Pubblicato originariamente sul "Patalogo 19", 1996.
"Le arti che non realizzano alcuna ‘opera’ hanno grande
affinità con la politica. Gli artisti che le praticano - danzatori, attori,
musicisti e simili - hanno bisogno di un pubblico al quale mostrare il loro
virtuosismo, come gli uomini che agiscono hanno bisogno di altri alla cui
presenza comparire: gli uni e gli altri, per ‘lavorare’, hanno bisogno di uno
spazio a struttura pubblica, e in entrambi i casi la loro ‘esecuzione’ dipende
dalla presenza altrui. Tale spazio destinato alle apparizioni degli uomini non
è affatto un attributo fisso e scontato di qualsiasi comunità. La polis
greca fu appunto quella ‘forma di governo’ che forniva agli uomini uno spazio
per apparire, nel quale agire, una sorta di teatro dove la libertà poteva fare
la propria comparsa".
Hannah Arendt, Tra passato e
futuro
"L’arte e la politica non funzionano come due ingranaggi
sincronizzati; un’idea non può essere trasposta semplicemente in un’immagine,
a meno di ottenere un quadro storto o un’esplosione dell’idea. Io sarei
piuttosto per l’esplosione".
Heiner Müller,
1983
"Per la politica ‘passare’ da Costanzo
è importantissimo, se Costanzo
passasse alla
politica subirebbe
una diminutio".
Enrico Mentana, 1996
Se esiste una
cosa che le varie autonomie dell’estetico ed opere aperte, elogi del
disimpegno e cadute di muri, fini della storia e morti delle ideologie,
videopoli e sondaggiomanie sembravano aver cancellato per sempre, è proprio il
teatro politico. Che senso può avere quando ormai, nell’era della telecrazia,
è stata decretata l’obsolescenza della politica?
La questione del teatro politico, oltretutto, pareva risolta già in
precedenza. Il problema, si argomentava, non è quello dei contenuti. Come
diceva Godard, non si tratta di fare film politici (o spettacoli politici o
libri politici), ma di farli "politicamente": il punto è l’elaborazione dei
materiali, la forma, poiché la qualità politica di uno spettacolo non dipende
tanto dai contenuti, o dalle etichette che esibisce, quanto dall’uso del
linguaggio e dal rapporto di comunicazione con il pubblico. Bisogna inoltre
tener conto del paradosso del "politically correct", con il suo paternalismo
apparentemente bonario. In teoria, il "politically correct" avrebbe dovuto
sancire il trionfo delle preoccupazioni "politiche" in qualsiasi discorso
pubblico. Tuttavia, nascondendo i conflitti dietro la griglia degli eufemismi,
degli interdetti e dei divieti linguistici, innesca un meccanismo di
autocensura che rischia di cancellare la realtà dello scontro politico. Di
conseguenza, fermo restando che di qualsiasi testo e spettacolo si può dare
una lettura politica, un teatro esplicitamente "politico" pareva confinato ad
un’età adolescenziale dell’evoluzione estetica, quando ancora era possibile
confondere l’arte con la propaganda, subordinare l’estetica all’ideologia.
Eppure, malgrado tutto questo, e contro ogni logica e previsione, di
recente in Italia sono state numerose le iniziative che focalizzano
esplicitamente l’attenzione e le emozioni dello spettatore su tematiche
politiche e civili. Ancora più significativo, il fatto che questa tendenza sia
avvertibile soprattutto tra i più giovani, sia nelle scelte di molti gruppi di
recente formazione, sia nei tentativi di scrittura drammaturgica presentati ai
vari premi.
Questo ritorno all’impegno ha assunto forme diverse, esplicite ed
impensabili solo qualche anno fa: passando dal recupero del dimenticato Brecht
agli spettacoli pro-Sarajevo, dal monologo sulla pena di morte al lavoro con
carcerati o portatori di handicap o malati di Aids, dalla riflessione critica
in forma di spettacolo su alcune pagine di storia recente (dalle guerre
mondiali alla Resistenza, dall’Olocausto al Vajont, fino alla cupa stagione
del terrorismo, rivisitata magari con la collaborazione dei protagonisti) ai
laboratori nei centri sociali, dalle compagnie multietniche alle ballate per
le vittime della mafia, senza dimenticare la satira dei "comici di sinistra".
