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ISSN 2279-9184

ateatro 115.11
2/2/2008 
Per un uso politico, pedagogico ed estetico dell’interattività
Breve nota sulle relazioni attuali e possibili tra nuovi media nella società e nell’arte
di Andrea Balzola
 

L’interattività è da una parte la possibilità di comunicare, dialogare con la macchina, pilotandola verso la propria rotta (“cyber” deriva infatti dal greco “pilota di navi”), dall’altra parte è un adattamento al linguaggio e al modus operandi della macchina stessa. Così l’utente pilota ed è pilotato nello stesso tempo; il grado di libertà, di autonomia e di creatività della sua navig-azione dipende dalla sua conoscenza degli strumenti (hardware e software), dal grado minimo di interazione di colui che clicca seguendo la segnaletica virtuale, al grado massimo, quello del programmatore.
Nell’arte le soluzioni interattive hanno avuto diverse fasi: una prima fase di sperimentazione, dove un’azione semplice dello spettatore determinava l’attivazione dell’opera o un micro-accadimento in essa (attraverso sensori visibili o invisibili collegati a un computer che gestisce proiezioni o congegni elettronici); una seconda fase di carattere più ludico (con una forte componente estetica autoreferenziale) dove l’azione volontaria o involontaria dello spettatore produceva un mutamento dell’opera, che poteva essere registrato e riprodotto (come un’impronta virtuale lasciata dallo spettatore) o una tendenza “sadomasochista”, in cui il perfomer (l’artista australiano Stelarc ad esempio) sottoponeva il proprio corpo ad una serie di movimenti involontari determinati dalle scelte del pubblico (presente o collegato in Rete) che comandavano una sorta di armatura indossata dall’artista e collegata al computer.
Ora stiamo entrando in una terza fase in cui l’interattività comincia finalmente ad avere una funzione cognitiva e più elaborata sul piano espressivo. In ambito performativo, l’uso di tute con sensori datasuit e motion capture genera relazioni inedite tra corpi reali e mondi virtuali e produce nuovi codici di movimento e di recitazione. Sulla Rete si è passati dall’interattività all’intercreatività, in un contesto dove l’utente è chiamato dai net-artisti o hacker-artisti (in genere gruppi piuttosto che singoli, con forti connotazioni etico-politiche) a intervenire non tanto su o in opere virtuali messe in Rete, ma sui linguaggi e sui processi stessi di codificazione, sulla concezione e realizzazione di software “open source”, cioè aperti a interventi migliorativi e a innovazioni creative.
Nell’ambito installativo invece, si assiste allo sconfinamento dalla dimensione puramente installativa a quella performativa. Poiché interagire significa appunto dialogare mediante gesti suoni movimenti con la macchina, siamo già nell’ambito di un’azione performativa (o, per dirla, in termini più tradizionali, “teatrale”), dove non soltanto l’artista diventa “performer”, come nella stagione degli happening e della body art, ma anche il pubblico entra in gioco, diventando – come dice Georges Dyens – “spett-attore”, figura ibrida di spettatore attore e creativo. E’ in questo passaggio che l’esperienza ludica si coniuga con lo stimolo cognitivo, se lo spettatore è messo nella condizione di articolare la sua relazione con l’opera, avrà sia la motivazione di una migliore conoscenza della stessa sia il desiderio di cooperare creativamente alla sua evoluzione.
Oltre a differenti fasi di sviluppo dell’interattività nell’arte, esistono anche diverse tipologie, io ne individuo quattro principali. Una è l’interattività inconsapevole dove noi lasciamo tracce senza saperlo, mediante tutti i dispositivi interattivi di servizio pubblico e privato che ormai incontriamo nella nostra tecno-vita urbanizzata, tracce che poi sono utilizzate per un sistema di controllo e per vendere le nostre attitudini al mercato, e che sicuramente rappresentano uno degli scenari più inquietanti.
La seconda è un’interattività consapevole obbligata, che ci serve per sopravvivere nel sistema, dal bancomat in poi, tutti i codici che dobbiamo apprendere e digitare, le interazioni obbligate con tutte le macchine che automatizzano molte funzioni nella società contemporanea, e questo è l’aspetto funzionale dell’interattività che più accelera e più aumenta la complessità del divenire tecnologico e più diventa stringente e pervasiva.
