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ISSN 2279-9184

ateatro 136.8
10/28/2011 
Eroi, incubi e incantesimi
La Biennale Teatro 2011 diretta da Àlex Rigola
di Fernando Marchiori
 

Poco o niente di nuovo alla Biennale Teatro, almeno per quanto riguarda gli spettacoli. Non che ciò sia di per sé un male, ma molti dei «migliori nomi della scena internazionale» indicati dal neodirettore Àlex Rigola per la 41^ edizione del festival veneziano hanno portato sui palcoscenici della città lagunare opere già viste. Non solo perché si trattava, anche nel caso di alcune prime nazionali, di repliche un po’ tardive di lavori già passati altrove, ma soprattutto perché sono sembrate indicative di un’impasse più che della ricerca in atto nel teatro contemporaneo.
Lo stesso Rigola ha ammesso che «questa edizione non puntava sugli spettacoli», ma mirava piuttosto a diventare parte viva di quel «laboratorio di tutte le arti» auspicato dal presidente uscente Paolo Baratta (e chissà come declinato in futuro dopo il cambio al vertice che porterà il pubblicitario berlusconiano Giulio Malgara alla guida dell’ente): la Biennale come «spazio aperto alla conoscenza e al confronto di professionisti e di un pubblico consapevole e un’officina del fare per quei giovani che si affacciano al mondo dell’arte e dello spettacolo». In questo senso vanno i laboratori, le conferenze, gli incontri, la collaborazione con gli altri settori della Biennale, in particolare con il comparto diretto da Ismael Ivo, da tempo impegnato nel grande progetto dell’Arsenale della Danza.
Tuttavia, dopo il disastro della direzione Scaparro, ci si aspettava di ritrovare a Venezia anche una ricognizione del presente delle scene, una prospettiva inedita, una proposta forte. Invece, da una parte le “giovani” compagnie italiane sono state ghettizzate in una sezione minore, una vetrina di spettacoli al Teatro Fondamenta Nuove tutti con inizio alle ore 13 e incomprensibilmente intitolata Young Italian Brunch (Muta Imago, Anagoor, Ricci e Forte, Teatropersona, Santasangre). Dall’altra le proposte nella sezione maggiore sono apparse talvolta scontate o immotivate. In ogni caso senza una linea programmatica, sia per le opere più interessanti che per quelle più deludenti.
Non si capisce, per esempio, come si sia potuto presentare (sul catalogo del festival) El Box, la commediola di Ricardo Bartís e del suo Sportivo Teatral, come un lavoro che «mette in discussione non solo la relazione tra attore e personaggio, quanto il peso della presenza, la sensualità e il potenziale erotico del corpo in scena». Si tratta in realtà di uno spettacolo verboso e appesantito dai luoghi comuni di tanta drammaturgia sudamericana (fisarmonica e maracas, sport come riscatto sociale, povertà dell’intellettuale, mistica della sventura). Protagonista una ex pugilessa ingrassata ma ancora anelante, con masochismo e ironia, a sfide e scazzottate.



El Box (foto Andrés Barraga).

Nel giorno del suo compleanno, la sua povera casa diventa un ring per una festa sacrificale. Mentre il marito prende le medicine scadute, fidando nell’“effetto residuale”, ed emergono tradimenti e perversioni tanto della coppia come degli invitati, la donna viene messa al tappeto in un’orgia di ganci e fendenti nel corso di quello che vorrebbe essere anche uno scontro generazionale con due improvvisate boxeuses giovani e pimpanti. Non mancano le immagini d’epoca di una Buenos Aires in bianco e nero e del mitico Mohammed Alì. Un’oretta di realismo imbarazzante, senza colpi bassi né slanci lirici, di fronte al quale il richiamo (nel catalogo) all’artaudiano “atleta del cuore” suona come una bestemmia.
E che dire del Desaparecer di Bartís? Un recital da abbonati di provincia, nel quale un attore di tradizione (Juan Echanove, peraltro bravissimo) declama con tecnica impeccabile e trasporto emotivo da grandattore testi di Edgar Allan Poe e Robert Walser. Accanto a lui la giovane musicista ispano-macedone Maika Makovski, cantante e pianista accattivante, che ogni tanto lascia il piano per avventurarsi, non si sa perché, tra le nebbie della scena. Presentato come «un singolare teatro da camera», lo spettacolo risulta decisamente spiazzante nel contesto di una Biennale Teatro, nel senso che è davvero fuori luogo. Non resta che chiudere gli occhi e godersi le volute del mattatore e la musicale traduzione di Julio Cortázar. Peccato non poter chiudere anche il naso, dato che un fastidioso fumo bianco esce dalle quinte e dal palcoscenico per tutta la durata dello spettacolo, avvolgendo palchi e platea del Teatro Goldoni, dove gli spettatori improvvisano maschere filtranti con maglie e sciarpe.