In ogni caso se oggi si pratica un teatro politico, non ha un unico
modello, non segue un solo schema. Risponde presumibilmente a necessità
variegate, tanto da parte di chi lo fa quanto da parte del suo pubblico.
L’unico elemento comune è probabilmente l’esigenza di usare il teatro per
trasmettere un messaggio che è (anche) politico. Ovvero di compiere un gesto
politico che assume una forma teatrale.
Questo revival tradisce forse la nostalgia per un’efficacia che il teatro
(e la politica) sembra aver perduto, e che solo alcuni "profeti", considerati
con sufficienza dai più, come se fossero solo sopravvivenze del passato, come
Dario Fo, o Judith Malina e il suo Living Theatre, hanno disperatamente
cercato di tenere viva. O forse è l’indizio di un’esigenza più profonda, e
segna ancora una volta la necessità del teatro di misurarsi con la propria
storia, e ritrovare continuamente le proprie origini. Andando però alla
ricerca di un impegno politico e civile che rifiuta l’ideologia, per muoversi
in una zona che è insieme "prima" e "oltre" la politica, così come viene
tradizionalmente intesa.
Brecht
Parlare di teatro politico significa inevitabilmente rievocare
l’autore-simbolo del genere, il vecchio e tanto bistrattato B.B. A utilizzarlo
direttamente come arma para-elettorale ci aveva provato un paio di stagioni fa
il Teatro di Genova, con una messinscena della Resistibile ascesa di Arturo
Ui: il protagonista Eros Pagni alludeva, senza ombra di dubbio, al nemico
numero uno del momento, il Cavalier Silvio Berlusconi. Nelle parole del
regista Marco Sciaccaluga, la prima delle "emozioni" che l’ha spinto a mettere
in scena il testo è stato proprio "l’enorme, quasi imbarazzante, rimbalzare di
situazioni, battute, temi e trame che rimandano, non solo metaforicamente,
all’attuale grande travaglio della società italiana: la consonanza tra i
poteri finanziario, mafioso e politico nel loro perverso potere di dominio sul
mondo". Perché "in Arturo Ui sono sommati il grande capomafia, il politico che
ha fatto del cinismo finanziario la sua arma più importante, quello che ha
accettato di scendere a patti con la malavita e da questa poi è stato
ricattato. C’è anche il grande comunicatore moderno, che sa bene cosa sia la
propaganda. Arturo Ui è la maschera che li contiene tutti. Guai però a
indicarne con precisione una sola faccia" (dal programma di sala dello
spettacolo).
E’ fuor di dubbio che nel testo brechtiano non manchino possibili agganci
all’Italia della Seconda Repubblica. Ma, aldilà della buona volontà degli
artefici dello spettacolo (e aldilà delle forzature nel parallelismo Weimar
1933-Italia 1993), nell’era delle comunicazioni di massa il teatro appare un
veicolo di propaganda poco efficace: troppo elitario, troppo "colto" e
intellettualistico per poter competere con la forza d’urto della televisione o
con la facile presa di un buon numero di cabaret.
Quello di Genova non è stato però l’unico, né il più ambizioso, tentativo
italiano di recupero di Brecht. All’autore è tornato anche Giorgio Strehler,
che gli ha dedicato con un apposito Festival l'intera stagione del suo teatro.
Una scelta consapevolmente polemica nell’era di Formentini sindaco di Milano e
Berlusconi presidente del consiglio, con un programma che voleva forse
ritrovare - all’interno del ciclo di riprese dei suoi gloriosi spettacoli che
conduce da anni - l’originaria forza dirompente, l’ormai mitica epoca
dell’Opera da tre soldi e del Galileo, con le relative
polemiche. E magari recuperare la centralità del teatro all’interno del
dibattito culturale.
