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ISSN 2279-9184

ateatro 144.66
7/31/2013 
La maschera della diversità: il Ligabue di Mario Perrotta attore e pittore
Il debutto di Un bès al Teatro Sociale di Gualtieri
di Anna Maria Monteverdi
 



Parte dal teatro Gualtieri di Reggio Emilia, uno dei luoghi “resistenti” del teatro di ricerca, Dammi un bès, spettacolo di Mario Perrotta ispirato alla vita del pittore Antonio "Toni" Ligabue; si tratta del primo atto di un progetto di ampio respiro che prevederà iniziative triennali e collaborazioni anche internazionali.



Lo spettacolo interpretato dallo stesso Perrotta solo in scena, è poetico e toccante, profondo e drammaticamente vero, bello da stringere il cuore. La storia è raccontata dalle parole di Ligabue in quel dialetto sporco tra l’emiliano e il tedesco che gli abitanti del paesino di Gualtieri, paese d’adozione del pittore naif nato in Svizzera, erano abituati a sentire dal “matt”. Ma il racconto teatrale scorre anche attraverso i segni che lo stesso attore traccia con rara maestria, su fogli da disegno dove punteggia per sommi capi, i luoghi dell’infanzia o i capitoli della sua vita, una vita disperata e umiliata, sempre in cammino o in fuga. Aspro cammino, malagevole e fatalmente senza sbocco. Cercando un affetto, o solo un bés, un bacio. Recitare e disegnare in un unico slancio: in questo contemporaneo e difficilissimo sforzo creativo Perrotta dà volto e parole alla follia, all’artista muto, agli incubi di solitudine. Come per il teatro antico l’interrogativo è ancora lo stesso: si può dar forma al dolore? Gli spettatori assistono alla scatenarsi di un destino umano nel breve succedersi di eventi e vengono così, fatalmente proiettati all’interno dell’infelice condizione del protagonista.



Come rapito in un viaggio visionario, Ligabue/Perrotta approda in paesi sconosciuti rimpiangendo terre perdute e forme familiari. Che dire del momento in cui, tracciato con il carboncino una montagna e un volto femminile, Ligabue/Perrotta accucciato come in un gesto di abbraccio totale, in una disperatissima richiesta d’affetto, si rivolge all’effige della madre e a quel paesaggio così a lui caro? Il dialogo in questo caso non è parola tra personaggi ma parola tra attore e luoghi intimi. Si sente in questo straordinario quadro di scena, l’urlo muto, le ferite, le lacerazioni interiori del personaggio. Così tra un dialogo mancato con la centralinista a cui rivela i suoi sogni e i suoi desideri e un disegno abbozzato, si avverte in pieno quel senso di immenso vuoto che contraddistinguerà la sua vita futura. E' proprio la vicenda dei primi anni della sua esistenza che lo segnerà tragicamente, con la madre che lo ebbe fuori dal matrimonio , un uomo che lo riconobbe come padre ma con cui non ebbe rapporti, per continuare con la famiglia adottiva fino all’espulsione dalla Svizzera a Gualtieri, per peregrinare da un ospedale psichiatrico all'altro. Allontanato, cacciato, deriso, visse la sua esistenza sul fiume, visitato da fantasie pittoriche primitive a cui lui dava forma su tela con terre e materiali trovati sulla riva; il suo genio verrà riconosciuto tardi, pochi anni prima della sua morte. Questo dramma della solitudine, del rifuggire la comunità degli uomini per i loro abiti morali e per le loro cattiverie, sono incarnate a teatro da un senso di felice e determinato straniamento dall’ipocrisia con cui gli uomini cercano di difendere la vita sociale e privata.
Come non ci sono proiezioni a ricordare le pitture di Ligabue (gli animali ritratti con quei violenti cromatismi alla Van Gogh), non c’è alcun travestimento o trucco per l’attore a ricordare quel viso puntuto e quel naso adunco che ben conosciamo dai suoi autoritratti e soprattutto dal film interpretato da Flavio Bucci. Perrotta ha realizzato la maschera della diversità assoluta, costruita sull'inquietudine, sulla storia straziante di un uomo su cui il destino si è accanito più e più volte. E’ la maschera della sofferenza umana. Potere del teatro di incarnare una condizione universale dell’essere che ognuno di noi identifica in una figura biografica nota: Ligabue è ritratto in scena come l’essere solitario in un mondo mostruoso, l’uomo fragile spinto però, anche da un’irrefrenabile vitalità fatta di eccitazione e carnalità. Lo spettacolo prima che una biografia del pittore, è una straordinaria metafora della vita perduta, dell’assenza, della ricerca incessante di umanità e affetto. Di questo lo spettatore è sofferente testimone.



C’è nello spettacolo un sentimento della perdita, un senso dell’espropriazione della vita che non può essere ridotto alla patologia di un uomo, alla sua follia e alla sua insofferenza verso la gente. L’impotenza a comunicare e a liberare i propri sentimenti primari e innocenti viene tradotta da Perrotta quasi letteralmente in un impulso naturale e incontrollabile verso l’arte come energia vitale. La bellezza e l’innocenza della sua pittura si racchiude nei luoghi della libertà che si è concesso, un fiume e un bosco. E’ noto come Ligabue cercasse con atti violenti al proprio volto e con gesti bestiali di avere una sorta di somiglianza con gli uccelli e gli animali che ritraeva, con i loro suoni striduli per arrivare a comunicare come loro in una primitiva e totale potenzialità di scambio, per mettersi in relazione con ciò che gli stava intorno. La maschera che Perrotta indossa racconta la ferita dell’uomo che pur nel dramma, nell’isolamento autoindotto, nella follia, sfoga ciò che è imprigionato dentro di sé in un’espressione pura e cristallina di libertà, nel tentativo di una regressione metamorfica con la natura. Un’esistenza quella di Ligabue, che si beffa delle regole nel desiderio di essere ciò che non si può essere. Uno spettacolo indimenticabile che lascia, come il teatro dovrebbe, uno straordinario senso di rivelazione.

(foto di Luigi Burroni)

 

 
 
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