Amleto filmaker

Per fortuna pochi giorni prima, nello stesso teatro, la serata inaugurale del festival aveva inchiodato per due ore e mezza il pubblico con l’Hamlet divertente e irruente di Thomas Ostermeier. In prima italiana a tre anni dal debutto ateniese, lo spettacolo riporta a Venezia, dove nel 1999 era stato applaudito per l’energico Shopping and Fucking di Mark Ravenhill, uno dei registi più apprezzati e corteggiati della scena europea. Alla sua lunga lista di premi e riconoscimenti, l’ancor giovane Ostermeier può aggiungere adesso un Leone d’oro «alla carriera» (proprio così: a 42 anni!) che lo consacra «punto di riferimento internazionale per la reinterpretazione dei testi classici e per la messa in scena della nuova drammaturgia contemporanea».



Amleto.

Dopo gli allestimenti adrenalinici dei nuovi autori inglesi cosiddetti post-thatcheriani, come Sarah Kane, Enda Walsh e Ravenhill, ma anche di autori tedeschi come Marius von Mayenburg o dello svedese Lars Norén, il direttore della Schaubühne di Berlino si è rivolto infatti a Ibsen e a Shakespeare, a Eugene O’Neill e Tennessee Williams. Nel suo Amleto ripropone la contaminazione stilistica dei suoi precedenti successi, quasi una “formula Ostermeier”, di facile presa e riconoscibilità, ma altrettanto facilmente criticabile per la disinvoltura nelle citazioni e nel riuso di materiali tratti dalla multimedialità quotidiana. Qui, tra comici anacronismi e storpiature grottesche (il discorso di Claudio al microfono, la regina che canta una canzoncina di Carla Bruni, Laerte che usa il mitra per ottenere silenzio, il principe che ammicca al pubblico italiano citando il nostrano bugna bunga), l’“eroe che pensa” passa all’azione, sia pure nella psicosi che lo domina e che lo fa sentire in gabbia («Per me la Danimarca è una prigione»). È senz’altro questa la forza propulsiva dello spettacolo: un attore straordinario come Lars Eidinger che dà corpo e voce a un Amleto surreale e scatenato, rock star e clown, acrobata e imbonitore, finissimo interprete dei monologhi e agitatore anarchico nei dialoghi. La centralità del lavoro attorale è esaltata e insieme parodiata dal ventre di gomma che Eidinger indossa sotto gli abiti contemporanei (e che toglierà, palesando il trucco, solo per partecipare alla messinscena sadomaso dei teatranti a corte). Un banale stratagemma – uno dei tanti divertiti omaggi al gioco del teatro – che distanzia il personaggio e nel contempo difende l’attore dai cliché del “pallido principe”. In questa scissione, in questo sdoppiamento della fisicità esorbitante che domina la scena trovano spazio un’introspezione del protagonista e un’indagine psicologica sugli altri personaggi che non sono generalmente tra le preoccupazioni di Ostermeier. Amleto è qui un filmaker, i cui sguardi scrutatori e impietosi coincidono con le riprese che gli attori realizzano reciprocamente in scena sui volti l’uno dell’altro. Sono questi incalzanti interventi video in presa diretta guidati da Sebastien Dupouey che, intessendo un dialogo visuale con la presenza attorale, tracciano un altro piano di attraversamento del classico shakespeariano. I frammenti con primi piani e dettagli mossi, sgranati, ingranditi, sono proiettati sulla tenda a perline appesa a una struttura metallica che avanza e retrocede quasi come una enorme macchina per la TAC destinata a fornire il referto di quelle identità schizofreniche che si agitano al di sotto. Se Amleto è paradossalmente intatto nel suo sdoppiamento, gli altri personaggi s’incarnano in attori double-face con accoppiate mai casuali: Urs Jucker è Claudio ma anche il fantasma di Amleto padre; Judith Rosmair è Gertrude e Ofelia; Sebastian Schwarz è Orazio e Guildenstern, Stefan Stern è Laerte e Rosencrantz, Robert Beyer è Polonio e Osric. La struttura semovente serve anche a ricavare i diversi spazi della rappresentazione ideati da Jan Pappelbaum: davanti un quadrato di torba su cui Amleto giace e rotola spesso e volentieri, dietro un piano rialzato con un lungo tavolo. Davanti ha luogo, prima folgorante scena dello spettacolo dopo l’attacco a sorpresa con «essere o non essere», il funerale del padre di Amleto, che nel testo originale è già morto prima che l’azione cominci. Una scena molto cinematografica, con il becchino che finisce nella fossa insieme alla bara, a metà tra una comica e un film espressionista. Dietro, senza soluzione di continuità, inizia il banchetto nuziale. Davanti i monologhi di Amleto (che moltiplicano, con intonazioni diverse, l’«essere o non essere») e gli incontri con Ofelia, con Rosencrantz e Guildenstern, il duello con Laerte. Dietro la cospirazione di Claudio e Polonio, la morte di Ofelia ripresa in video mentre annega nel cellophane. Evidente l’importanza del lavoro di montaggio, realizzato da Ostermeier con l’apporto di Marius von Mayenburg, autore della traduzione e della drammaturgia. Questo Amleto sgradevole e violento, figlio perverso e nichilista di un sistema politico corrotto, parla fin troppo esplicitamente di noi, della complessità paralizzante, del disorientamento, della manipolazione della verità e dell’identità che oggi sembra poter trovare sfogo solo nell’autolesionismo o nella rivolta cieca contro tutto e tutti.