Ma nelle intenzioni programmatiche a interessare non è tanto il Brecht
"ideologico", percepito forse come datato e usurato. Nel presentare il remake
della sua Anima buona di Sezuan, clou della stagione brechtiana del
Piccolo, Strehler ne mette infatti in secondo piano la portata direttamente
politica, privilegiando in primo luogo la poesia: "L’attualità di Brecht sta
nella ricchezza dei suoi contenuti e nella grandezza poetica. In questo testo
si discute di cose eterne, della lotta fra il bene e il male: la nostra
condanna è di dover essere cattivi per poter fare il bene" (dal programma di
sala dell'Anima buona di Sezuan).In secondo luogo, Strehler sottolinea
la dimensione etica: "La risposta di Brecht, che ci arriva in modo poetico,
più che politica è etica. Non c’è solo il bianco o solo il nero, essere buoni
o essere cattivi. Brecht ci dice che per difenderci è inutile chiedere
consiglio agli dei, a chi ci governa, che dobbiamo alzarci noi, abitanti di
questo piccolo universo che non fa che girare su se stesso. Quel grido di
aiuto che Shen Te rivolgerà nel finale agli spettatori, stavolta, sarà più
vero e meno teatrale. Sarà una chiamata di responsabilità a noi tutti"
(Giorgio Strehler, da un’intervista di Anna Bandettini, "la Repubblica", 25
marzo 1996).
Malgrado le intenzioni, il ritorno a Brecht del Piccolo Teatro non è
riuscito ad andare oltre il successo di stima. Anche perché l’evento che
avrebbe dovuto chiudere questo percorso e misurare l’attualità del drammaturgo
in un cortocircuito con la realtà degli anni Novanta, l’annunciatissima
Madre Coraggio di Sarajevo (un’opera con cui "esorcizzare la tragica
capacità dell’uomo di distruggersi") non è andato in scena nei tempi previsti.
Lo spettacolo - che avrebbe dovuto finalmente inaugurare l’Incompiuta Nuova
Sede - resta anch’esso un’Incompiuta: infatti nel nuovo teatro mancano le
poltroncine, e Madre Coraggio può essere vista solo in forma di
lettura, in una sera d’estate, in via d’Amelio a Palermo e - a Milano - al
Teatro Lirico.
Per quanto ambizioso, l’isolato (per l’Italia) esperimento strehleriano non
può ovviamente dirimere l’annoso dibattito su Brecht. E’ davvero superato
perché i suoi schemi ideologici, il suo marxismo più o meno ortodosso (un tema
su cui si è discusso per decenni con ferocia), sono stati smentiti dalla
storia? Oppure ha già raggiunto la "sublime inefficacia dei classici"? O forse
è ancora "efficace", ma le grandi istituzioni teatrali non possono più, per la
loro stessa natura, farsi veicolo di un’autentica provocazione? Magari aveva
ragione Eric Bentley quando, parlando dell’influenza di Brecht sul pubblico,
spiegava: "Dante, è presumibile, ha cambiato molte meno persone di Tommaso
d’Aquino: se qualcuno può convertirti al cristianesimo, è più probabile che
sia un sacerdote o un filosofo piuttosto che un poeta. Se pensi che a
convertirti sia stato un poeta, forse ti stai ingannando: probabilmente il
poeta è arrivato dopo che la reale persuasione - se ce ne fosse stato bisogno
- era già stata fatta. Dunque, se qualcuno può diventare marxista, è più
probabile che venga convinto da Marx stesso, e non dai poeti marxisti. Se mi
chiedete se Brecht abbia avuto una qualche influenza sul mondo, dal
punto di vista politico, risponderei: molto poca, e non sempre nella direzione
che auspicava. L’influenza delle parole, dopo tutto, è spesso, in qualsiasi
contesto, abbastanza diversa dalle intenzioni" (Re-interpreting Brecht,
p. 193).
