste, che costruivano l'identità personale e sociale, e rendevano questa identità visibile a tutti. Nelle società moderne, di queste strutture è rimasta solo qualche vaga traccia: riecheggia per esempio nell'enfasi che accompagna, ogni anno, l'esame di maturità. Più spesso ormai compiamo i nostri riti di passaggio senza nemmeno accorgercene, inconsapevoli. Come in questo caso. Forse è anche per questo che restiamo eterni bambini: non ci sono più i riti che ci fanno adulti. Ma forse per qualche adolescente entrare in un social network significa ancora “diventare più grandi”.

Non me ne sono accorto, ma mentre digito quelle due parole – nome e password – la mia identità sta già cambiando. Così come cambia se mi iscrivo a un partito o a un sindacato, se aderisco a una setta o a un fan club: resto quello che ero prima, ma in più sono anche un'altra cosa.
(segue...)


 


 

Il teatrino dell'io [2: password]
Un manuale di sopravvivenza su Internet, un romanzo di formazione a puntate
di Oliviero Ponte di Pino

 

Il mio nickname lo vedranno tutti. Sarà come una di quelle firme – i tags colorati e fantasiosi – che i writers scrivono ossessivamente ovunque: sui muri, sui cavalcavia, sui vagoni dei treni e della metropolitana con le bombolette di vernice spray, oppure con il pennarello sul sedile dell’autobus o del treno. Quel nome potrebbe diventare un brand – per ora è solo un marchio vuoto, che non rimanda a nulla e che non vale nulla. Ma io forse, grazie alla rete, riuscirò a trasformare il mio nickname in un brand di valore inestimabile. Ce l'hanno fatta in tanti, non vedo perché non ci debba riuscire io. Ma come scelgo il mio nome, quello che tutti vedranno? Alcuni, quando devono compilare la fatidica prima casella, digitano semplicemente il loro vero nome, o addirittura nome e cognome: “Questo sono io e questo resterò”. Anche nel regno del virtuale. Alcuni social network, come www.facebook.com e www.LinkedIn.com, incoraggiano questa scelta, o addirittura la impongono. In altri casi, è consigliabile l'anonimato: il boom dei blog in Iran (che inizia nel 2003 e rivelerà la sua forza in occasione della rivolta dopo i brogli elettorali dell'estate 2009) è opera di autori che, in un regime repressivo, per esprimere le loro opinioni non potevano far altro che usare uno pseudonimo. Qualcuno si nasconde dietro un'identità fittizia per scopi inconfessabili, oltre la barriera del codice penale. L'esempio più classico – fonte di periodiche ondate di panico morale – è il pedofilo che indossa la maschera della ragazzina quattordicenne e usa i social networks e le chat come terreno di caccia. Naturalmente a tendergli l’agguato c’è un’altra maschera: quella dell’investigatore che per smascherarlo finge di essere un’altra ragazzina in cerca di nuove amicizie, oppure indossa i panni del pedofilo a caccia di nuovi brividi. Qualche impostore ruba l'identità di un altro: magari una star, magari il suo idolo... Per beffa, o sperando in qualche beneficio più o meno lecito, come si deduce dalla dichiarazione di un giovane idolo cinematografico amato dalle adolescenti: “I vari Riccardo Scamarcio che ci sono su Facebook non sono io, soprattutto quello che chiede il numero di telefono alle ragazze...”, ha voluto precisare l’attore. La maggioranza degli utenti di internet preferisce adottare un nickname, un soprannome, magari ironico, che sveli e nasconda. Albert “Segvec” Gonzales, che nell'agosto 2009 ha rubato i dati dei clienti di 130 milioni di carte di credito, aveva scelto come nickname “soupnazi”: un omaggio a un personaggio della serie Seinfeld, un cuoco pazzo che preparava una minestra squisita ma poi decideva del tutto arbitrariamente a chi darla e a chi no. Guardo tra i frequentatori della mia pagina su qualche social network: Zampabella e Monica74, AmorAmaro e AnnieSenzaIlPulcino (Rosso), Oiriled (la leggere al contrario, naturalmente) e Princess, Gurdulù e razione k, bubujo e bibi2, Mademoiselle Sorel (come ho fatto a non innamorarmi di lei?) e SR... Gli amici intimi, anche se non sono già stati informati, il mio nickname lo riconosceranno subito. Per gli altri, la mia identità sarà solo un simpatico mistero.
(segue...)