Abbiamo bisogno di eroi?

Mentre Jan Lauwers e la sua Needcompany sono sbarcati finalmente anche a Venezia, dopo ben sette anni di tournée, con Isabella’s Room, pluripremiata “tragicommedia musicale” che ruota intorno alla brava Viviane de Muynck nei panni della protagonista, Rodrigo García ha presentato Muerte y reencarnación en un cowboy. Il lavoro, che aveva debuttato del 2009, ha dato modo di rivedere in scena i soliti Juan Navarro e Juan Loriente con le solite provocazioni (peni e culi in continua esibizione e sollecitazione, corse nude tra il pubblico del Teatro alle Tese, rodei su un toro meccanico, musiche sparate, animali costretti in scatole e teche trasparenti) e le solite banalità testuali che danno modo alla critica di chiosare sullo scardinamento dei valori consolidati, sul capovolgimento del macchiamo o addirittura sul tramonto dell’Occidente. Vorremmo sommessamente dissentire dicendo – si può? – che lo spettacolo è non tanto brutto – per García nell’arte non c’è spazio per il bello, e in questo gli va riconosciuta la massima coerenza – quanto semplicemente prevedibile e noioso, non tanto sgradevole quanto inutile. La sorpresa rivoltante dei primi spettacoli è diventata maniera. I molti spettatori rimasti fino alla fine, ma usciti senza applaudire, più che scandalizzati sembravano rassegnati, ma certo non è mancata l’ovazione degli aficionados.
Un pubblico decisamente più freddo, invece, ha accolto il Prometheus Landscape di Jan Fabre in prima nazionale al Teatro Piccolo Arsenale. In apertura un lungo testo recitato da due attori sul proscenio che alternano ambigue richieste di un intervento superiore («We need heroes now!») a imprecazioni contro Freud e tutte le scuole psicanalitiche. Quando finalmente si squarcia il sipario, l’immagine fantastica di un Prometeo sospeso con robuste corde al centro della scena, perimetrata da alcune enigmatiche figure di sapore semita che si cospargono il capo di cenere, s’ingolfa ben presto in un crescendo di tracce simboliche (asce, cappelli, fuochi, secchi, estintori, orecchie di coniglio, ecc.) e di azioni (masturbazione, passo dell’oca, pene strozzato con un nastro nero, ecc. ecc.) che dovrebbero illustrare i monologhi dei diversi abitanti dell’Olimpo (Efesto, Atena, Epimeteo, Pandora, Io, Oceano, Dioniso, Hermes) mentre, a uno a uno, espongono al microfono la loro visione della storia di Prometeo. Ma il filo si perde, lo spettacolo è lungo e, nonostante la bravura dei performer, manca di organicità. Il portatore del fuoco se ne sta lì inerte tutto il tempo e, quando alla fine prende la parola, la sua voce risuona sorda, il suo messaggio non arriva.
Lineare invece la struttura del “docu-drama” Bodenprobe Kasachstan del collettivo berlinese Rimini Protokoll. Come in altre produzioni del gruppo (composto da Stefan Kaegi, Helgard Haug, Daniel Wetzel) si raccontano fatti reali, apparentemente lontani, ma che per la loro complessità hanno a che fare con qualsiasi pubblico. In questo caso, i reali protagonisti, gli “esperti del quotidiano” chiamati in scena al posto degli attori, ricostruiscono i flussi migratori che hanno storicamente legato Russia e Germania a partire dalla fine del Settecento, quando si comincia anche ad estrarre il petrolio in Europa.