Sarà dunque proprio la sua inefficacia di propagandista a salvarlo
dall’oblio? "Brecht riteneva che fossero gli errori a conferire immortalità
alle opere d’arte. Finché contengono errori, finché non sono perfette - diceva
- sono utilizzabili, sfruttabili" (Heiner Müller, Tutti gli errori, p.
30).
Certo, in Germania, dove solo in questa stagione si sono visti decine di
allestimenti brechtiani (a cominciare dall’attualissimo Arturo Ui,
ultima regia di Heiner Müller, protagonista lo straordinario Martin Wuttke),
la situazione si pone in termini diversi. E se in Italia il ritorno a Brecht
non ha ancora trovato la sua chiave, è probabilmente solo questione di tempo.
Proprio Müller, del resto, ha affrontato nella maniera più diretta
l’eredità brechtiana sia dal punto di vista ideologico che da quello estetico.
O meglio, ha affrontato l’ideologia brechtiana (così come quella della Ddr)
inserendola in una dimensione tanto esistenziale quanto fisica, addirittura
corporea. Fino a portare l’idea stessa di teatro politico a conclusioni
paradossali. Il suo obiettivo non è certo quello di delineare una società
diversa, più equa e più giusta, o di suggerire linee di condotta, quanto
quello di destabilizzare la realtà, di renderla insopportabile.
"Mi trovo sempre leggermente in imbarazzo quando devo parlare
della mia posizione ideologica. Conosco solo un modo per rapportarmi alla
realtà: da artista. Per il resto vivo una condizione piuttosto infelice. Per
me la funzione dell’arte è di rendere impossibile la realtà: la realtà in
cui vivo, quella che conosco. (...) La prima esigenza è il bisogno molto
elementare di distruggere illusioni; sì, ci provo gusto a distruggere
illusioni: forse perché le mie sono andate in frantumi molto presto e ora
voglio provare l’effetto che fa sugli altri. Mi stupisco sempre quando sento
il pubblico, la gente che ha letto o visto qualcosa di mio, dire che li
deprimo. Rimango sempre a bocca aperta. Mi capita spessissimo di sentir
dire: ‘A scrivere cose del genere, dovresti impiccarti’... Non li capirò
mai. Come fa a deprimermi l’oggetto di una mia descrizione? Niente che io
sia riuscito a descrivere è in grado di deprimermi. Mi sembra che a
conversazioni del genere manchi sempre il riconoscimento di quanto sia
politico il lavoro dell’artista, anche a prescindere dalle prese di
posizione ideologiche. Descrivendo qualcosa produco o distruggo ideologia, e
così facendo produco forse consapevolezza. La descrizione di un avvenimento
è attività politica di per sé" ("Oltre il fascismo: riscoprire la
biografia", 1977, in Tutti gli errori, p. 43).
Sarajevo
Allestire come progettava Strehler una Madre Coraggio a Sarajevo
significa mettere il teatro a confronto con una delle più terribili tragedie
di questi anni. Ma ambientare un classico nella città bosniaca non è l’unica
possibilità di misurarsi con la tragedia iugoslava, e in generale con la
guerra e i massacri del mondo contemporaneo. Ci sono naturalmente quelli che a
Sarajevo, durante l’assedio, hanno continuato a far vivere i palcoscenici, in
condizioni proibitive, perché avvertivano la necessità del teatro; per
lo stesso motivo, c’è chi (come Susan Sontag) è arrivato laggiù dal "mondo
senza guerra" proprio per lavorare su quei palcoscenici disastrati(cfr. il
Patalogo 17, "La resistenza intellettuale a Sarajevo"). E sono i numerosi
testi (anche di autori italiani) ispirati a quelle vicende. Ma in reazione
alla catastrofe balcanica si sono sviluppate anche altre esperienze, forse
meno prevedibili e convenzionali.
Ai confini estremi del teatro si muove per esempio Salvino Raco, che nei
mille e più giorni dell’assedio ha organizzato in varie città europee, con
gruppi di attori e amici, una serie di performance di elementare
spettacolarità (semplici oratori, supportati da una colonna sonora di
esplosioni, spari e crolli) dedicate alla città bosniaca e ai suoi abitanti.
