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ISSN 2279-9184

ateatro 25.7
1/4/2004 
G8 x P24
Un testo per il Patalogo
di Oliviero Ponte di Pino
 

Il saggio che segue è stato preparato per "il Patalogo 24", l'annuario dello spettacolo edito da Ubulibri e in uscita in questi giorni. E' anche una specie di ipertesto, che attraversa diversi numeri di "ateatro" (e alcuni messaggi inseriti nei forum) per costruire un diverso percorso di lettura (tra i tanti possibili).
Da: Oliviero Ponte di Pino [olivieropdp@libero.it]
Inviato: 25 agosto 2001 07.07
A: Franco Quadri [ubulibri@libero.it]
Oggetto: G8 x P24
Caro Franco,
lo faccio senz'altro volentieri il pezzo sul teatro e il G8 per il P24. A caldo, subito dopo i fatti di Genova, avevo iniziato a scrivere qualcosa sul G8 come opera d'arte totale: la prima parte l'ho messa online su "ateatro 16" pochi giorni dopo i fatti e fattaci genovesi. Qualcuno s'è divertito qualcuno s'è irritato… Dopo di che sono andato in vacanza, poi ho avuto di meglio da fare, e quella "prima parte" è rimasta lì, sospesa a metà. Se ti va però per il Patalogo potrei proseguire su quella linea (ma ho anche altro materiale più o meno attinente, che adesso cerco di raccogliere). Non so se l'hai visto, quel pezzo, in ogni caso ecco il link
verso "ateatro". Fammi sapere, cia-o.
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Da: Oliviero Ponte di Pino [olivieropdp@libero.it]
Inviato: 5 settembre 2001 23.25
A: Franco Quadri [ubulibri@libero.it]
Oggetto: R: R: G8 x P24
Sì, come andare avanti più o meno l'ho in mente, anche se ero arrivato al passaggio più delicato, quello relativo alla morte di Carlo Giuliani (dove – lo so – con questo piglio ironico rischio oltretutto il cattivo gusto…). Ma insomma, proseguirei più o meno così: "Sulla morte nel corso delle performance si è già detto e scritto fin troppo, fin dai tempi del caso Schwartzkogler…", poi avrei in serbo un paio di riferimenti iconografici, dal Cristo del Mantegna alle foto nella morgue di Serrano. Non potrei non citare il rap in cui Alberto Arbasino profetizzava Il morto di Genova (come peraltro molti di coloro che avevano vissuto i nostri anni Settanta) e che né il "Corriere" né "Repubblica" gli hanno pubblicato. Inizia così:
"Tutti i più impegnati e più 'correct'
del movimento
si aspettano e si augurano
almeno un morto a Genova!
Anche i più civici, e i più cinici,
i più assatanati, i più cattolici,
i più etici:
l'aspettativa è grande
per il morto a Genova! (… ) il morto a Genova è necessario
è indispensabile! Conviene! Conviene! Conviene ai giovani smaniosi
e ai vecchi malvissuti,
ai frustrati e ai lanciati, ai debuttanti e ai 'revenants'!
di destra e di sinistra,
di sopra e di sotto,
con storie e provenienze
diversissime, ma accomunati
dall'avidità del presenzialismo
e del tafferuglio, dal rumore
delle botte, dall'odore
della morte 'live'! a caldo! sul campo!
in tempo reale! In presa diretta!"
