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ISSN 2279-9184

ateatro 25.1
1/4/2004 
Ibsen con gli occhi di Craig
nel Borkman di Ronconi
di Fernando Mastropasqua
 

In un commento alle tavole dedicate a Macbeth e Rosmersholm (1) Craig
pronunzia un giudizio molto severo nei confronti di Ibsen:

Quel che non riesco a spiegarmi è perché la bellezza, il mistero e la forza di Ibsen vengono eclissati dal mistero e dalla forza ben più grandi di Shakespeare. Vicino a lui Ibsen, che paragonato a un autore moderno sembra un gigante, sparisce. Dove? Nella sua particolare, piccola casa; mentre Shakespeare sale sempre più in alto. In che cosa consiste lo straordinario divario tra i due scrittori? Non basta qualche secolo di distanza per spiegarlo. Per me si tratta di questo: Shakespeare era un artista, Ibsen non lo è. Ibsen è un uomo straordinario, uno degli uomini più straordinari del XIX secolo; risolve problemi che gli altri non possono o non vogliono risolvere, pone domande che nessun altro ha mai posto, eppure, messo in confronto con Shakespeare, perde ogni importanza; sembra timoroso, in un certo senso, di essere banale, ordinario, quel che noi chiamiamo semplice; e questo perché non è un artista. Non bisogna fare paragoni, dicono, ma io non ne sono così sicuro, credo anzi che sia necessario e utile. Se non si fissa per la letteratura drammatica un punto di riferimento a cui riportare le varie opere, il mondo accoglierà lavori di decima invece che di prima qualità."