Ispirati alla necessità di "rompere il silenzio", sono eventi al confine tra
lo spettacolo e il rito, la manifestazione politica e la pedagogia, l’agit
prop e la performance, che lasciano lo spettatore sospeso tra la commozione e
il disagio. Spiega lo stesso Raco:
"I miei collaboratori sono attori, vecchi amici, che
sentivano il bisogno di lavorare sul tema della guerra. Ci interessa la
figura dell’attore sociale, quello che dice, che fa, che interviene sui temi
sociali, politici. I testi - che sono più che altro delle didascalie -
nascono da testimonianze reali, da lettere che ho raccolto dai profughi
presso il comitato milanese per la Bosnia a Milano".
Il lavoro nasce
in qualche modo da una richiesta dei profughi bosniaci?
"Non proprio,
anche se chiaramente volevano che qualcosa si dicesse. Probabilmente non nei
termini in cui l’abbiamo fatto noi. Per esempio, alcuni profughi non se la
sentivano di provare ancora una volta le sensazioni dell’assedio e sono
scappati via".
Non senti il rischio di spettacolarizzare un tema
tragico come quello della guerra?
"Non so se ho risolto il problema,
spero di sì, a partire dalla scelta di un luogo come la casa diroccata di
via Maggi, a Milano, e dal fatto di usare gli attori come semplici
portavoce. Non credo si possa parlare di spettacolarizzazione. Infatti non
lo chiamo ‘spettacolo’, ma ‘evento con drammaturgia animica’, che cerca di
toccare gli aspetti più intimi dell’esistenza".
Non sarebbe più
utile l’azione politica diretta - che so, una manifestazione di piazza?
"Ce ne sono già abbastanza. Molti spettatori mi hanno detto che non
vogliono più manifestazioni o chiacchiere, ma una sensibilizzazione
attraverso forme artistiche. Poi, secondo me, le posizioni politiche sono
sempre troppo rigide. Su questo tema a Parigi ho avuto uno scontro con una
personalità influente, che mi ha detto che non mi avrebbe sostenuto, perché
il problema iugoslavo è solo politico e tutto il resto non gli
interessa".
Il processo di sensibilizzazione non può passare
attraverso i mass media?
"Non credo che servano a risvegliare le
coscienze sopite".
In questi eventi, per gli spettatori ma credo
anche per gli attori, è molto forte una dimensione rituale, e quasi
religiosa, come se si trattasse di una cerimonia laica, della celebrazione
di una memoria e di una sofferenza che nasce, anche se in maniera
frammentaria, dalle rovine: le rovine di una città bombardata, di un palazzo
diroccato, ma anche le rovine della storia.
"C’è una
dimensione religiosa. Non era nelle mie intenzioni, ma è accaduto. Forse
perché le 55 vittime che vengono commemorate hanno voluto questo. Ma questo
è un modo per eludere la domanda. Probabilmente la comunione tra attori e
spettatori ha fatto sì che così accadesse. In teatro, la comunione delle
cose che accadono a attori e pubblico può portare a questo. E contribuisce
anche la scansione dell’evento in quattro momenti: attesa-riflessione,
denuncia, evocazione e commemorazione".
All’estremo opposto,
nell’immediatezza assoluta del comico, si pone invece la curiosa esperienza di
Clown senza frontiere, l’organizzazione non governativa fondata da Tortell
Poltrona nel 1993. Nel febbraio di quell’anno il clown catalano si era esibito
nel campo profughi di Veli Joze, in Istria: da quell’esperienza è nata
Pallassos Sense Fronteres (Clowns Without Borders), di cui fanno parte clown,
giocolieri, acrobati, burattinai e musicisti di tutto il mondo, accomunati
dall’obiettivo di alleviare il disagio di chi vive nei campi, soprattutto
bambini e ragazzi. Con i loro spettacoli, vogliono "migliorare la situazione
psichica e, ove possibile, sanitaria, alimentare e pedagogica, dei rifugiati".