(a proposito, l'avrai ricevuta anche tu la lettera con cui Arbasino accompagna le copie omaggio del suo Rap!, in uscita in questi giorni da Feltrinelli: anyway te ne metto un pezzo in allegato)
Naturalmente il pezzo forte di questa seconda parte riguarda il Gran Finale della megaperformance di Genova: il Gran Teatro della Crudeltà delle cariche e dei pestaggi alla Scuola Diaz. Senz'altro esteticamente più interessante del Biedermeier berlusconiano ("Togliete quelle orribili mutande appese nei vicoli!", "Ma come sono spoglie queste piante!" e così rimediano con i limoni appesi con il filo di nailon…) Ma il pestaggio, con quelle macchie di sangue trasmesse in Mondovisione schizzate sui muri e i pavimenti, è stato anche più istruttivo (esteticamente e politicamente) sulla realtà del conflitto delle miniperformance di strada realizzate per l'occasione dai no-global. Per certi aspetti, quelle immagini moltiplicate dalle tv del mondo intero sono state una vera peste: non a Marsiglia, come nelle allucinazioni storiche del caro Artaud, ma in un'altra città affacciata sul Mediterraneo…
A proposito di Artaud, ho già rubato una citazione da Il teatro e il suo doppio:
"Il Teatro della Crudeltà sceglierà temi e soggetti che corrispondano all'agitazione e all'inquietudine tipiche della nostra epoca (…) Questi temi saranno cosmici, universali (...) I grandi sconvolgimenti sociali, i conflitti tra i popoli e tra le razze, le forze naturali, l'intervento del caos (…) si manifesteranno nei movimenti e nei gesti dei personaggi saliti alla statura di dei, di eroi e di mostri di dimensioni mitiche."
Non ci vedrei male, più o meno qui, una riflessione sull'arte "politica" che affolla questa Biennale "Platea dell'umanità", in confronto con quello che si è visto a Genova (ma forse è già implicito in tutta questa satiraccia, fin dal titolo, e dunque inutile insistere).
Dove invece affonderei la lama è sul narcisismo fiorito in un movimento fin troppo consapevole dell'effetto media: "La contestazione dell'incontro tra i leader delle otto superpotenze mondiali è stato l'evento più ripreso della storia dell'umanità: 30.000 macchine fotografiche e 10.000 telecamere erano in funzione a Genova durante il G8. La presenza di operatori professionali dell'immagine è stata la più massiccia di sempre" (è in un articolo di Leonardo Broggioni sul "manifesto" di oggi, dove si riflette anche su chi poi sceglie, usa e compra queste immagini all'interno dei mass media). (Il tutto poi per filmare quello che Arbasino già sapeva e aveva scritto…)
Insomma, a un certo punto la controinformazione e il Grande Fratello rischiano di coincidere! Così dopo i TG e gli speciali televisivi che hanno mostrato e rimostrato quelle immagini, ecco il fiorire di filmati (la stampa di destra, di fronte a Monicelli e Co., aveva parlato di "superG8", la battuta non è male). Si potrebbe fare un accenno ai numerosi documentari realizzati in quei giorni: quello coordinato da Gabriele Salvatores e Citto Maselli che Irene Bignardi ha fatto tagliare e poi proiettare a Locarno, che Sgarbi ha lodato ("L'impressione è che si tratti di qualcosa di più filogovernativo della RAI di Zaccaria. Al di là dell'inesistente valore estetico delle immagini, l'unica cosa da registrare è che, per caricare di senso un materiale così povero, i registi siano dovuti ricorrere a degli accorgimenti tecnici."), Scajola attaccato (senza averlo visto) e Raitre dovrebbe mandare in onda… A Le strade di Genova di Davide Ferrario, con la sua puntigliosa ricostruzione militare degli scontri (controinformazione della più classica). A Genova. Per noi, firmato con qualche retorica per il Genoa Social Forum da Paolo Pietrangeli, Roberto Giannarelli, Wilma Labate e Francesco Martinotti, A Solo limoni, video di Giacomo Verde per Indymedia (che dal suo sito offre altro materiale video scaricabile da internet), dove si prova raccontare con onestà e poesia quello che è successo (dov'è il confine tra l'estetico e il politico? "La mattina prima della manifestazione Diane aveva comprato un po' di limoni: servono a calmare l'effetto dei lacrimogeni e riuscire a tenere gli occhi aperti. È fondamentale e non solo per fare le riprese. Quando per caso ho visto quella foto mi sono stupito. Mi sono chiesto perché avevo deciso di scattarla. Non sembrava particolarmente interessante. Ma dopo un po' mi è venuto in mente un affresco del Masaccio, forse è un po' azzardato, ma io e Diane abbiamo quasi la stessa postura di quell'affresco: La cacciata dal Paradiso Terrestre", dice la voce narrante alla fine di Solo limoni)… A proposito di autodocumentazione, volendo posso aggiungere un cenno alla carta stampata (il numero speciale di "Diario" che raccoglie le testimonianze scritte e fotografiche dei partecipanti, anche la rivista "Carta" sta raccogliendo materiali per un libro bianco, a cura di Anna Pizzo).