 


 

Il teatrino dell'io [3: drammaturgia elementare]
Un manuale di sopravvivenza su Internet, un romanzo di formazione a puntate
di Oliviero Ponte di Pino

 

Con ogni probabilità, il rito iniziatico a cui sto partecipando era cominciato qualche tempo prima che leggessi sullo schermo quella scritta accattivante e innocua – “Sign up now!”, “Join-in” o addirittura “Join us now!” – che mi invita ad aderire, a iscrivermi subito. Diventare dei “nostri” è così facile.
Forse sto seguendo il consiglio di un amico che mi ha spiegato che non costa nulla e regala tantissimo in cambio. Forse mi è arrivata una mail: quella mia amica non vede l'ora di incontrarmi proprio lì, in rete. Forse ho scoperto che l'hanno già fatto molti di quelli che conosco: dunque è di moda e non posso restare indietro. Forse ho letto qualcosa su una rivista o su internet, che mi ha spiegato perché dovevo farlo, e come farlo.
Con ogni probabilità, il rito iniziatico non si è ancora concluso. La nostra conversazione è appena cominciata. Le due parole magiche non sono sufficienti. Dopo aver accettato il mio nome (che dev’essere unico, solo mio) e la mia parola chiave, Lui – chiunque sia – prosegue l’interrogatorio. Se voglio entrare nel cerchio magico, se voglio essere anche io dei “nostri”, devo rispondere ad altre domande: probabilmente l'indirizzo, la data di nascita (sembrerò un vecchio, in quel paese di adolescenti?), il sesso (sembrerò il solito maschio attempato e arrapato?), la mia situazione sentimentale (sono single? oppure fidanzato?, no, no, sposato... ma a Lui che cosa gliene frega?). Il dialogo può proseguire a lungo, secondo un copione predeterminato, videata dopo videata. Se qualcun altro – una persona vera, incontrata per la strada o al bar – mi facesse tutte queste domande, di certo mi insospettirei. Mi chiederei subito: “E' uno sbirro?”, oppure “Che cosa vuole vendermi?”. E insomma, “A che cosa gli servono tutte queste informazioni su di me?”.
Ma Lui sta facendo tutte queste domande per aiutarmi meglio, questo è sottinteso. E poi, se non rispondo alle domande non avrò questa possibilità. E' vero, all'inizio sembra un verbale d'interrogatorio, con i dati anagrafici e lo stato civile, ma pian piano può diventare più personale: Lui vuol conoscere i miei hobby, gli sport che pratico, il gruppo musicale, le canzoni, l'attore o il film preferiti, i marchi che amo, dove mi piace andare in vacanza...
Se una delle mie riposte non è soddisfacente – che so, un codice di avviamento postale di 4 cifre invece delle regolamentari 5 – Lui subito si blocca, mi rimprovera (di solito con una bella scritta rossa!), mi segnala l'errore e mi invita a correggere. Se non rettifico, oppure se non gli dico tutto quello che vuole sapere, la cerimonia si interrompe. Niente cerchio magico...

Naturalmente posso mentire, e molti lo fanno. Di sicuro mento anch’io, almeno una volta: quando alla fine della nostra conversazione Lui mi chiede se ho letto e se sottoscrivo tutte le condizioni contrattuali che mi propone, e se le accetto. Non leggerò certo tutte quelle pagine fitte fitte, un contratto stilato nella lingua indecifrabile degli avvocati, che minaccia processi in tribunali lontanissimi. Quello che mi importa è ottenere subito tutti i privilegi (gratuiti) che Lui mi ha promesso. Dunque accetto: ho letto e sottoscrivo, mi iscrivo. Lui sarà contento. Però ho mentito. Di sicuro tra tutte le clausole del contratto che ho appena sottoscritto, ce ne dev'essere una che intima che a Lui non si può mentire, pena l'esclusione dal cerchio magico. Ci sono appena entrato, e già non sono degno. Ma evidentemente questo è un peccato veniale: è la menzogna con cui mi sottometto alla Sua volontà.