Obiettivo principale di Pallassos Sense Fronteres è dunque l’invio di clown e
artisti nei campi, "per contribuire a migliorare le condizioni di vita
soprattutto facendo ridere la gente". Il presupposto è che le tragiche
esperienze e le disastrose condizioni dei profughi finiscano per cancellare
anche una fondamentale capacità umana: quella di ridere. Gli adulti devono
ritrovare il coraggio di ridere. I bambini devono a volte addirittura
"imparare a ridere". Per loro, Poltrona e i suoi amici organizzano spettacoli,
incontri e corsi, oltre alla distribuzione di materiale didattico.
In tre anni di attività Pallassos Sense Fronteres ha organizzato una
cinquantina di spedizioni non solo nei campi dell’ex-Iugoslavia ma anche
nell’ex-Sahara Spagnolo, tra i palestinesi di Gaza, tra i meniñ os de rua brasiliani, in Guatemala e a Cuba
(purtroppo nel "secolo dei profughi" c’è solo l’imbarazzo della scelta).
Gli attori viaggiano a loro spese verso queste destinazioni pericolose, e
cercano di portare un attimo di gioia spensierata (e corroborante) alle
vittime dei bombardamenti, dei cecchini, delle violenze, degli stupri...
Quando arrivano all’improvviso, in qualche desolato campo profughi, vengono
accolti con un attimo di esitazione e diffidenza. Ma ben presto si raccoglie
una folla che ride e sorride, con tanti bambini in prima fila. Per loro il
teatro è un’esperienza forte, forse necessaria. Dunque Poltrona e i suoi amici
organizzano spettacoli, incontri e corsi, per insegnare a ridere e sognare di
nuovo a chi ha dimenticato il segreto. E gli attori? Anche per loro,
l’incontro ha qualcosa di straordinario. Come spiega un "Clown senza
frontiere", l’americano Moshe Cohen, "recitare per spettatori che non hanno
riso da così tanto tempo, è una sensazione indescrivibile".
Il Gran Teatro del Mondo
Di fronte all’enormità delle tragedie della storia contemporanea, di fronte
all’infinito dolore che provocano e alla loro altrettanto grande insensatezza,
Raco e Tortona rappresentano due tappe di un percorso dove lo spettacolo pare
solo una tappa. Su un versante, corre una riflessione personale che tende ad
assumere venature religiose o metafisiche. Dall’altro, lo sbocco è l’azione
pratica del singolo a favore del singolo, nell’immediatezza del bisogno, volta
al ristabilimento della normalità (dove la normalità sono anche il teatro e la
risata). Entrambe le strade finiscono alla lunga per eludere il problema
dell’impegno politico, in uno scenario dove l’azione da parte dei "cittadini
del mondo" appare velleitaria. Come se i nostri strumenti di interpretazione
della realtà fossero diventati inutili, lasciando al singolo un senso di
sconsolata, infinita impotenza, al quale è possibile reagire solo con
l’attivismo volontaristico o con la contemplazione introspettiva.
"L’uomo moderno poco sa delle leggi che governano la sua
vita. Come individuo sociale reagisce per lo più sentimentalmente; ma questa
reazione sentimentale è confusa, indeterminata, apparente. Le fonti dei suoi
sentimenti e delle sue passioni, così come quelle delle sue cognizioni, sono
ostruite e come intorbidate. L’uomo odierno, vivendo in un mondo in rapida
trasformazione e trasformandosi rapidamente egli stesso, non ha di questo
mondo la benché minima idea in base alla quale gli sia possibile agire con
prospettive di successo; le sue concezioni della convivenza umana sono
distorte, inesatte, contraddittorie, potremmo dire impraticabili; cioè, con
una simile visione del mondo - del mondo umano - davanti agli occhi, l’uomo
questo mondo non può dominarlo" (Bertolt Brecht, Scritti
teatrali, vol. I, Einaudi, Torino, 1975).