In realtà sull'eccesso di info farei una citazione parapirandelliana y paraborgesiana sull'impossibilità di cogliere la realtà in tutte le sue sfaccettature. Forse si potrebbe, il 21 luglio dell'anno prossimo, invadere Genova con proiettori di diapositive e cinematografici e riproiettare in tempo reale tutto quello che è stato documentato, accompagnandolo con i racconti dei protagonisti, per cercare di rifare tutto davvero uguale… (tra l'altro sentito in questi giorni che il giudice che sta lavorando sul processo per tentato omicidio agli assalitori del famigerato gippone vuole vedere tutte le 290 ore di filmati su Genova…)
Alla fine però c'è una cosa importante che vorrei dire. In fondo, il G8 ci ha fatto riscoprire due cose. I corpi. E la paura. Hanno un corpo (in genere goffo, sgraziato, antieroico) i grandi della terra. E abbiamo un corpo anche noi: che oltre a essere un po' meno sgraziato (a volte) di quello dei G8, può sanguinare, può far male, può soffrire (anche in tv…). E questo corpo, e questa paura della sofferenza, è una cosa reale, e che ci accomuna tutti. Come la paura: quella di chi si crede invincibile, quella di chi dimentica che la polizia mena eccetera. Su questo, forse, proverei a dilungarmi.
A prest-o.
All. 1: La lettera con cui Alberto Arbasino accompagna le copie omaggio di Rap!
Amico lettore, gentilmente: questo libretto fu stampato in fretta (a causa delle ferie tipografiche d'agosto) nel luglio 2001. Poco prima dei fatti di Genova. Ne faceva già parte Un morto a Genova, composto in base alle facili previsioni dei giornali, rifiutato dalle direzione della "Repubblica" e del "Corriere della Sera" prima di quei fattacci, e quindi subito collocato sul sito Internet di Feltrinelli Editore.
Se Rap! non fosse già stato stampato, ovviamente, sarebbe stata indispensabile un'aggiunta, dopo gli eventi genovesi. E magari questa, che dovrebbe apparire in un prossimo probabile instant-volumetto sui "Segnali di regime". In certi momenti politici, infatti, si ha la sensazione che la storia incominci a correre, e che incomba sui contemporanei un certo dovere civico di testimonianza, contro ogni autocensura.
Chi è il 'vincitore' (più o meno 'morale')
dopo i brutti fatti
di Genova, e i botti
dopo i motti, e gli irrinunciabili lutti?
Che domanda immorale: siamo tutti
sconfitti e perdenti,
esponsabili, e irresponsabili, e innocenti,
quando c'è un morto per terra.
Come in guerra.
Un saluto da Alberto Arbasino
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Da: Oliviero Ponte di Pino [olivieropdp@libero.it]
Inviato: 6 settembre 2001 07:55
A: Franco Quadri [ubulibri@libero.it]
Oggetto: post G8
Certo, ovvio che c'è stato anche un dopo (e magari anche un prima, ma su questo preparo un altro mail domani).
In effetti, la cosa più buffa (se sei fuori di galera) del dopo G8 è che in galera ci sono finiti soprattutto dei teatranti. Quelli della PublixTheatreCaravan, quelli che chiamano la polizia "policestatetheatre" e che dunque sono perfettamente consapevoli dell'effetto rappresentazione degli scontri "no-global". (c'è una interessante intervista di Tatiana Bazzichelli ai teatranti austriaci, trovi in "ateatro 21").
