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Luca Ronconi
 
Strano interludio

(a. Eugene O'Neill)
(sc. Margherita Palli)
(c. Carlo Poggioli, Gabriella Pescucci)


traduzione: Bruno Fonzi
regista collaboratore: Angelo Corti
musiche: Paolo Terni
luci: Max Keller
maschere: Salvatore Placenti

con ( in ordine alfabetico ) Paola Bacci, Riccardo Bini, Massimo De Francovich, Maurizio Gueli, Massimo Popolizio, Galatea Ranzi, Alvia Reale, Matteo Rolfo, Edoardo Scatà

Produzione Teatro Stabile di Torino


Torino, Teatro Carignano
01/03/1990



dal "Patalogo 13" (Ubulibri, Milano, 1990)
per gentile concessione della Associazione Ubu per Franco Quadri

Questa è una lunga commedia in cui siamo doppiamente fuori parte e perché dobbiamo interpretare dei giovani, che mano a mano invecchiano e perché siamo messi a confronto, quasi brutalmente, con caratteri molto lontani dal nostro.
Riccardo Bini (Intervista di Donata Gianieri, Stampa Sera - 4 gennaio 1990)

Non c'è niente davvero che mi possa accomunare al personaggio. Però è un bene: più uno è distante e meglio recita. Più si è coinvolti, meno si è naturali, perché il testo magari sollecita corde delicate, che non si vorrebbe neppure sfiorare. Sì, lontani è meglio. In questo senso le maschere aiutano: sei talmente diverso che ti puoi scatenare. Tanto hai la maschera che ti protegge.
Massimo De Francovich (Intervista di Clara Caroli, La Repubblica - 5 gennaio 1990)

Darteli è un uomo di scienza che passa la vita ad analizzare tutto. Analizza ciò che gli accade e che accade intorno pensando di poter decidere, in modo scientifico, della propria e dell'altrui felicità. È come una lamiera che progressivamente si contorce. Si lascia troppo coinvolgere dalla vita per amore di Nina e dalla vita non ottiene, forse per eccessiva buonafede, quello che si sarebbe aspettato. Non mi trova d'accordo il suo atteggiamento, tutto quello che io condivido con lui è questo senso viscerale di paternità che vince persino il distacco forzato che lui cerca dì imporsi. Perché la paternità è un richiamo biologico, cromosomico, che ha a che fare con l'istinto e la natura.
Massimo Popolizio (da un'intervista di Clara Caroli, cit.)

È stato un lavoro difficile, lungo e minuzioso appropriarsi del carattere di Nina. E credo che lo stesso sìa accaduto ai miei colleghi. I personaggi dì O'Neill sono aldifuori della realtà. Sono dei mostri dai quali noi abbiamo dovuto tirar fuori gli aspetti più istintivi e animaleschi.
Galatea Ranzi (Intervista di Clara Caroli, cit.)

Romanzesco e melodrammatico, il drammone di O'Neill è stato preso, per così dire, 'alla lettera' da Ronconi che sembrerebbe averlo stravolto, ma che ne ha invece ricavato una specie di Dinasty 'ante litteram', lanciando spavaldamente in primo piano l'America puritana di quegli anni, la commistione scienza-filosofia, le formidabili pulsioni erotiche in un fraseggio - rischioso, ma scenicamente, avventurosamente riuscito - che è tutto un gran serrare di pugni, un ripetersi di misurati amplessi, una 'danza' che è quasi 'macabra' come l'avrebbe voluta, appunto, Strindberg.
Giorgio Polacco ( Corriere di Pordenone - 9 febbraio 1990)

C'è insomma, in questo testo ambizioso e smisurato, ingenuo e barbarico, un fondo di disperazione, di tetraggine biblica, che rende pateticamente pregnante la sproporzione fre quantità e qualità, fra mezzi impiegati e produzione di senso; e la mia ipotesi è che sia stata appunto questa sproporzione ad affascinare Ronconi, e a determinare l'approccio tonale e figurativo.
Giovanni Raboni ( Corriere della Sera - 5 gennaio 1990)