Proprio intorno a questa sensazione è costruito La febbre, il
monologo (presentato in Italia un paio d’anni fa da Giuseppe Cederna) in cui
l’americano Wallace Shawn affronta di petto uno dei due problemi fondamentali
del nostro tempo, il rapporto Nord-Sud (l’altro, strettamente collegato, è
quello ambientale). Shawn non lo fa in termini generali, o generici, o
attraverso un qualche filtro ideologico, ma mettendo a confronto la coscienza
e la "falsa coscienza" di un individuo del "Primo Mondo". Un privilegiato,
dunque, ma in ogni caso non un paternalista, né un neo-colonialista, né
tantomeno un razzista; al contrario: chi parla nella Febbre è un
progressista ben intenzionato, tendenzialmente liberal e politicamente
corretto, tanto "assetato di giustizia" da confondere le memorie di
un’infanzia felice con la possibilità di realizzare l’utopia. In termini più
banali, è chiunque si interroghi sulle ingiustizie di questo mondo e avverta
la necessità di cancellarle.
A prima vista, un testo di questo genere può apparire "fuori tempo", dopo
che i grandi schemi ideologici di redenzione, quelli che promettevano il
riscatto ai poveri attraverso il mercato, il progresso tecnologico o il
comunismo, si sono rivelati inefficaci: non sono riusciti a diminuire il
divario tra gli eletti e i dannati, tra i ricchi e i poveri, tra i pochi e i
molti. E le azioni individuali, più o meno eroiche, più o meno coscienti, se
aiutano ad acquietare il disagio, appaiono sproporzionate alla dimensione
dell’ingiustizia. Ma è proprio qui, nel vuoto e nell’inefficacia di queste due
posizioni, nella semplicità (o nell’ingenuità) di chi rifiuta la rimozione e
decide di misurarsi con queste banalità fondamentali del vivere contemporaneo,
che esplode la forza del testo di Shawn, la sua provocazione morale.
Come tutti noi, il sensibile e colto protagonista della Febbre è
massimamente colpevole e massimamente innocente. Malgrado le sue buone
intenzioni, per colpa delle sue buone intenzioni, anche la violenza di cui non
è diretto responsabile o testimone finisce per inquinarlo.
In questa ambigua condizione, Shawn (o meglio il suo alter ego) inizia una
confessione visionaria e politica. La sua voce, ora tragica ora patetica, si
muove su un fronte che è insieme pubblico e privato, individuale e collettivo,
intimo e planetario. Perduto tra incubo e realtà in una città del Sud del
Mondo, circondato da violenze esplicite e implicite, assalito dai suoi ricordi
di privilegiato, sempre tentato di tracciare il bilancio di una comoda
esistenza, orgoglioso e vergognoso della propria cultura, del proprio buon
gusto, cerca di sollevare il velo dell’indifferenza morale e del cinismo,
degli alibi offerti dai grandi schemi ideologici (l’illusione che sarà il
motore della storia ad appianare le differenze, a renderci finalmente uguali).
Oltrepassa quello stadio dell’anestesia che è la buona volontà progressista,
ne smaschera le ambiguità e le illusioni. La svuota, anche se non può
superarla. Cerca di assumersi le proprie responsabilità e lascia affiorare
l’angoscia per una realtà insostenibile, eticamente, psichicamente e
fisicamente. Cerca di capire: cita Marx ("il feticismo della merce"), rilegge
magari Fanon e Camillo Torres, riflette, senza nominarli, su Cuba e Nicaragua.
Non trova soluzione, ma suggerisce una diversa consapevolezza.