(qui forse potrei anche ricordare la celebre scena della Cinese di Godard, in cui una studentessa viene inquadrata in primo piano: ha convocato una conferenza stampa, ha il volto completamente bendato e inizia a raccontare delle violenze subite dalla polizia. Racconta mentre si toglie lentamente la benda, con tono sempre più drammatico e concitato, il giornalisti in conferenza stampa e il pubblico al cinema seguono con crescente partecipazione, finché non si accorgono che la ragazza è assolutamente sana, che non l'ha menata proprio nessuno, e ci restano male…)
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Da: Oliviero Ponte di Pino [olivieropdp@libero.it]
Inviato: 8 settembre 2001 06:55
A: Franco Quadri [ubulibri@libero.it]
Oggetto: pre G8
Avevo promesso un mail con qualche appunto pre G8. Ci ho pensato un po' sul, il rischio è di allargare troppo il campo. Andrebbe ovviamente citata L'agenda di Seattle dell'Impasto, che ha suscitato discussioni e dibattiti anche all'interno del movimento. Ma a me è sembrato (malgrado le intenzioni) uno spettacolo politicamente ingenuo e esteticamente bruttarello (o politicamente brutto ed esteticamente ingenuo?). In ogni caso ti allego la lettera aperta all'Impasto che avevo pubblicato su "ateatro 11".
Dopo di che – non so se nel prima o nel post – farei ovviamente un accenno al Living e al suo spettacolo, replicato anche a Genova per il G8. Probabilmente basterebbe mettere da qualche parte l'intervista a Hanon Reznikov pubblicata dal "manifesto" (c'è nel forum sul teatro di guerra) – e magari una vecchia frase dal Lavoro del Living:
"Quando il pubblico saprà conoscere la violenza alla chiara luce della parentela della nostra empatia fisica, uscirà da teatro e trasformerà tale male nel bene che ha trasformato le Furie in Eumenidi".
Poi non so se ha senso, e se c'entra, ma c'è tutto il lavoro sui "Teatri di guerra" fatto da Teatroaperto (per il video hanno intervistato anche te). Ci sono molti materiali, compreso un pamphlet pubblicato da "ateatro" (la casa editrice, con la quale peraltro non ho alcun rapporto) e disponibile online su vari numeri di "ateatro". Ma questi materiali li hai già.Ah, poi bisognerebbe trovare qualche citazione appropriata di Biljana Srblianovic, e sul suo "teatro di guerra", che ha accompagnato le recenti vicende serbe con grande intelligenza ed efficacia politica… Ma sto mettendo troppa carne al fuoco, nell'insieme mi sembra a questo punto di aver raccolto abbastanza materiale. Adesso basta mettersi a scrivere…
Dunque mi metto al lavor-o.
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Da: Oliviero Ponte di Pino [olivieropdp@libero.it]
Inviato: 23 settembre 2001 19:45
A: Franco Quadri [ubulibri@libero.it]
Oggetto: che fare?
Hai ragione, è un po' che non mi faccio vivo, ma dopo quello che è successo l'11 settembre alle Twin Towers il pezzo sul G8 proprio non riesco a proseguirlo. Almeno non con quel tono.
Cia-o.
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Da: Oliviero Ponte di Pino [olivieropdp@libero.it]
Inviato: 10 ottobre 2001 22:30
A: Franco Quadri [ubulibri@libero.it]
Oggetto: R: R: che fare?
Insomma, provo a andare avanti. Ma non credo che riuscirò a finirlo come avrei voluto, il pezzo su Genova.
Il significato del mio pezzo era (spero) abbastanza chiaro: quella di Genova è stata una grande auto-rappresentazione politica, amplificata dai mass media (e con tutti i protagonisti ben consapevoli di questa amplificazione e di molti dei suoi effetti). Con la mia satira era proprio questo l'aspetto che cercavo di mettere in luce.
Sottolineavo anche alcune ingenuità e punti deboli nel rapporto tra questa "spettacolarizzazione" dell'azione politica, l'evoluzione della democrazie negli ultimi anni, la pesante involuzione della situazione politica italiana di questi mesi (non a caso a Genova in quei giorni c'erano il vice-presidente del Consiglio Fini e altri esponenti di Alleanza Nazionale, e non il Ministro degli Interni, che se ne stava a Roma…), una scarsa riflessione sull'uso della violenza nei processi democratici eccetera eccetera. In una parola, giocavo sul rapporto tra la rappresentazione della forza e la forza "vera" (un'immagine emblematica: gli scudi e le spettacolari barriere di autodifesa preparate per mesi dai centri sociali che resistono pochi secondi a un reparto di forze dell'ordine neppure troppo cattivo…).
