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Luca Ronconi
 
Giovedì da Luce

(a. Karlheinz Stockhausen)
(sc. Gae Aulenti)
(c. Gae Aulenti)

Libretto, danza, azioni, gesti Karlheinz Stockhausen
Concertatore e direttore d'orchestra Peter Eötvös
Direttore del coro Romano Gandolfi
Regia del suono Karlheinz Stockhausen
Interpreti: Robert Gambill, Paul Sperry, Markus Stockhausen, Michele Noiret, Annette Meriweather, Suzanne Stephens, Elisabeth Clarke, Mathias Holle, Mark Tezak, Alain Louafi, Majella Stockhausen, Alain Damiens, Michel Arrignon, Hugo Read, Simon Stockhausen, Elena Pantano, Giovanni Mastino
Allestimento Teatro alla Scala


Milano Teatro alla Scala 15/03/1981

Un grande, incondizionato successo ha accolto alla Scala la rappresentazione di Donnerstag (giovedì) di Stockhausen. L’opera, seppure ‘mutilata’ del terzo atto per lo sciopero del coro scaligero, si è imposta per un’esecuzione musicale di altissimo livello e una realizzazione scenicoregistica, dovuta a Gae Aulenti e Luca Ronconi, assolutamente straordinaria. (...) Basandosi sull’elaborazione di formule (che in sé possono essere materiali di limitato interesse), Stockhausen non rinuncia a quelle tendenze a una rigorosa organizzazione totale che è uno dei poli costanti del suo lavoro (affiancata dalle soluzioni irrazionalistico-intuitive); ma rinuncia al radicalismo sperimentale e al ‘purismo’ di un tempo, riscoprendo i piaceri della melodia e dell’eterogeneità stilistica. Tutto si subordina alla comunicazione di un messaggio spirituale che si vale di mezzi ‘teatrali’ assai più diretti, di una scrittura assai più trasparente di quella dei suoi capolavori ‘informali’. Con Donnerstag anche lo spettatore che si senta totalmente estraneo alla macchinosa concezione del libretto viene coinvolto in un lungo rito, in una dimensione temporale lenta e contemplativa che Stockhausen gli impone con una forza di suggestione innegabile, anche se si vale di mezzi talvolta elementari o stilisticamente ibridi.
Paolo Petazzi (”L’Unità”, 17 marzo 1981)

Giovedì da Luce è un’opera essenzialmente autobiografica. Nel racconto del protagonista Michael (una sorta di novello Parsifal incontaminato), si specchia l’immagine di Stockhausen. La giovinezza, il giro del mondo, e infine la trasfigurazione angelica del giovane, è la storia stessa del compositore. Dall’infanzia, tra la povertà della famiglia (...), alla triplice esperienza di cantore, suonatore di tromba e danzatore, Michael passa prima all’iniziazione erotica e poi artistica, con il superamento delle prove (come il Walter del Tannhäuser). C’è poi la discesa nella terra, in una lunghissima peregrinazione nei vari continenti, e infine il viaggio iniziatico, l’investitura sacrale. Come si vede Stockhausen è l’officiante di una cerimonia religiosa: il suo racconto teatrale si configura come viatico celeste, come mistica contemplazione.
Mario Messinis (“Il Gazzettino”, 17 marzo 1981)

Sull’adesione del compositore al fatto operistico bisogna naturalmente intendersi. La veneranda tradizione di incarnare in una storia particolare, sul palcoscenico, idee o miti universali non ha su di lui la minima presa; qui non c’è storia, ma ‘tutto accade nell’istante in cui accade’, come egli stesso sostiene; per cui le traumatiche vicende della giovinezza di Michael (la madre impazzita, il padre morto in guerra) si snodano lievi nella triplice rappresentazione, vocale, strumentale e coreografica, assegnata a ogni personaggio. La lievità sconfina spesso nell’inconsistenza: gli interventi registrati del coro di Colonia, diffusi da altoparlanti dislocati circolarmente nella sala, sono poco più di un sordo mormorio, il canto dei protagonisti (...) uno scorrevole declamato: in tutto il primo atto, nella purezza scenografica della Aulenti, nella fantasia spaziale di Ronconi, si impone la tromba di Markus Stockhausen, il figlio del compositore che incarna Michael, il timbro ovattato del corno di bassetto suonato da Suzanne Stephens e soprattutto il rilievo assunto nell’episodio finale dal pianoforte, degno della concretezza di Mantra, suonato dalla Stockhausen figlia Majella.
Giorgio Pestelli (“La Stampa”, 17 marzo 1981)

Luca Ronconi e Gae Aulenti sono riusciti a rispettare alla lettera le esigenze della drammaturgia stockhauseniana, e nel contempo a trarre il miglior partito dal carattere, deliberatamente ‘naïf’, dell’idea teatrale dell’opera. Così le situazioni sono bloccate in ferme immagini iperrealistiche, in un congelamento delle forme e della scena che fa pensare addirittura a Bob Wilson, il portavoce della più radicale avanguardia statunitense. Scene semplici e bellissime, con paesaggi lunghi senza orizzonte, con case di cura agghiaccianti nella loro nitidezza. La notazione simbolica, così, riesce davvero a ipotizzare l’immobilità del tempo o il rotare impassibile della terra. Tutto il secondo atto, infatti, è occupato da un globo che gira senza posa, e che rappresenta le diverse ‘stazioni’ del viaggio di Michael, un Viandante che non sprofonda, come in Schubert, nella notte romantica, ma che è un messaggero celeste.
Mario Messinis (“Il Gazzettino”, cit.)



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