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ISSN 2279-9184

ateatro 112.33
10/4/2007 
Una Guida Monaci del teatro tecnologico?
Steve Dixon. Digital Performance
di Anna Maria Monteverdi
 

Digital Performance vuole essere una sorta di Guida Monaci al territorio multiforme del teatro tecnologico oggi espanso anche ai territori del web; Dixon non ama i veloci manualetti “plug and play” (tra cui annoveriamo l’infelice Virtual Theatres della Giannachi) dato che l’argomento in oggetto comincia ad avere una storia piuttosto lunga e si presta a essere scandagliato sotto vari profili. E forse questo rimane il problema di fondo del libro per cui non riusciamo a essere convinti completamente che trattasi davvero della nuova bibbia del tecnoteatro. Il volume, di quasi ottocento pagine, cerca di mappare tutto il mappabile, cioè di trattare tutte le minime sfumature del rapporto media-teatro, tutte le nuove forme dello spettacolo multimediale (comprendendo persino i cd didattici e i progetti educativi di ricostruzioni in 3D dei teatri dell’antichità…), le convergenze con le installazioni interattive e con gli ambienti virtuali, verrebbe da dire tutto lo scibile se non fosse che a questo lungo elenco della vastissima produzione tecnoteatrale sembra mancare un solido impianto teorico che permetta di distinguere effettivamente estetiche teatrali differenti. Che l’argomento sfugga a ogni tentativo di catalogazione ce ne siamo accorti da tempo: fare ordine nel mare delle proposte videoteatrali non è semplice considerato che oggi pressoché ogni compagnia usa le tecnologie in scena: dal grado zero del video pre-registrato ai sistemi più sofisticati che sollecitano un’azione interattiva del’attore con un’interfaccia corporale. Del resto teatro e media, per usare una terminologia cara a McLuhan, si sono ibridati, anzi forse oggi siamo già alla seconda generazione dell’ibridazione che sta dando vita a quello che si può definire, per prendere a prestito un termine dalle biotecnologie, un teatro-chimera. L’ibridazione ovvero “l’interpentrazione di un medium nell’altro”, in questa generalizzata “computerizzazione della cultura” secondo Manovich consta non solo nell’acquisizione del livello informatico all’interno del teatro ma nel trasferimento concettuale dal mondo informatico alla cultura nel suo complesso. Questo significa che il processo inclusivo dei media nell’arte ha riguardato anche il linguaggio, come hanno ampiamente dimostrato De Kerchove, Maldonado e Lévy. Nel teatro questo ha significato il passaggio epocale, come ricorda Dixon all’inizio del volume, dall’idea delle tecnologie come “tools” al loro uso in quanto “agents”, sottintendendo un uso non più strumentale (“immediato”, direbbe Maldonado) dei media, ma concettuale, metaforico, espressivo, interpretativo addirittura. Agenti di trasformazione, veicoli di significazione, metafore: è stata per prima Brenda Laurel nel volume Computer as Theatre a parlare di agents per definire le interfacce che mettono in comunicazione computer e essere umano, recuperando la nozione di agente, come è noto, proprio dalla Poetica aristotelica (l’imitazione di un’azione è realizzata da persone che agiscono().
L’argomento poteva essere trattato dal punto di vista storico, a partire dalle utopie delle avanguardie e relativi temi che anticipano il multimediale, oppure dalle tematiche oggetto degli spettacoli, dalle caratteristiche delle tecnologie usate, oppure usando le categorie di Manovich sulle caratteristiche dei nuovi media (ipermedialità, interattività ecc). Ancora, si poteva scegliere un criterio cronologico oppure puramente enciclopedico (autore-gruppo). Ebbene Dixon usa proprio tutti questi criteri insieme, mescolando un approccio storico con un’analisi descrittivo-analitica. A onor del vero Dixon fa veramente un lavoro monumentale, encomiabile e dettagliatissimo: entra nel merito delle caratteristiche dei sistemi tecnologici, sintetizza alcune delle più autorevoli posizioni teoriche in merito al rapporto tra teatro e digitale e alle questioni del tempo reale innescate dai nuovi media (da Brenda Laurel a John Birringen a Auslander), racconta della vexata quaestio tecnologia vs contenuto o Teatro vs Media e non esita a criticare proprio la tecnodiva Laurel e le categorie del tecnoguru Lev Manovich. Insomma c’è dentro tutto o quasi, dalla spiegazione di come funziona il sistema di realtà virtuale immersiva Cave al networked theatre, dagli attori virtuali al Postmoderno in epoca digitale.
Pur premettendo però nell’introduzione che nello scandagliare tutti i fenomeni multimediali teatrali e parateatrali, performativi e paraperformativi ha considerato una griglia di massima che li avrebbe suddivisi in base alla pertinenza intorno a tre macro-temi: corpo-spazio e tempo, con l’aggiunta di altre tre sezioni: una storica (le avanguardie) e una teorica (il Liveness, il Postmodern), con un appendice sostanziale che riguarda espressamente l’interattività, l’impressione è che in realtà questa distinzione regga poco di fronte all’evidenza di produzioni (e sono la maggioranza) che appunto in genere mettono l’accento sull’insieme di tutte queste categorie. In buona sostanza, l’appartenenza a una sezione o a un’altra del libro sembra in qualche modo aleatoria, soggettiva, quanto meno opinabile. Talvolta infatti questa