Peraltro il "teatro politico" che si è messo in atto a Genova ha una lunga tradizione. Mi è venuto in mente in questi giorni di rileggere Cacciari:
"La polis esiste soltanto nel processo del suo dividersi. Tra chi la trasforma, la innova e la vuole in itinere, e chi ne pretende inamovibile il Nomos; tra chi ne custodisce le tradizioni come autentiche parole vere (mýthoi), e chi le analizza criticamente-liberamente, finendo col conferire al termine mythosil significato di leggenda o favola; tra chi ne vede nell'oîkos la radice, e chi ne esalta la forza; tra chi teme in Nume dell'onda, e chi lo vuole dominare, riducendo il Mare a cammino, a via, interrandolo dunque (e così la stessa hýbris del Gran Re contagia le grandi talassocrazie, da Atene e Venezia). Necessariamente, la libertà della polis fallisce nel suo supremo agón: quella per sconfiggere hýbris. E questo naufragio ne determina la lacerazione, che sta al centro del dramma classico: dai Sette contro Tebe all'Antigone. Di volta in volta la città muta parere su che cosa sia giusto (I sette contro Tebe, 1070-1971); ma, opinando sul giusto, il suo Nomos sarà per forza cangiante e precario, affidato a Tyche come la più pericolosa della navigazioni." (Massimo Cacciari, Arcipelago, pp. 26-27)
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Da: Oliviero Ponte di Pino [olivieropdp@libero.it]
Inviato: 20 ottobre 2001 14:50
A: Franco Quadri [ubulibri@libero.it]
Oggetto: G8
Caro Franco,
continuo a pensarci. Dopo l'11 settembre credo sia necessaria una riflessione profonda, che non sono in grado di fare in tempi brevi.
Scusami se la prendo un po' alla larga (ma al teatro spero di tornarci, alla fine di questa riflessione), e affrontando argomenti che non dovrebbero trovar posto in un "Annuario dello Spettacolo" (ma il "Patalogo" è anche qualcosa di più).
Penso che in questi anni (diciamo dopo l'89), dopo "il trionfo della democrazia sul comunismo", sia in gioco proprio la democrazia. Se vogliamo cogliere un senso alla storia degli ultimi secoli, abbiamo assistito a un allargamento dei diritti umani fondamentali: che sono stati estesi spesso al "terzo stato", e poi al "quarto", alle donne… È stato un processo lungo e doloroso: un susseguirsi di lotte lunghe e dure, in conflitti anche violenti, che in molte occasioni sono andati oltre il limite della legalità.
Quello che stiamo rischiando, ora, è che in nomi di leggi astratte (quelle dell'economia e della finanza) gli spazi di democrazia e partecipazione finiscano di fatto per restringersi. E questa fase di isteria bellicista, di paura diffusa, di ansie, aggrava ancora di più la situazione. (Penso alle libertà e garanzie costituzionali sospese a Genova per i G8, penso alla riduzione della privacy determinata dalla "guerra al terrorismo", penso al parlamento degli Usa "chiuso per antrace"…).
