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ISSN 2279-9184

ateatro 144.58
12/7/2013 
Possibile, necessaria: per una drammaturgia del riproducibile
Intervista a Tino Caspanello a proposito di 1952. A Danilo Dolci, il primo spettacolo nato in seno a Latitudini
di Vincenza Di Vita
 



Mentre alla “Semaine Italienne du 13e arrondissement” di Parigi va in scena Mer/Mari di Tino Caspanello, in Italia diventa un’impresa incredibilmente impossibile riuscire a vedere una replica di 1952. A Danilo Dolci, ultimo spettacolo scritto e diretto da Tino Caspanello. Inizialmente collocato a chiusura della stagione di drammaturgia contemporanea per il 2013 alla Sala Laudamo di Messina, è stato rinviato, ancora una volta, a data da destinarsi da un Ente Teatro di Messina sempre più compromesso e il cui Presidente ha rimesso il proprio mandato al nuovissimo sindaco eletto dai cittadini dello Stretto lo scorso 24 giugno.
Caspanello, messinese di Pagliara, sta per pubblicare la sua seconda raccolta italiana di opere, tradotte e molto rappresentate all’estero. Lo spettacolo sulla figura di Danilo Dolci è stato costruito attraverso una “sedimentazione dei racconti che potesse generare una cristologia di Dolci”, che si nutre di una metafisica del tempo la quale assume senso nella dimensione dell’istant: è pertanto una vera e propria “drammaturgia del riproducibile”.
Lo spettacolo si apre con il suono metallico di rotaie, riprodotte dal suono del cucchiaio di una madre che percuote una pentola, tiritera meccanica che accompagnerà il viaggio in treno che nel 1952 conduce in Sicilia Danilo Dolci. Cinzia Muscolino, che ha realizzato i costumi, interpreta con enfatica compostezza una madre sofisticata e nevroticamente controllata, esemplificazione di quella cattiva educazione contro cui Dolci ha lottato. Al suo bambino viene proibito di portare via dalla spiaggia perfino un sassolino: anche se gli viene negata la futilità di un sogno, nessuno potrà impedirgli di chiedersi: “Ma i pesci piangono?”.




Cos’è la scrittura scenica? Si può ancora farne riferimento oggi raccontando con una drammaturgia che vada al di là di ogni linguaggio meramente pornografico o privo di contenuto?

Deve ancora essere possibile! L’arte si nutre di una libertà che deve essere rispettata. Nessun critico, nessun autore, nessun pubblico può sedimentarsi in un regime, ma deve esistere una drammaturgia, altrimenti facciamo cronaca e basta. L’improvvisazione è pericolosa. Si rischia di polverizzare e liquefare tutto anche il messaggio. Bisogna insistere sulla formazione continua. Bisogna avere pudore. Bisogna mettersi in crisi, in discussione. Oggi che si assiste a una svalutazione dei punti di forza, la scrittura deve rimanere un punto di forza, c’è una scrittura forte anche nel silenzio, nell’anima.

Come cambia la drammaturgia attraverso la biografia di un autore?

C’è sempre una duplice modalità nella scrittura. Un autore non racconta mai un mondo lontano da sé. Gauguin racconta un esotico che conosce, mediato e mai immediato. La mia scrittura è riferibile al mio interno e a un mio gusto si nutre di una connessione tra intimità e relazione. Il mio stile è cambiamento che avviene andando verso una rarefazione lessicale, grammaticale che tiene oggi forse di più all’incomunicabilità, ma anche, pensando a lavori come Mari, alla grande ricchezza che sta nella comunicazione del gesto. La scrittura del silenzio è importante, necessaria, imbarazzante, bisogna capire quanto possa essere causa di allontanamento.

Di cosa si nutre la creatività di uno scrittore teatrale e insieme scenografo?

Relazioni, formazione continua e la curiosità di leggere cosa scrivono gli autori in altre parti del mondo è ciò che mi nutre unitamente a una costrizione a deviare, data dall’acquisizione di poetiche come quelle di Williams o Wilson e nelle coincidenze arriva la rielaborazione. L’essere umano è tale per lo spazio che lo accoglie, lo spazio ci condiziona: è metafisica, relazione, anche quando è vuoto cambia l’essere. Lo spazio alimenta e cambia la scrittura.

Come avviene che si decida d’intraprendere la scrittura di un testo dedicato a Danilo Dolci?

Durante il primo convegno organizzato dalla rete siciliana Latitudini a Enna nel 2011 insieme alla Compagnia dell’Arpa e a Filippo Luna, nasce l’idea di collaborare per la realizzazione di un’iniziativa drammaturgica. La committenza è un lavoro stimolante ma anche ansiogeno, non bisogna deludere le aspettative e non nasce da una personale esigenza che appartiene al mio modo di lavorare. È uno spettacolo che si regge su monologhi che intrecciano dialoghi tra loro ma indipendenti. Con Interno avevo già presentato questa modalità di costruzione della narrazione, pur essendo un dialogo, i due protagonisti agivano attraverso monologhi e lo spazio, ancora una volta diviene la questione centrale, lo spazio della pagina però, in questo caso. Raccontare un uomo di cui non si parla più è una bella sfida, la sua memoria è stata cancellata dalla nostra. Questo poeta ha creduto in un sogno e lo ha realizzato attraverso un’utopia. Dolci è un poeta pertanto che porta in regalo un sogno che io racconto ma che non so se sia mai accaduto. Danilo Dolci poteva essere chiunque, chiunque porti con sé un sogno.




 

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