Bodenprobe Kasachstan (foto Dorothea Tuch).

Il regime stalinista deporterà migliaia di persone di etnia tedesca in Kazakistan e solo all’inizio degli anni Novanta Helmut Kohl inviterà un milione di persone di origine tedesca a ritornare in Germania dal Kazakistan, proprio mentre si scopre nella regione uno dei più grandi giacimenti petroliferi degli ultimi vent’anni. Il boom dell’oro nero kazaco e le trasformazioni conseguenti nell’area sono dunque narrate collegando tra loro le biografie delle persone sul palco, che cantano, mostrano filmati, descrivono i percorsi delle loro vite che s’intrecciano con quelli del petrolio e del potere. Un teatro “post-drammatico”, come piace dire in Germania, che si muove sul confine tra spettacolo e indagine sociale, finzione e realtà, arte e cronaca giornalistica. Un’esperienza premiata a Venezia con il Leone d’Argento, senz’altro interessante, non entusiasmante.


Un incubo incantevole

Nello spazio rivisitato del Salone degli Arazzi della Fondazione Giorgio Cini, all’Isola di San Giorgio, è andato in scena un allestimento particolare di Osso, lo spettacolo che Virgilio Sieni interpreta dal 2005 insieme al padre ultra-ottuagenario. Tre quadri essenziali basati su un dialogo fisico elementare, sul raccoglimento nel gesto, sulla segmentazione del movimento. Sull’ascolto della fragilità, del disequilibrio. Brevi, preziosi assoli del figlio si alternano a pas de deux in cui le figure appaiate sembrano mettere in scena il tempo, data la somiglianza e insieme la diversità dei due corpi addestrati dalla vita in modi tanto lontani eppure visibilmente familiari.



Osso.

Una danza di ascesi domestica (anche i suoni ricavati dai corpi e dagli oggetti sui tavoli amplificati dilatano questa dimensione intima), dove le azioni fisiche sono contrappuntate, come scrive lo stesso coreografo, «da azioni della memoria, con sguardi e mimiche che hanno un po' a che fare con la nostra vita». Un passaggio importante di quel percorso che il danzatore toscano ha da tempo intrapreso verso una condivisione del movimento con anziani, adolescenti, non vedenti, attori, perfino con spettatori chiamati sul palco a provare l’esperienza di una percezione reciproca del corpo. «Voglio far danzare più gente possibile – ha dichiarato Sieni – perché chiunque si avvicina alla danza è un angelo». Uno spettacolo sempre interessante, dunque, la cui delicatezza era qui esaltata dalle dimensioni dello spazio scenico, da un disegno luci che poteva allungarsi in profondità cinematografiche e giocare con le ombre delle cinque grandi porte a vetri sui tendaggi bianchi.
Grande attesa, naturalmente, per la performance Sul concetto di volto nel Figlio di Dio della Socìetas Raffaello Sanzio, su cui si sono scritte molte cose ma il cui significato rimane, crediamo, un arcano alla portata soltanto di coloro che fanno esperienza della materia in scena. E la materia sono lo sguardo interrogante e calamitante del Cristo benedicente di Antonello da Messina, che ci scruta da una gigantografia sul fondale, e le feci che non smettono di uscire dal corpo di un anziano incontinente, perso nel biancore asettico di un interno borghese d’oggi, disperato per l’impotenza della vecchiaia e la vergogna nei confronti del figlio che lo pulisce e lo rincuora e tuttavia finisce col perdere la pazienza.