Il movimento di Genova, con tutte le ingenuità che mi sono divertito a raccontare (ma per cercare di raggiungere una maggiore consapevolezza della situazione), è stato un tentativo di riallargare le possibilità di partecipazione democratica di fronte allo scippo dei G8 e altre entità astratte. La lezione di Genova – se ce n'è stata una – è che gli spazi di azione politica democratica oggi sono pochi e vanno usati con attenzione e determinazione, senza ingenuità. E ancora di più oggi, quando rischiamo uno scenario di guerra totale globale, senza esclusione di colpi…
Ma a questo punto, mi chiederai, che c'entra il teatro con tutto questo? Non lo so, ma però mi sembra che c'entri, o che dovrebbe entrarci. Insomma, vorrei provare a ripensare un nesso originario: non solo quello tra teatro e democrazia nell'antica Atene (sulla quale si fondano molte ipotesi di teatro politico), ma anche quello tra teatro, democrazia e guerra che è alla radice di quella che chiamiamo civiltà occidentale. In questa ottica, proverei a rileggere qualche storico della guerra e il Massimo Cacciari di Geofilosofia dell'Europa e di Arcipelago¸ quando parlando dei Persiani di Eschilo spiega che il teatro greco nasce dalla guerra. Intanto ho trovato qualche citazione, che mi copio qui sotto, come prima base del lavoro. Per cominciare, l'evoluzione della guerra dall'età classica a oggi. Nelle polis greche,
democrazia e battaglia campale erano, ovviamente, due facce della stessa medaglia. Da tempo è stata riconosciuta la connessione tra democrazia e principio della milizia; non occorre grande intuito per capire che coloro che votano a favore della guerra si impegnano a combatterla in prima persona. Ciò che non era stato capito, fino a quando Hanson non lo ha rivelato, è che i militi greci votavano anche per un nuovo genere di guerra che doveva avere lo stesso esito del processo democratico: un risultato inequivocabile e immediato. Democrazia e battaglia campale, come è naturale, si differenziano per la qualità: la prima non è violenta, mentre la seconda è inevitabilmente, e anzi di necessità, brutale e distruttiva. Ma la logica della seconda è insita nella prima. Un uomo la cui esistenza è radicata in quella della sua città, della sua fattoria e della sua famiglia non può impegnarsi in una campagna senza limiti, al contrario di chi non ha responsabilità né proprietà. Meglio correre il rischio di morire domani, con la possibilità però di ritornare vittoriosi a casa il giorno dopo, piuttosto che l'incertezza interminabile, rovinosa e dissanguante della guerriglia. Un uomo libero (…) ha ipotecato la propria vita per la sua libertà e dev'essere pronto a rischiarla sul campo di battaglia se vuole estinguere quell'ipoteca. Proprio la disponibilità a morire sul campo di battaglia conferì alla vita politica dei greci liberi il suo carattere eroico. La tesi conclusiva (e sconfortante) di Hanson è che il mondo moderno conserva tanto l'idea della democrazia quanto della battaglia decisiva ma, mentre non ha fatto grandi progressi sulla prima, ha snaturato in maniera enorme la seconda. (John Keegan, dalla Prefazione a Victor Davis Hanson, L'arte occidentale della guerra. Descrizione di una battaglia nella Grecia classica, Garzanti, Milano, 2001)
Oggi, invece,
la forma della guerra non ha più a che fare con determinazioni di luogo e neppure con gli elementi originari. Conquistato l'ultimo elemento (ovvero "l'oceano del cielo", n.d.a.), tutti divengono indifferenti. La guerra si muove 'a priori' nello spazio come pura forma, tutta 'a disposizione' della téchne calcolante. Nessun luogo resiste, così come nessun tempo vissuto; luoghi e tempi vengono sradicati, tratti lassù nell'unità dello sguardo che dall'alto tutti-insieme domina. 'Lassù' non sta ad indicare un altro, nuovo luogo, ma, all'opposto, il superamento di ogni determinazione terranea e temporale-terranea. Perfetta Auf-hebung: il luogo è davvero ri-posto 'in alto', è superato, cioè posto-sopra, concepito nella superiore unità della sua idea, cioè perfettamente veduto, A questo non-luogo era necessario pervenisse il viaggio di coloro che credono fermamente di poter 'acquistare' solo abbandonando la propria terra, dei "nati per non avere la pace", come chiama Tucidide gli Ateniesi. (Massimo Cacciari, Geo-filosofia dell'Europa, Adelphi, Milano, 1994, p. 69)
Spero mi scuserai l'ennesima citazione da Cacciari, più direttamente legata al teatro, e che forse giustifica le precedenti, su cui mi piacerebbe (con calma e tempo, nei prossimi mesi) continuare a riflettere. Si riferisce al sogno della Regina nei Persiani di Eschilo (vv. 176-214).
