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ISSN 2279-9184

ateatro 102.50
10/25/2006 
Danzare i segni
Metaphore di Carolyn Carlson tra musica turca, grafia araba e danza dell’interiorità
di Andrea Balzola
 



Nell’ambito della rassegna “Tersicore, nuovi spazi per la danza” che ha aperto la sua stagione autunnale al Teatro Valle di Roma, la grande coreografa finnico-americana Carolyn Carlson ha presentato il suo progetto/evento “Metaphore. Viaggio dell’anima verso l’illuminazione”, un’inedita contaminazione coreografica fra danza, musica rey eseguita dal vivo dal gruppo turco di Kudsi Erguner e pittura calligrafica realizzata e videoproiettata in scena dell’iraniano Hassan Massoudy.
Se il tema è antico, deliberatamente atemporale, quello della ricerca delle sorgenti originarie del sentimento amoroso, in una dimensione di “mistica amorosa” dove desiderio umano e vocazione spirituale sono indifferenziati, le modalità di interpretazione sono singolari e inedite nel percorso artistico della Carlson. Uno spettacolo riportato alla triade essenziale del segno-suono-movimento, che sarebbe piaciuto al Mallarmé teorico di un teatro totalmente astratto e a-rappresentativo, Mallarmé che vedeva nella danza l’unica arte “materiale” capace di dialogare con l’astrazione simbolica della parola poetica e della musica. Danza contemporanea, capace cioè di ricreare metaforicamente non solo i movimenti interiori ma anche i gesti e gli automatismi del quotidiano contemporaneo, e scrittura antica, arte della calligrafia che ad Oriente (dall’estremo al medio Oriente) continua a mantenere integrate la bellezza del significato con la bellezza del significante, e dove lo scrivere è ancora arte legata al virtuosismo della mano, così la scrittura è necessariamente micro-danza del gesto e del segno. Con l’ausilio di una telecamera che ha la semplice funzione di lente d’ingrandimento per il pubblico, il calligrafo-artista iraniano Hassan Massoudy, usando spatole, pennelli e inchiostro di china su carta, scrive i passi di un moto interiore che si intreccia con i corpi e le ombre dei danzatori in azione davanti allo schermo (i bravissimi Alessandra Vigna, Jordi Puigdefabregas Serra, Larrio Ekson). Mentre l’ipnotica musica rey guidata da Erguner s’innerva nelle traiettorie grafiche e coreografiche, lo spettacolo si sdoppia sulla scena in un alter ego di ombre proiettate dei danzatori e di ombre dipinte, così l’idea di corpo e di segno, di animato e inanimato, di bianco (luce) e di nero (oscurità) si scambiano continuamente. E’ una partitura di segni corporei e incorporei, ma anche una sintesi espressiva dove le differenti matrici etno-culturali si fondono senza confondersi, un dialogo intimo tra le diversità che simbolicamente oggi l’arte contrappone ai modelli belligeranti della politica mondiale, e suggerisce una momentanea ma rassicurante sensazione vedere una “amorosa” danza di un americana con la scrittura di un iraniano. Carolyn Carlson naturalmente non è nuova a queste esplorazioni e a questi meticciati artistici, quello che però caratterizza la sua ricerca è però un insegnamento prezioso (parallelo a quelli del teatro di Peter Brook e Arianne Mnouchkine), in tempi dove l’ideologia torna con forza sulle scene e sui set: i valori etici e simbolici non possono essere pregiudiziali ma sono consustanziali al linguaggio delle arti, cioè devono passare attraverso il rigore delle scelte espressive, l’arte non è infatti un contenitore sia pure di nobili principi e cause, è un modo di sentire, di vedere, e di raccontare il mondo. Metafora (perciò con tutte le sue ambiguità e la sua polisemia) piuttosto che Tesi.


 
 
 
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