 


 

Un teatrino dell'io [4: la mia icona, ovvero un quarto d'ora di celebrità]
Un manuale di sopravvivenza su Internet, un romanzo di formazione a puntate
di Oliviero Ponte di Pino

 

Peraltro Lui conosce già il mio IP, ovvero il numero che permette di identificare univocamente il pc dal quale mi sono connesso. Sa anche altre cose, per esempio il tipo di browser che utilizzo. E’ in grado di posizionare nel mio pc un cookie, poche righe di codice che gli permetteranno di capire che mi sono già collegato a Lui, così potrà richiamare all’istante dalla sua memoria tutti i dati che ha immagazzinato su di me.

Ho risposto a un numero sufficiente di domande in maniera credibile. Ho accettato le condizioni contrattuali. Sono finalmente entrato nel cerchio magico. Faccio parte della comunità: da una parte ci siamo”noi”, poi ci sono “gli altri”, “loro”. E' gratis.

Ma posso fare di meglio, e Lui lo sa.
Ora mi chiede di inserire un’icona. Un'immagine. La mia immagine.

Anche qui, le soluzioni sono variegate. C'è chi mette una sua foto, riconoscibile, stile carta d'identità. Del resto, quello a cui sono appena stato sottoposto sembrava davvero un interrogatorio: andrebbe benissimo una foto segnaletica... Qualcuno preferisce proporre una foto di sé in azione, mentre è impegnato in qualche attività che ritiene significativa. Qualcuno gioca a “Vedo non vedo”: sceglie un'immagine difficilmente riconoscibile, confusa, magari mossa, oppure sfuocata, e in ogni caso volutamente allusiva: “Quello che vedi potrei essere io, ma per vedere un volto che puoi riconoscere devi impegnarti di più....” Qualcuno sceglie come totem il gatto o il cane di casa, o il suo animale preferito. Altri imboccano la strada della metafora – un fiore, una motocicletta, un oggetto. Molti puntano su un personaggio dei fumetti o dei cartoni animati: gli altri fan capiranno subito, è un sapere generazionale condiviso, l’adescamento è pressoché infallibile.
E' una scelta delicata, quella dell'immagine. La mia capacità di intessere relazioni sociali su questa nuova scena dipende in buona parte dall’effetto di quella immagine: se il mio look incuriosirà o se respingerà i visitatori (e le visitatrici) della mia pagina, e anche se incuriosirà quelli giusti...

All'inizio degli anni Sessanta Andy Warhol, il genio della pop art, dichiarò che nella società contemporanea, dominata dai mass media, ciascuno di noi aveva diritto a un quarto d'ora di celebrità: la sua profezia si è avverata, addirittura oltre le sue capacità di previsione.
In una serie di opere celeberrime (dal valore proporzionato alla loro notorietà), Warhol ritrasse alcune delle personalità più famose del momento: il Grande Timoniere presidente Mao Zedong, la suprema diva del cinema Marilyn Monroe, il re del rock Elvis Presley e “O Rey” del calcio Pelé, o il moonwalker Michael Jackson, e naturalmente il sommo artista Andy Warhol (e altrettanto naturalmente tutti i ricchi e famosi, a cominciare da Gianni Agnelli, fecero a gara per farsi inserire in questa galleria di ritratti).
Warhol sceglieva un'immagine già nota, e dunque facilmente riconoscibile; ne semplificava i lineamenti attraverso alcuni procedimenti fotografici; la trattava con colori allegri e vivaci; o meglio, stampava diverse volte l'immagine e la colorava variando toni e tinte, sottolineando alcuni tratti. Trasformava la foto in un'icona, la persona in un divo, il ritratto in un marchio.