La donna, che in vesti persiane segue mansueta il suo signore, è l'Asia, "ricca di genti … gregge divino"; la donna in vesti doriche è Eleuthera indomabile, la libertà greca, suddita a nessuno. Ma la tragedia è tale proprio in quanto non le contrappone affatto immediatamente. Una stásis è la loro, non un pólemos. Qui addirittura la guerra che per il greco ha finito con l'essere assunta a modello del pólemos, della guerra contro il barbaro, viene chiamata col nome della 'guerra interiore'. Asia ed Europa non soltanto appaiono entrambe belle e divine, ma realmente "sorelle di sangue, della stessa stirpe". Abitano terre diverse, ma una ne è l'origine. Questo enigma costituisce il cuore della tragedia. (Massimo Cacciari, Geo-filosofia dell'Europa, cit., pp. 18-19)
Un'ultima citazione, da Théâtres de la guerre. Eschyle, Shakespeare, Genet, a cura di François Lecercle (Klicksieck, Parigi, 2001), un'analisi sulle modalità di rappresentazione della guerra nel teatro occidentale condotta in parallelo da diversi studiosi sui Persiani (appunto), Enrico IV. Parte prima e I paraventi.
Nell'insieme i tre testi, per ragioni diverse, si pongono al di fuori delle forme che in apparenza possono rappresentare la guerra nella maniera migliore. Del resto opzioni di questo genere sono esistite: sotto l'Impero romano, gli spettatori si vedevano offrire battaglie navali, combattimenti di gladiatori e in alcuni casi autentici omicidi. Nel XIX secolo, i teatri concepiti da Ashley permettevano ricostruzioni di battaglie, soprattutto equestri. Nel XX secolo, il cinema si è specializzato nella rappresentazione dei conflitti più diversi, anche adattando testi dello stesso Shakespeare.
Nei tre testi presi in esame, la messinscena della guerra fa invece appello all'immaginazione dello spettatore. Si può supporre che questa scelta fosse automatica quando si conservavano un ricordo e una vaga conoscenza dei combattimenti, che nel caso di Salamina e della Guerra d'Algeria erano eventi contemporanei. In ogni caso, questo appello viene espresso chiaramente quando si tratta della battaglia di Azincourt, peraltro successiva a quella di Shrewsbury. (…) E non è certo un caso se Eschilo e Genet mettono in scena dei personaggi ai quali gli eventi vengono narrati, e che, a partire da questo racconto, devono immaginarseli. (...) Per sollecitare l'immaginazione degli spettatori, i tre testi non fanno affidamento ai dettagli realistici, anche se se ne trovano diversi. (…) L'immaginazione trova piuttosto un supporto in forze antagoniste che vengono amplificate, [secondo] un procedimento caro all'epica. (…) Come sottolinea Genet, l'importante è "dare agli spettatori l'idea di una Forza che s'oppone a un'altra forza".
Mettere in scena la guerra, significa dunque fare sempre, e ancora di più, teatro. Significa credere che il teatro possa, sviluppando il proprio principio e tutte le risorse che ne derivano, rimanendo se stesso e soltanto se stesso, suggerire le battaglie senza tuttavia ricostruirle in maniera realistica. Significa credere anche, alla fine, a quella che chiamiamo "magia del teatro". Una magia che non si limita a qualche gioco di prestigio, ma si crede talmente potente da dar vita, magari solo provvisoriamente, ai morti. (Daniel Mortier, Théâtres de la guerre, cit., pp. 59-65)
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Da: Oliviero Ponte di Pino [olivieropdp@libero.it]
Inviato: 23 ottobre 2001 19:45
A: Franco Quadri [ubulibri@libero.it]
Oggetto: una conclusione
Mi spiace, più di così non riesco a fare in tempi stretti. Non riesco a dare una forma diversa da questi mail alla mia riflessione sul G8 e sui suoi postumi. Sui giornali di questi giorni però ho trovato un paio di citazioni che mi potrebbero funzionare da conclusione (provvisoria) a questo mio soliloquio. La prima è tratta da un'intervista a Jan Frabre, quando è venuto a Roma a presentare il suo (bellissimo) lavoro, As long as the world needs a warrior soul, l'altra da un'intervista a un'attrice musulmana che lavora in Inghilterra.