Nella sua ansia di definizione di un nuovo teatro Craig non esita a liquidare un autore amato e più volte messo in scena.(2) La ragione fondamentale di tanta severità sta nell'identica tensione di ricerca: la rinascita del tragico in epoca moderna. Craig pensa che si possa ottenere solo reinventando una "forma" di teatralità. Quando si volge alla ricerca di testi adeguati, scopre che la
scrittura non si è elevata al grado di poesia necessario. Pur nobile, rimane nell'ambito del dramma borghese: dialoghi e stanze chiuse (non è un caso che egli definisca la scena per Rosmersholm "room"), che impediscono ai temi, anche se costruiti secondo i canoni del tragico, di innalzarsi a tragedia. La drammaturgia di Ibsen viene sentita come ostacolo alla invenzione teatrale, le parole non risuonano con gli stessi accenti di Eschilo o di Shakespeare.(3) Ritengo che un superamento di tale dissonanza sia stato lo scopo della regia di Ronconi del Borkman, di cui qui, per brevità, mi limito a considerare soltanto la prima scena del primo atto.
La situazione introduce immediatamente nel dramma dei Borkman. È l'incontro tra le due sorelle Ella e Gunhild. La prima ha amato John Gabriel Borkman, ma questi le ha preferito la sorella che ha sposato e dalla quale ha avuto un figlio Erhardt. Dopo il fallimento della banca di Borkman, questi viene condannato e sconta in carcere una pena di cinque anni. La famiglia è ridotta sul lastrico. Viene aiutata proprio da Ella, che ha anche allevato Erhardt nei primi anni sostituendosi alla madre. Le due sorelle non hanno avuto più rapporti per otto anni. All'apertura di sipario Gunhild riceve una visita di Ella. Come da giovani si sono contese Borkman, adesso si contendono Erhardt, al quale la madre pensa soprattutto come a colui che riscatterà il disonore in cui Borkman ha precipitato la famiglia.
Da quando Borkman è tornato dal carcere, si è chiuso in una nuova prigione, una stanza della villa in cui abita con la moglie, al piano superiore. Mentre avviene l'intenso colloquio delle due donne, si sentono i passi di Borkman. Non esce, se non di notte, dalla stanza; non riceve nessuno, tranne un vecchio amministratore Foldal; non ha nessun rapporto con la moglie. La presenza spettrale di Borkman ricorre ossessivamente nel dramma e viene avvertita fin all'inizio della storia. Tutta l'atmosfera è dunque di grande tensione e cupezza. Il dialogo tra le due sorelle è uno scontro violento tra nemici irriducibili. Ibsen realizza qui uno dei suoi migliori incipit tragici, indicando il deflagrare di una lacerazione all'interno del mondo borghese, costruito sui valori famigliari intesi come potere. Fu il potere a guidare Borkman nella scelta di una donna che non amava, e a rinunziare all'amore; fu la sopravvalutazione del proprio dominio a portarlo alla rovina e a renderlo dipendente con la famiglia da chi aveva oltraggiato. Le didascalie fanno pensare che Ibsen abbia immaginato una scena, in cui il confronto delle due donne si gioca in piccoli movimenti attraverso la stanza, nell'intreccio degli sguardi (sono molte le notazioni riguardo la direzione degli sguardi e i sentimenti da cui sono dominati) e in gesti minuti. Non è data nessuna indicazione riguardo le posizioni, per cui si deve ritenere che egli pensasse alla scena interamente recitata in piedi. La lotta si esprime in tutta la sua pienezza. I contendenti si affrontano eretti, senza ripiegamenti.(4)
Nel mettere in scena questo testo Ronconi si è trovato di fronte al problema di mantenere il livello tragico della situazione, evitando di ridurlo alla dimensione di tragedia domestica nel salotto di Gunhild Borkman. Ronconi ha voluto sconfessare Craig, dimostrando che la scrittura ibseniana era idonea a trasformarsi in poesia della scena. Lo ha fatto affrontando Craig sul suo stesso terreno; ossia rivelando l'infondatezza del giudizio negativo di Craig attraverso scelte stilistiche che sono in armonia con la poetica dello stesso Craig.
È possibile avere un'idea della regia di Ronconi, ricorrendo all'edizione televisiva del 1982,(5) nella quale il mezzo tecnico concorre a potenziare le scelte dello spettacolo. Ronconi ha tagliato la premessa introduttiva, la scena con la cameriera che annuncia l'arrivo di una signora sconosciuta (Ella). Ha potuto così rendere l'incontro tra Ella e Gunhild più drammatico, eliminando l'attesa e la sospensione dell'ingresso.(6) Gunhild è abbandonata su una poltrona, quando Ella entra dalla porta e le si erge davanti. La scena è in penombra.
La stanza è avvolta in pesanti cortine che coprono anche la finestra. Solo una piccola luce, per le tende appena scostate, emana dalla finestra. L'atmosfera è cupa, grigia. Il colore, monocromo, investe tutto: le pareti della stanza, i mobili, le tende, gli abiti delle attrici. È un tetro verde, profondo e pieno d'ombre.
Nel commento a una tavola dedicata al Macbeth Craig scrive:

Nelle Conversazioni con Eckermann Goethe dice a un certo punto:
"La tinta dello scenario dovrebbe di norma accordarsi con i costumi degli attori. Lo scenario di Beuther, per esempio, tende sempre più o meno allo scuro e fa risaltare in tutta la loro vivacità le stoffe dei vestiti. Se invece lo scenografo è obbligato a rinunciare a questa tonalità indefinita che va bene con tutto, e a dipingere una sala rossa o gialla, una tenda bianca, un giardino verde, in questo caso sono gli attori che devono prendere la precauzione di non indossare costumi degli stessi colori. Se un attore con giacca rossa e pantaloni verdi cammina in una stanza rossa, la parte superiore del corpo sparisce e restano solo le gambe; se cammina in un giardino verde, scompaiono le gambe e resta solo il busto. Ho visto un attore con giacca bianca e pantaloni molto scuri, visibile metà per volta, a seconda che si trovasse di fronte a una tenda bianca o a uno sfondo scuro.
Comunque lo scenografo, anche quando rappresenta una stanza rossa o gialla, o dell'erba, dovrebbe sempre attenersi a tinte piuttosto deboli ed evanescenti, in modo che i costumi possano intonarsi e risaltare".
Faremmo bene a studiare a fondo questi suggerimenti, a provarli in palcoscenico e a osservare i risultati. Non occorre un grande sforzo per capire che contro uno sfondo nero sta bene un costume bianco, e contro uno sfondo chiaro, uno nero. Questo se si vuol far risaltare la figura; ma se vogliamo che si immerga, o addirittura si perda nella scena? Macbeth che vaga di notte intorno al suo castello sembra formare tutt'uno con esso; ricordo che, quando Irving lo interpretava, aveva indosso un costume quasi simile a quello delle pareti.(7)

