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ISSN 2279-9184

ateatro 144.60
7/24/2013 
Teatri pubblici: quali mani sulla città?
In anteprima dal dossier di "Hystrio" Teatro e pubblico a cura di Maddalena Giovannelli e Roberto
di Oliviero Ponte di Pino
 

E' dedicato al binomio teatro e pubblico il dossier di Hystrio 3.2013, a cura di Maddalena Giovannelli e Roberto Rizzente, con interventi di Giuseppe Liotta, Andrea Perini, Giulia Capodieci, Fabrizio Maria Arosio, Giovanni Sabelli Fioretti, Mario Bianchi, Graziano Graziani, Oliviero Ponte Di Pino, Diego Vincenti, Francesca Serrazanetti, Roberto Canziani, Renzo Francabandera, Andrea Nanni, Cristina Valenti, Giuseppe Montemagno, Domenico Rigotti, Claudia Cannella, Simona Polvani, Maggie Rose, Elena Basteri, Davide Carnevali, Fausto Malcovati e Simone Pacini.
In anteprima dal dossier, il saggio di Oliviero Ponte di Pino.




Ancora una volta, bisogna ripartire da quella frase, per capire che cosa significhi teatro pubblico, e come sia cambiato in questi decenni. Parlare di “Un teatro d'arte per tutti”, lo slogan da cui nacque nel 1948 il Piccolo Teatro di Milano, significava in primo luogo garantire e promuovere l'accesso al teatro – a un teatro di qualità – a coloro che ne erano esclusi. Di qui l'impegno per portare a teatro lavoratori e studenti, in un grande sforzo di organizzazione del pubblico. Negli anni Settanta, l'impegno coinvolse il territorio: le periferie urbane (i “teatri quartiere”) ma anche città e borghi dove il teatro non arrivava da anni (con la creazione dei circuiti).
Questa impostazione ha diversi presupposti, che giustificano e anzi rendono opportuno e necessario il sostegno pubblico alla cultura. In primo luogo, il principio che cultura (e dunque anche il teatro) costituisce un inalienabile diritto dei cittadini, sulla base dell'art. 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura”. Perciò il teatro rientra nell'ambito del servizio pubblico “come il gas!” (Jean Vilar) o “come il tram!” (Paolo Grassi). Infine, la convinzione che la frequentazione del teatro - e in generale la familiarità con la cultura - possa fare di noi dei cittadini migliori, più consapevoli e solidali, e dunque la diffusione dell'arte e della cultura possa avere un effetto positivo sull'intera società. In questa prospettiva, tra i compiti e gli obiettivi del teatro pubblico deve rientrare anche la formazione degli spettatori: da un lato attraverso le scelte di produzione e di programmazione, dall'altro con attività specifiche.
Oggi sarebbe necessario rivalutare, sulla base di questi parametri, la salute del teatro pubblico italiano: un teatro pubblico “allargato”, che non comprenda solo gli stabili pubblici che ne sono il fulcro, ma l'intero sistema, che comprende anche stabili privati, teatri di innovazione, circuiti, e varie sperimentazione sul fronte delle residenze. In questi decenni il pubblico è senz'altro cambiato molto: non è più quello “nazional-popolare” che volevano “catturare” Grassi e Strehler, ma è “esploso” in una molteplicità di pubblici frammentati. Questa frammentazione riflette la profonda trasformazione della società: non più una “polis” che si aggrega (o che si vorrebbe aggregare) intorno a valori comuni, ma un assemblaggio di target (perché siamo tutti consumatori, anche di teatro), con valori, gusti e aspirazioni assai variegati, in una costante dialettica tra omologazione e spinte individualistiche.
Stanno velocemente cambiando anche gli strumenti per raggiungere lo spettatore: non più l'intervento nei luoghi di aggregazione (fabbriche e scuole) e di residenza (quartieri e territorio), non più (o non solo) la tradizionale pubblicità top-down. Oggi assumono un peso crescente il marketing in rete e i social networks, con una comunicazione sempre più personalizzata e coinvolgente.
Molti teatri pubblici, è innegabile, non sono riusciti nemmeno a soddisfare le aspirazioni originarie . Anche perché troppo spesso la “polis” si è ridotta a meccanismi lottizzatori, con i partiti a imporre uomini e programmi. In generale, la scena politica appare frammentata e conflittuale, una poltiglia incapace di dare identità e obiettivi alla collettività: il teatro non può far altro che riflettere (e anticipare e amplificare) queste tendenze. In questa prospettiva, per chi gestisce molti teatri il pubblico può ridursi a un dato di fatto, garantito da una situazione di monopolio sul territorio (ovvero finché non si crea la necessaria concorrenza). Meglio non turbarlo, o peggio scandalizzarlo, e mantenerlo tranquillo nelle sue certezze. Al massimo, se lo sbigliettamento cala troppo, basta rimpinguare il cartellone con qualche nome di richiamo, meglio se televisivo, cinematografico o canzonettaro. Alla peggio, si può contare su rendite di posizione che garantiscono la sopravvivenza di un “teatro pubblico senza pubblico”.
In altre situazioni – soprattutto nelle città più grandi, e in generale nei territori che sono riusciti a strutturare un efficace “sistema teatrale” - i diversi teatri si sono attrezzati per soddisfare fasce di pubblico differenziate per reddito, gusti, fasce d'età... E' una razionalizzazione del mercato: se ben gestito, dovrebbe consentire di “perdere meno utenza possibile”anche in tempi di crisi.
Pesa anche l'enfasi sul mercato, sulla cultura d'impresa, che ha caratterizzato in questi decenni anche l'ambito culturale, con effetti contraddittori. Come pure riecheggia la giusta sottolineatura delle ricadute economiche, occupazionali e turistiche dell'investimento in cultura (che tuttavia in Italia non sono state ancora comprese: basti guardare i programmi elettorali e l'atteggiamento di troppi amministratori).
Certamente esistono realtà che hanno affrontato il problema del pubblico in termini costruttivi, offrendo strumenti di formazione, crescita culturale e dibattito. Ma non sono molte. Basta guardare quali e quanti sono i teatri che si impegnano in attività che vanno oltre la “semplice” produzione e programmazione di spettacoli e investono strategicamente nella formazione del pubblico (in termini non puramente pubblicitari). Sono ancora meno le realtà che hanno provato a innescare meccanismi di partecipazione e condivisione. Il movimento dei teatri occupati è anche l'effetto di questo bisogno, che il sistema dei teatri pubblici non è riuscito a soddisfare (e non a caso ci sono meno teatri occupati dove il sistema teatrale funziona meglio).
Tuttavia è proprio questa la direzione in cui dovrebbero andare le arti, almeno a giudicare dalla parola d'ordine del Creative Europe Programme 2014-2020, “Audience development”. Lo “sviluppo del pubblico”, o meglio l'“evoluzione dello spettatore”, è “un processo strategico, dinamico e interattivo che ha l'obiettivo di rendere le arti più ampiamente accessibili”, attraverso “il coinvolgimento di individui e comunità nell'esperienza, nel piacere e nella partecipazione, e nella valutazione”, attraverso gli strumenti attualmente a disposizione degli operatori culturali, dal digitale al volontariato, dalla co-creazione alla partnership. Nelle intenzioni, questa apertura dovrebbe portare benefici culturali, sociali ed economici.
Ma quanti sono in Italia i teatri culturalmente attrezzati per cogliere questa opportunità? E la nostra società, preda di un'onda regressiva e tuttavia ricca di fermenti culturali e modalità di aggregazione, è in grado di farsi coinvolgere e “riattivare”?

 

 
 
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