La terza forma è la più ambigua è pericolosa e cioè l’interattività consapevole, volontaria e pilotata, dove noi abbiamo la sensazione di decidere, in realtà questa decisione avviene secondo modalità che non controlliamo e non decidiamo a monte; un esempio è il software, se noi dobbiamo fare alcune operazioni individuiamo un software adatto, lo apprendiamo e lo usiamo più o meno abilmente, tutte scelte volontarie, soltanto che agiamo nell’ambito di un’interattività pilotata, perché il software non è neutrale, corrisponde a una certa forma di pensiero e di razionalità, di organizzazione del tempo e del lavoro, corrisponde a una certa modalità di funzionamento della mente. Usare un software non è come usare uno strumento qualsiasi, è un modello operativo complesso che comunque condiziona il nostro modo di lavorare e anche di pensare.
Il quarto tipo è l’interattività consapevole e creativa, quella che crea sistema, per mantenere l’esempio precedente in questo caso non si tratta solo di utilizzare un software ma semmai di crearne uno, o comunque di saperlo modificare (software “open source”), interagire con la concezione stessa del software, non agire solo sulle opzioni ma sui processi di formazione dei percorsi e delle scelte, o, ancora, di far interagire in modo inedito per un nostro scopo software diversi, forzandone funzioni e caratteristiche..
A risposta di questi quattro tipi di interattività ci sono funzioni diverse che assume o può assumere l’arte. Nel primo caso, quello dell’interattività inconsapevole, la funzione dell’arte, sia storicamente sia attualmente, è quella di far emergere questi meccanismi, renderli trasparenti, denunciarne l’esistenza e il funzionamento, in chiave paradossale, grottesca, o militante, aggressiva, di difesa del diritto alla privacy. Rispetto alla seconda forma, l’interattività consapevole obbligata, la funzione dovrebbe essere quella di disautomatizzare, di scardinare questi meccanismi di automazione, di defunzionalizzarli, magari inventando delle macchine assurde o dei procedimenti trasparenti che facciano capire i processi di automatismo, in una dimensione di proiezione, di parodia, di doppio, noi infatti non ci rendiamo abbastanza conto dell’enorme quantità di memoria e di energia che questi dispositivi assorbono. Sul terzo livello, l’interattività consapevole, volontaria e pilotata, sarebbe interessante aprire un serrato dibattito, perché secondo me molta arte contemporanea cade nell’errore di riprodurre i meccanismi dei modelli autoreferenziali dello sviluppo tecnologico, magari sperimentandoli proprio in modo funzionale al sistema e al suo mercato.
Una certa concezione dell’interattività non è creativa o liberatoria, ma pilota lo spettatore, ne finge la partecipazione creativa, crea delle forme interattive chiuse e usa strumentalmente lo spettatore per la propria autosussistenza; invece di far partecipare realmente lo spettatore, lo fagocita per dare legittimità a se stessa, l’azione dello spettatore è solo apparente, è prevista l’opzione ed è prevedibile il risultato. Se nell’ambito dell’arte questa concezione dell’interattività è riduttiva e rischiosa, sarebbe addirittura devastante sul piano politico-sociale se applicata ai procedimenti della democrazia, per esempio a un eventuale voto elettronico, come già si sta prospettando negli Stati Uniti (e che qualcuno vorrebbe importare da noi). Si rischia di creare una democrazia apparente, che corrisponde a un’interattività meccanica e apparente, dove l’utente è isolato nella sua postazione digitale, privato di una socialità reale dove confrontarsi e formarsi un’opinione propria, indotto a una consultazione coatta e permanente su tutto: dai quiz ai sondaggi al televoto senza soluzione di continuità il cittadino elettore diventa un utente cliccatore.
La ricerca artistica, al contrario, dovrebbe indirizzarsi verso un’interattività che liberi la condizione desiderante, scateni un’imprevedibilità e quindi anche un’effettiva libertà dei comportamenti, incidendo sulla dimensione emotiva, immaginaria, anche inconscia dello spettatore.


 
 
 
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