Più tardi, in Scena, scrive:

La scena si regge da sola ed è monocroma. Il colore è dato esclusivamente dalla luce; a volte ho ottenuto tanti di quei colori che nessuna tavolozza potrà mai produrre.(8)

Ella e Gunhild si perdono nelle tonalità verdi della scena, i loro capelli grigi si immergono e riaffiorano creando particolari riverberi nella tonalità dominante. Solo i loro volti sembrano galleggiare, secondo ancora una intenzione craighiana:

Una delle prime esigenze del pubblico è di vedere e udire l'attore che recita, e di vederne specialmente il volto (o la maschera) , le mani e la persona. […] Potete vedere un volto, una mano, un vaso, una statua, meglio su uno sfondo piatto e incolore che su uno sfondo su cui sia dipinto o scolpito un modello colorato o qualche altro oggetto. […] Quando ascoltiamo uno che parla, sia esso in una stanza o in una sala o in un teatro, vediamo una cosa sola: il suo volto. A teatro i nostri occhi seguono colui che parla. perciò quando sono in due a parlare, di solito è bene che siano il più vicino possibile l'uno all'altro.(9)

Il mezzo televisivo ha la possibilità di realizzare questo effetto con maggior aderenza che in teatro con i primi e i primissimi piani dei volti delle due attrici: Franca Nuti (Gunhild) e Marisa Fabbri (Ella) .
Se la scelta della monocromia e del rapporto tra scena e attore, tra ambiente e volto, sembra dunque ispirato alle teorie di Craig, nella stessa direzione Ronconi si dà il compito di stabilire un rapporto tra il luogo e il movimento degli attori. Dalle battute e dalle didascalie Ibsen lascia supporre che le due sorelle si affrontino in piedi. Ronconi non segue tale indicazione. Gunhild, in alcuni casi, tenderà ad appoggiarsi ai mobili o a sedersi. Di fronte all'attacco di Ella perde sicurezza e si accascia.
La soluzione parrebbe in qualche modo riportare elementi realistici e ridare tridimensionalità ai mobili divenuti un'unica cosa con le tende, trasformare di nuovo il luogo in scenografia. In realtà la ragione di questa scelta produce l'effetto contrario. Anzi tende ancora di più a rendere astratto il luogo dello scontro. I sostegni di Gunhild diventano simboli dei suoi cedimenti, della sua fragilità. Fanno acquistare senso alla impostazione generale che è quella di evitare il dialogo da salotto. Le sorelle infatti non si parlano. Parlano a se stesse, parlano al vuoto. Le battute di Ibsen acquistano una dimensione irreale. Ognuna delle due donne sfugge all'altra. Non intende parlare ma affermare una volontà irriducibile. I movimenti sono pochi e lenti e non avvengono in un luogo reale, calpestabile. I corpi e i volti delle due sorelle sono ripresi in posizioni impossibili, in sequenze di movimento che denunciano l'irrealtà dello spostamento. I movimenti sono "assurdi"; non hanno cioè sequenza reale e le figure emergono da uno sfondo cupo e unitario. Il linguaggio televisivo permette di immaginare i personaggi in un luogo che nega ogni spazialità e la successione degli spostamenti. Quando una sorella segue l'altra, nella inquadratura successiva può precederla o starle davanti. Ogni relazione di spazio tra le posizioni degli attori viene eliminata. L'effetto è marcato dalla mancanza di stacchi fra inquadrature.
Quando i due volti sono uno di fronte all'altro l'affrontamento dà alla battuta un rilievo particolare. Non è il cedimento al dialogo, quanto piuttosto il valore di una ferita inferta. Le posizioni che più ritornano sono infatti l'inseguimento (una caccia l'altra), l'affiancamento (l'identica volontà delle due sorelle che si sono contese l'uomo, Gunhild ha rubato il marito a Ella e Ella il figlio a Gunhild), l'affrontamento (lo scontro dovuto alla contesa presente: conquistare Erhardt il figlio di Borkman). Le posizioni si succedono implacabili e quando si arriva a una congiunzione (abbraccio), le due teste sono riprese, ognuna al di sopra della spalla dell'altra, in modo da costituire una X: l'abbraccio non è che una altra forma di affrontamento, come quando due spadaccini sono costretti dalla lotta a un corpo a corpo che li lega in un abbraccio di minaccia e le spade si incrociano per respingersi.
Ronconi realizza pienamente l'idea di Craig che la scena non va intesa come scenografia, ma come "place", come luogo, ma luogo ideale dello scontro dei personaggi che si misurano con forze che li sovrastano. Così il luogo è il luogo dell'impossibile azione dell'eroe tragico, votata alla sconfitta, e non il doppio di un luogo reale (ambientazione scenografica). La scena sembra non avere confini, le tende si perdono oltre il cielo, come nelle tavole craighiane, al di là dell'arco scenico. Il palco inquadra una porzione limitata dello spazio dell'azione che non è misurabile, come non è misurabile il dolore degli attori. Il grande specchio che si apre all'interno, al posto della finestra, non rimanda riflessi di luce, ma immagini cupe, funeste. Il vuoto in cui agiscono i personaggi ha un solo confine: il destino a cui sono condannati. Ronconi restituisce a Ibsen quella grandezza tragica che Craig gli aveva negato e lo fa utilizzando indicazioni craighiane, quasi a voler dire che Craig aveva i mezzi per cogliere il tragico ibseniano, ma è stato cieco a se stesso.