Io, senza essere famoso (e senza essere mai stato ritratto da Warhol), sono un personaggio semi-pubblico: per il lavoro che faccio, per le mie apparizioni radiofoniche e televisive, per i libri che ho pubblicato, e soprattutto perché sono in rete da molto tempo (Anni fa “Affari & Finanza” di “Repubblica” mi ha definito “blogger storico”: ormai dovrei essere stato promosso “blogger preistorico”).
Dunque inutile inventarmi identità troppo giocose, tanto prima o poi mi scoprirebbero: per questo ho deciso di mantenere il mio solito nickname, e ora scelgo un'immagine dove non mi sembra di apparire troppo disgustoso, ma dove resto in ogni caso riconoscibile. Ma forse farei meglio a cercare un amico in grado di farmi un ritratto alla Warhol...
 


 

Un teatrino dell'io [5: L'Enciclopedia dei morti]
Un manuale di sopravvivenza su Internet, un romanzo di formazione a puntate
di Oliviero Ponte di Pino

 

Anche in questo caso, non me ne sono accorto. Però ho appena compiuto un gesto che milioni di esseri umani hanno compiuto prima di me. Fin dalla notte dei tempi.
Ho appena indossato una maschera. Che questa maschera sia il mio volto, importa poco. Perché questa è l'immagine che mi renderà riconoscibile su questa scena.
La maschera è da sempre uno degli elementi più affascinanti e misteriosi del teatro: è il volto dell'altro, chi l'indossa modifica la propria identità.
La maschera è anche il volto della morte. Dopo che abbiamo esalato l'ultimo respiro, il nostro corpo comincia a decomporsi. La trasformazione più devastante è quella del volto: il volto che abbiamo visto quotidianamente, il volto che abbiamo accarezzato, baciato... Non sorprende che alcune tra le più antiche e affascinanti opere d'arte siano proprio maschere mortuarie, che cercano di nascondere la decomposizione del volto bloccandola per sempre in un’immagine ideale: la cosiddetta “maschera di Agamennone” tutta d’oro e pietre preziose ritrovata a Micene, le sculture dorate e azzurre che coprono i sarcofaghi egizi, i toccanti e vividi ritratti che corredano le mummie ritrovate nel Faiyûm, tra le sabbie del deserto egiziano.
Quando un adolescente si arma fino ai denti, entra nella propria scuola e inizia a sparare all'impazzata contro studenti e professori, e poi finalmente si fa abbattere dalla polizia (o, più spesso, si spara in bocca o alla tempia, con l’ultima cartuccia), la prima cosa che fanno milioni di internauti è andare a vedere il suo sito, o il suo blog, dove la strage che si è appena compiuta era già stata annunciata nei dettagli, anche se nessuno ci aveva fato caso: gli autoscatti del killer, le armi, le minacce, i proclami deliranti... Prima quelle pagine sembravano ridicole, le sbruffonate di un adolescente inquieto e nemmeno troppo simpatico, ora sono il sigillo della tragedia. Il loro autore è già morto, però la sua maschera è ancora lì.
Certo, questi sono casi estremi, che suscitano l’interesse professionale di giornalisti, poliziotti, avvocati e magistrati. Ma poi viene da chiedersi che cosa succede, dopo, alle pagine di chi muore. Vanno disperse? Si spengono pian piano, man mano che scadono le registrazioni dei domini, via via che il blog – che non viene più aggiornato da tempo – viene disattivato?
Forse tutto il materiale che stiamo mettendo in rete andrebbe preservato, e qualcuno in effetti ci sta provando, con vari progetti di archiviazione. Potrebbe divntare il primo nucleo della Enciclopedia dei morti sognata dallo scrittore Danilo Kiš, un'opera in migliaia di volumi dove sono raccolte solo le voci dedicate a persone che non compaiono in nessuna altra enciclopedia. la massa sterminata degli ignoti raccntati in un "incredibile amalgama di concisione enciclopedica e di eloquenza biblica".

 


 
 
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