Sul concetto di volto nel figlio di Dio (foto Klaus Lefebvre).

La reiterata pulizia del fondoschiena del vecchio – spogliazione, pannolone, escrementi, secchio d’acqua, asciugatura, vestizione – ritualizza un rapporto tra padre e figlio che si sottomette alla ruota della vita ma non ne regge il peso. Il Salvator Mundi ci guarda guardare questa incapacità di essere umani, di annullarsi nell’essere umano. Se lo guardiamo negli occhi perdiamo di vista i corpi in scena; se seguiamo quei corpi sentiamo la sua presenza, lo vediamo in loro. Forse è l’unica possibilità di vederlo anche in noi. E quando il suo volto viene strappato e compare la scritta You are not my shepherd, il not che si legge a intermittenza ci lascia nel dubbio e nella necessità di scegliere. Uno spettacolo di estrema precisione, affilato, con il quale Romeo Castellucci torna a cercare sul terreno religioso le stesse radici simboliche e rituali del teatro.
Ma è un altro il merito che vorremmo riconoscere a questo variegato e un po’ casuale cartellone della Biennale 2011: l’aver offerto la possibilità di vedere o rivedere un capolavoro come il Woyzeck ou l'ébauche du vertige di Josef Nadj. Composto nel 1994, rivisto due anni dopo, lo spettacolo da allora gira il mondo raccogliendo unanimi consensi e importanti riconoscimenti. Un’ora di perfezione formale che supera i generi e si muove liberamente tra teatro-danza, mimo, teatro d’oggetti, circo, attraversandone e intrecciandone le tecniche con una sprezzatura sbalorditiva e un’ironia finissima.



Woyzeck (foto Lajos Somlosi).

Un compendio dell’immaginario e del linguaggio espressionisti che impasta Büchner e Kantor, Roth e Schulz, Charlot e gli omini di Kafka. Senza una parola, il dramma viene agito da sette formidabili attori-performer (Guillaume Bertrand, Istvan Bickei, Denes Debrei, Samuel Dutertre, Peter Gemza e lo stesso Nadj, in uno spazio scenico ridotto a pochi metri quadrati dove, alla luce fioca di lampadine nude, prendono forma, si plasmano letteralmente sotto gli occhi dello spettatore le figure e le azioni. Costumi di stracci, facce impiastricciate come maschere, sedie sghembe, tavolini e porte girevoli, manichini che si animano e tornano a farsi pupazzi, ombre, mucchietti di stracci. Continue sorprese, dettagli sfuggenti, bicchierini, uccellini, biciclette costruite con spaghi e legnetti, duelli danzati, stampelle enormi, coltellate che aprono schiene e pance da cui escono viscere colorate. Un’accetta infilata per il manico in una balla di fieno ed ecco il cavallo; un attore inventa gag e contorsioni muovendo un manico di scopa sotto la giacca; un altro sale la scala di corde appesa al proprio collo ed è un oggetto ad essere calato un po’ dall’alto ad ogni gradino. Studi di leve, tensioni, contrappesi, posture, equilibrismi, meccanismi incredibili, personaggi che non vogliono staccarsi dalle porte, che si disanimano con la luce. Il tutto ad una velocità che non consente allo spettatore di staccarsi dalla scena, da quella danza stracciona che crea un mondo conchiuso, da quel tugurio ammaliante in cui ogni figura è incistata, fissata nella sonnambolica precisione di partiture che si vorrebbe non finissero mai. E invece a una a una quelle vite sognate – dal protagonista? da noi? – escono di scena da una porticina posticcia. Per ultimo Woyzeck, che porta su una sedia l’amata uccisa e aderisce alla sua forma incurvata, alla propria condanna. Un incubo incantevole.

 

 
 
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