La regia di Ronconi è simile a uno sguardo dall'alto che osserva tutti i personaggi e ne fotografa tutte le contraddizioni, le goffaggini, il loro premere convulso alla ricerca di una malnota felicità. Commedia del possesso ancor più che dell'amore, la 'macchina' funziona a forza di machiavellismi, ingenuità, istrionismi, dissimulazioni ed esibizioni: una fantocciata drammatica impastata di orgoglio, gelosia, meschinità, involontario umorismo. Proprio come dice Nina, che alla fine vede la vita alle sue spalle come 'un pasticcio di amore e di odio e di dolore e di maternità'. La vena di umorismo che scorre all'interno dello spettacolo ronconiano consiste semplicemente nello scoprire i fili che muovono le marionette: la crudeltà e l'accanimento di stampo strinberghiano possono, allora, apparire quasi derisori. Anche la separazione tra battute pronunciate e battute pensate, che a suo tempo rese famoso il dramma, è superata nel senso che tutti e due i flussi, quello pubblico e quello segreto, sono ricondotti a un unico flusso narrativo dove, se le parole dichiarate sono menzogne di fronte agli altri, le parole segrete possono essere inganni di fronte a se stessi. Coerentemente con le premesse il registro di recitazione scelto da Ronconi per questa parabola romanzesca è quello di una corda tesa nella direzione dell'astrazione o dello straniament e Togliendo corpo alla verosimiglianza dei personaggi, quella astrazione così esplicita riproduce la tensione quasi insensata che li pervade. Similmente, il tema del lungo viaggio nel tempo è espresso con una nitida metafora visiva nella bella scena di Margherita Palli: che è costruita sullo spaccato di un vagone ferroviario (un vagone italiano intorno agli anni Cinquanta) ed è straniata dalla sovrapposizione di arredi, dagli spostamenti di prospettiva dello spaccato, dai colori e dalle luci.
Renzo Tian ( Il Messaggero - 5 gennaio 1990)

Il viaggio di O'Neill però, lungo quell'interludio, si svolge anche nelle facce degli attori, scelti dalla regia giovani e giovanissimi, ma coperti da maschere che cambiano seguendo il corso dell'età, lasciando solo sempre scoperte bocche espressionistiche per una recitazione fortemente antinaturalista. Che se all'inizio fa risaltare la scelta dello straniamente, via via scopre la forza dirompente della non-psicologia, una comunicazione mediatica e inconscia, totale come può esserlo quella che è la suggestione per eccellenza del nostro secolo, il cinema con i suoi volti e le sue voci, i suoi fantasmi dorati e la presa magnetica delle sue luci forti, qui citate nelle violenze monocromatiche del primo, caldissimo technicolor.
Gianfranco Capitta ( Il Manifesto - 5 gennaio 1990)

In fondo, sembra dire Ronconi contro un suggerimento di O'Neill, anche Strano interludio può calare dietro uno schermo di materia questi simboli, queste metafore viventi di solitudine. Che (Galatea Ranzi, ossia Nina, in testa) tengono in contrappunto sonoro continui vuoti e pieni della drammaturgia di O'Neill: torcendo i toni in interrogativi, allentando e sovvertendo le appoggiature, strascicando e alzando verso il senso generale e lontano dalla psicologia le battute. I monologhi interiori, o la traduzione verbale del pensiero che spesso i personaggi usano come altrettanti 'a parte', vengono livellati. Capita così che un contrasto stridente tra pensiero e parola, specialmente nel primo e second'atto, produca uno straniamente comico in più.
Sergio Colomba ( Il Resto del Carlino - 5 gennaio 1990)

Strano interludio turba e affascina con le sue molte armi: è melodramma e sperimentazione, è furore fisico e illuminazioni psicologiche e riflessioni dell'anima, è intrigo e mito, demistificazione e destino, volontà e sacrificio, spettri ritornanti e solitudini invincibili. La filosofia grigia della rassegnazione sembra sigillare una lotta che voleva riconsiderare gli universali. (...) Ora la sua estensione (i tagli non sono poi molti) può rendere esitante il pubblico ormai rattrappito su distanze televisive; ma è dramma che si addentra anche nelle nostre pulsioni e poi dà vita a uno spettacolo di stile sigillato, nervoso e lucido come una lama, tutto vibrato dal rovello delle menti e macerato di spasimi compressi e non medicati, di dolore senza lacrime e autocompiacimenti.
Odoardo Bertani ( Avvenire - 5 gennaio 1990)

Per il suo primo spettacolo al Carignano, nella sede del Teatro Stabile di Torino da quando ne è divenuto direttore, il regista ha concepito una grande impresa interpretativa che trascende le abitudini delle nostre scene, ma illumina come un manifesto provocatorio un'idea della funzione culturale e sociale dei teatri pubblici, qual è praticata in più consolidate civiltà dello spettacolo. Programmatica e significativa è anche la volontà di affidare a un nucleo di attori soprattutto giovani una pièce che è solitamente appannaggio di personalità più mature; percorre infatti una vita, ma inventando, come può essere congeniale a dei giovani, una quotidianità fantastica aldifuori della storia. Non tutti sono in grado di esprimere pienamente la ricchezza compositiva di questi esseri ciclopici? Ma più importa la compattezza stilistica di un lavoro estremamente coscienzioso e l'impegno di crescere un gruppo professionale inedito.
Franco Quadri ( La Repubblica - 5 gennaio 1990)



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