Lei come si sente di fronte a questa guerra?
Mi viene da dire che è una vera follia teatrale, che è cattivo cinema come è tutta la macchina che i media inventano o gonfiano per diffondere il panico. Che poi è il terrore nel senso peggiore. Cioè non stiamo parlando di un terrorismo mentale, che significa porsi domande molto profonde sul senso del sé e delle cose che si fanno. L'ideologia credo che se estremizzata diviene pericolosa e stupida. Un po' come i media che fanno di noi delle bambole e riescono a farcelo piacere.
Diceva della storia che si ripete. Può spiegarci meglio?
Quanto è accaduto l'11 settembre non mi ha sconvolto, perché è uno tra i risultati di un processo che ha radici lontane. La società occidentale è molto presuntuosa, si sente fiera della sua civiltà che esclude però tutto quanto viene visto come disturbante. Geneticamente il terrorismo sta dentro di noi, la natura è guerra ma bisogna vedere che significato dare questo. Gli esseri umani sono bizzarri animali che non si rispettano l'uno con l'altro e non rispettano gli altri animali. Penso che dovremmo avere più attenzione per la natura, per gli animali, sono fantastici dottori e filosofi, forse avremmo anche più rispetto per noi stessi.Jan Fabre (da un'intervista di Cristina Piccino, "il manifesto", 21 ottobre 2001)
Shazia, perché ha deciso di includere nel suo spettacolo delle battute sull'11 settembre? Quando ho visto quelle terrificanti immagini in televisione ho disdetto tutti gli spettacoli per due settimane. Poi mi sono detta che bisognava andare avanti. Quando ho ripreso a esibirmi, in sala c'era un'atmosfera pesantissima. Vedevo dalle facce tese del pubblico che la gente si chiedeva se avrei parlato di quello che era successo. Ci sono riuscita solo 15 giorni dopo, a un mese dagli attacchi. E sono contenta. Perché ridere aiuta a sfogarsi e aiuta anche a capire. Il pubblico la contesta? Ora non più. All'inizio un po'. C'erano i bianchi che pensavano che fingessi di essere musulmana, i musulmani estremisti che mi dicevano di tornare a casa a preparare da mangiare per gli uomini, chiudere la bocca e stare zitta. A volte ho avuto paura. Perché quando minaccia questa gente fa sul serio, come abbiamo imparato sulla nostra pelle. Ma non ho mai pensato di smettere. Anzi, voglio fare sempre di più: com'è che nei film di Hollywood non ci sono quasi mai asiatici? La sua specialità è la parodia delle donne musulmane. Come ha reagito la sua famiglia? L'hanno presa piuttosto bene devo dire. I miei genitori pensano ancora che la commedia sia un hobby e che prima o poi tornerò a insegnare fisica a tempo pieno e a utilizzare la laurea in biochimica - sì proprio in biochimica -, dovrò trovare una battuta anche su questo ora che gira l'antrace. Ma sono relativamente aperti, quindi non mi hanno ostacolato. D'altronde erano preparati. Quando avevo 11 anni ho portato a casa una pagella dove la maestra aveva scritto: "A Shazia piace fare il clown". Era vero. Ce l' ho nel sangue. Devo sottolineare comunque che io non mi prendo gioco della religione islamica. Sono musulmana e orgogliosa di esserlo. Mi diverto solo a descrivere come viviamo noi donne. Essere sul palcoscenico è liberatorio e mi piace far ridere il tipico uomo bianco che dell'Islam non sa nulla. La domanda che mi sento rivolgere più spesso è: "E' vero che camminate due passi dietro i maschi? L'ho inserita anche nello spettacolo ("sì, da dietro siete più belli"). La realtà è che il Corano parla con molto rispetto delle donne e dà loro molto potere, ma il messaggio si è perso. Nella lotta contro l'ignoranza, il fanatismo e l'intolleranza una risata è un'arma potente.
Shazia Mirza (da un'intervista di Paola De Carolis, "Corriere della Sera", 21 ottobre 2001)


 
 
 
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