Provare a costruire una diversa consapevolezza: forse il teatro non può
andare molto aldilà di questo (e dunque, alla lunga, ridursi dalla dimensione
politica a quella psicologica). Forse il teatro e la politica (almeno così
come l’abbiamo intesa fino a oggi) non sono più in grado di affrontare
problemi che hanno scala planetaria, che superano di molti ordini di grandezza
le possibilità d’intervento individuale. E allora quelle affrontate da Shawn
sono tematiche troppo generiche perché possano dar vita a un autentico
conflitto drammatico: naturalmente siamo tutti contro gli stupri di massa e la
pulizia etnica, tutti noi - a cominciare dalle star del cinema e della
televisione, con i loro sensi di colpa e l’attenzione all’immagine - siamo
contro l’Aids, la sclerosi multipla e le altre malattie alla moda, tutti noi
detestiamo le violenze contro i bambini e lo sterminio di foche, balene e
rinoceronti, nessuno di noi desidera che le moltitudini del Terzo Mondo
muoiano di fame nelle bidonvilles, nessuna organizzazione lotta perché il
pianeta si trasformi in una pattumiera.
Ma allora, se lo scenario globale è troppo grande, può essere possibile
ritrovare l’efficacia politica del teatro restringendo l’obiettivo e
focalizzando problematiche più specifiche e controverse? Forse tornare
all’orizzonte della polis, dove il teatro occidentale ha le sue
origini, e dove è nata e si è definita anche la politica, può offrire una
soluzione.
Teatro civile
Vajont di Marco Paolini e Mi uccideranno in maggio di Luciano
Nattino sono due esempi di teatro "militante" che affrontano temi di
indiscutibile impegno civile. Paolini attraverso la tragedia di Longarone
racconta la distruzione di una civiltà contadina, lo scempio ambientale e
l’arroganza dei potentati economico-politici nazionali. Nattino si cala nei
panni di Paul Rougeau, condannato alla pena capitale in Texas, che ha
raccontato attraverso le sue lettere la vita e l’insopportabile attesa
dell’esecuzione nel braccio della morte. Questi monologhi necessitano di un
supporto tecnico minimo (una lavagna per Paolini, lo scheletro di una cella e
un sistema video a circuito chiuso per Nattino) e quindi si prestano ad essere
presentati nelle situazioni più varie ed a costi contenuti; inoltre "il dramma
didascalico assume un suo rilievo di caso particolare sostanzialmente perché,
attraverso la peculiare povertà della messa in scena, semplifica e raccomanda
lo scambio tra il pubblico e gli attori e tra gli attori e il pubblico"
(Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica. Arte e società di massa, p. 132).
Realizzati da attori professionisti (che quindi non si limitano ad
utilizzare tecniche acquisite altrove, ma le usano per ampliare ed
approfondire la loro gamma espressiva), questi lavori vengono presentati in
genere fuori dai teatri e dai normali circuiti distributivi, in collegamento
con realtà in vario modo "militanti": le repliche vengono richieste da
organizzazioni che operano nella società civile (ambientaliste ed ecologiste
per Paolini, in particolare là dove sono in corso battaglie in difesa del
territorio e del paesaggio; vicine invece ad Amnesty International per il
lavoro contro la pena di morte di Nattino). Nascono da un’esigenza "forte" dei
loro autori-interpreti, per certi aspetti più etica che direttamente politica,
e si riallacciano forse all’epoca della loro formazione artistica e civile, le
lotte degli anni Settanta.
"Questo lavoro teatrale nasce dal bisogno di fare qualcosa
per fermare la barbarie della pena di morte nel mondo. Perché è così
difficile essere contro. Perché ci sono mani pronte, anche da noi. E’ vero
che c’è Amnesty e c’è un comitato ‘Paul Rougeau’ per la tutela a distanza
dei diritti dei detenuti nei bracci della morte. Ma non basta. Cosa possiamo
fare di più, tutti?" (Luciano Nattino, dal programma di sala).
"Il racconto si è arricchito di testimonianze raccolte nel lungo
elenco di luoghi che mi hanno ospitato: aule, municipi, biblioteche, centri
sociali, chiese, case, piazze ed alla fine anche teatri. Ma era lungo perché
non è mai stato pensato come uno spettacolo teatrale. E’ lungo per forza!
...perché alla fine ci sono quelli che si fermano perché vogliono sapere il
seguito... spesso restano tutti e si parla del processo, di oggi, di cose
che ci toccano da vicino, e si fa