distinzione viene fatta sulla base dell’evidenza tecnologica delle produzioni, altre volte sulla dominanza tematica, altre volte ancora sulla somiglianza a progetti d’avanguardia. Per esempio: lo spettacolo Ph dei Dumb Type dove i ballerini danzavano a terra e venivano scannerizzati da un’enome laser che li “fotocopiava”, viene inserito nel capitolo “storico” quale esempio attuale di attenzione e attrazione per la “macchina” che rimanderebbe ai vari manifesti del Futurismo. Più in là lo stesso gruppo si ritrova nell’ambito della sezione “Body” insieme con Orlan. Mettendo da parte la considerazione piuttosto ovvia che Dixon non prende in considerazione l’elemento testuale, anche solo per sottolineare l’evoluzione della narrazione e della drammaturgia (e questo mette bene in luce come da elemento fondativo e prioritario, oggi il testo sia diventato un dato puramente accessorio per l’analisi dello spettacolo), le categorie proposte confondono un po’ le idee, ci risultano da un lato delle maglie un po’costrittive, dall’altro lato eccessivamente aperte. Nella sezione Corpo si analizzano progetti che mettono l’accento su Avatar, doppi, robot, interfacce corporali; nella sezione Spazio si condensano le produzioni in cui il lavoro maggiormente di rilievo è quello legato alla progettazione scenografica visuale, all’ambito proprio delle realtà virtuali (ma è il corpo dello spettatore ad avere una esperienza di immersività…), ai progetti che contemplano spazi diversificati, pubblici, telematici, a distanza, mobili, mentre nella sezione TEMPO si inseriscono progetti che lavorano sulla frammentazione o decostruzione temporale, sulla memoria. L’interattività poi apre a un universo infinito e inclassificabile che ovviamente rimette in campo questioni in parte già sondate nelle precedenti categorie: partecipazione, condivisione, immersività, connessione remota, realtà virtuali, videogames, cd rom interattivi e molto altro. Insomma, viene difficile per esempio considerare Alladeen di Marianne Weems del gruppo The builders Association unicamente come “esempio di teatro sintetico” laddove la tematica, rafforzata dalla particolare tecnologia usata, è quella dello sfruttamento del lavoro a distanza (i call center di Bangalor). Forse una sezione legata alle tematiche, per esempio all’attivismo (artivism o activism) o al teatro politico in epoca tecnologica, avrebbe posto questioni vitali tali, per esempio da unire Peter Sellars e il Critical Art Ensemble, il Big Art Group o William Kentridge, al di là e oltre la pura evidenza tecnologica. Ebbene, si tratta proprio di artisti che non vengono neanche accennati nel libro (il CAE raccoglie giusto un pugno di righe nel libro). In effetti Dixon non sembra essere molto consapevole dei volumi scritti da studiosi e ricercatori a lui precedenti che fuori dagli States hanno già delineato con grande precisione una possibile storia delle produzioni e delle estetiche tecnoteatrali. I volumi della Picon-Vallin e di Christopher Balme rimangono per esempio, clamorosamente fuori dal quadro bibliografico e con essi anche la loro precisa metodologia di analisi delle produzioni internazionali.
Insomma l’impressione è che nell’ansia di mettere su un edificio, si tralascino le fondamenta. Dispiace poi non vedere neanche un nome di italiano (manca persino Studio Azzurro!): del resto nella pesca americanofona del volume molti “monumenta” europei rimangono fuori dalla rete.
Ci piace, dunque, leggere il libro come un coraggioso tentativo di offrire una prima possibile mappatura di un territorio che non sta dentro alcuna cartina geografica, tentativo che soddisferà alcuni e deluderà molti. E’ senz’altro la natura stessa della performance tecnologica, ad aver determinato questa difficile collocazione dei lavori in uno specifico contesto/genere/categoria: per chi fa e studia questo teatro “ri-mediato”o “ri-mediatizzato” con il digitale spesso il limite tra installazione, concerto e performance è molto labile. Lo sanno molto bene anche coloro che distribuiscono queste produzioni, dal momento che trovano maggiore ospitalità dentro festival di arti elettroniche che non dentro festival teatrali veri e propri. Forse però basterebbe semplicemente evitare di definire il teatro tecnologico un genere a sé e impegnarsi piuttosto a considerarlo – come suggeriscono i lavori di Lepage, di Wilson, del Wooster Group - teatro e basta.

Steve Dixon, docente di Performing Arts all’Università di Brunel, è un’autorità nel campo della performance tecnologica. Teorico, studioso dell’arte scenica in relazione con i nuovi media digitali ha diffuso le proprie idee in riviste specializzate autorevolissime come “The Drama Review”, “International Journal of Performance Arts and Digital Media”, “Performance Arts International”, Ctheory.net. Aveva concesso un’intervista anche ad ateatro a firma di Pericle Salvini. Suo è il progetto del Digital Performance Archive, un data base internazionale on line iniziato nel 1999 (e dal 2001 mai più implementato). Dixon è anche un artista di teatro e con il suo gruppo Chamelions non solo ha cercato di svolgere un’attività videoteatrale in scena ma anche di progettare documentazioni digitali sperimentali (incluse in cd nel numero 43 del 1999 di "The Drama Review").


 
 
 
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