1) Tavv.1 e 14 dell'ed. it. di Towards a new theatre (London 1913): Per un nuovo teatro, in Il mio teatro, a cura di F. Marotti, Milano, Feltrinelli, 1980², p.188.
2) Oltre a Rosmersholm (1906), Craig dedica tavole e in alcuni casi realizza messe in scena di Peer Gynt, I guerrieri a Helgeland (The Vikings) (1903), I pretendenti al trono (1926), La donna del mare.
3) F. Mastropasqua, In cammino verso Amleto. Craig e Shakespeare, Pisa, BFS, 2000, in part. pp. 45-71.
4) Mi baso sulla traduzione di A. Motzfeld Tidemand-Johannesen, condotta sull'edizione di Oslo (1930), pubblicata da Mursia: H. Ibsen, Opere teatrali, Milano 1962-1986, voll.I-IV. John Gabriel Borkman (Giangabriele Borkman) è nel IV vol.
5) Il video è conservato presso l'Archivio del Teatro Stabile di Torino. La produzione è TST Torino-RAI, 1982. L'adattamento e la regia sono di L. Ronconi; le scene di E. Guglielminetti; i costumi di V. Marzot; gli attori principali: Omero Antonutti, Marisa Fabbri, Franca Nuti, Claudia Giannotti, Gianni Bonagura.
6) v. R. Alonge, Luca Ronconi, John Gabriel Borkman, in R. Alonge-R. Tessari, Lo spettacolo teatrale. Dal testo alla messinscena, Milano, LED, 1996, p. 75.
7) La stessa tonalità era stata usata da Craig per Rosmersholm nel 1906, v. F. Marotti, L'itinerario di Gordon Craig, in E. G. Craig, Il mio teatro, cit. p. XXVIII-XXIX.
8) Tav. 16 dell'ed. it., E. G. Craig, Il mio teatro, cit., pp. 189-190.
9) Craig fu guidato da queste idee quando realizzò la tavola 16 del Macbeth (ed.it.), le tavole a fronte delle pp. 71 e 78 dell'ed. or. Towards a new theatre, London 1913.
10) E. G. Craig, Scena, in Il mio teatro, cit., p. 223.
11) Ivi, pp. 226-227.


 
 
 
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