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ISSN 2279-9184

ateatro 144.34
6/13/2013 
In scena, per prendersi una straccio di responsabilità o una pillola di normalità
Una intervista a Roberta Torre su Insanamente Riccardo III
di Vincenza Di Vita
 



L’ostensione del volto trova sacro compimento nell'ottima versione del Riccardo III di Roberta Torre, in scena al Teatro Garibaldi Aperto di Palermo il 5 e 6 giugno, prodotto da Marcello Alessandra, psichiatra e presidente dell'Associazione Onlus StupendaMente.
Stracci colorati animano con inedite danze i palchi e ogni spazio che originariamente avrebbe dovuto ospitare il pubblico. L’inversione, la molteplicità e l’ambigua sovversione dei valori ha un incipiente motivo d’essere, unito a un'urgenza politica e quindi artistica. L’impegno civile in un momento di forte fermento, come è quello della costituzione degli Stati Generali dello Spettacolo in Sicilia, dà a questo studio teatrale un'urgenza che viene convogliata, in questo caso, all’interno di una realtà che intende sposare la causa della lotta alla crisi che stanno combattendo i lavoratori dello spettacolo. Di forte impatto si rivela pertanto la scelta di realizzare nel luogo simbolico di un teatro aperto, occupato e liberato, nel celebre e cultuale spazio ospitato nel cuore del quartiere della Kalsa, uno spettacolo che si connota per la contaminazione sapiente di attori professionisti e pazienti psichiatrici, attraverso la celebrazione di una festa che sovverte l’umano e insano desiderio di normalità.



Respiri e lamenti fanno da contrappunto alle movenze rigorose e iterate degli attori, che si donano al pubblico cercando un contatto tangibile, fatto di carezze, abbracci, sorrisi e sguardi, attraverso un movimento di apertura e chiusura a mantice. Paura, sorpresa, curiosità, divertimento, commozione, smarrimento, inevitabili e copiosi, sui volti increduli degli spettatori. Il pubblico è coinvolto, contaminato dagli stracci che conferiscono colore e movimento: è una rivoluzione di corpi inerti e abbandonati, animata e irta sulla scena, pronta a investigare il problema della normalità.
Variopinte pillole di felicità sono donate alla sua corte da un Riccardo III che si distingue per le regali e aristocratiche movenze, esibisce un rossetto blu e recita le sue celeberrime battute in palermitano. L’usurpatore e usurpatrice del suo trono, una figura pop e anche postmoderna, interpretata da Antonio “Fester” Nuccio, incede su tacchi improbabili, travestita di lumini, una collana improbabile con un’effigie di Padre Pio; diviene altare sacrificale e vittima, dona al pubblico confettini colorati lanciandoli come fossero monete, perché arricchiscano o impoveriscano, proprio come quei farmaci che vogliono salvare o precipitare le anime, stroncare vite o solo smarrirle per un po’.
Le musiche infere e solenni di Enrico Melozzi danno luce agli attori, svelando e poi inabissando la tragedia interiore di ogni personaggio. Le note innescano dinamiche che gettano umbratile profondità alla drammaturgia, come una marea di un liquido sconosciuto e psichedelico che s’insinua nelle smorfie e sui corpi spezzati dai movimenti ordinatamente sconnessi degli interpreti. La musica invade la scena, imbarazza con silenzi graffianti, sottolineata da luci, che scandiscono urla con stridore di corda e, accompagna nostalgiche e toccanti danze di uccelli umani appiccicati al suolo da un pregiudizio che rimane insoluto o genera talvolta una oscura assoluzione.


Dopo e durante il progetto Trash The Dress, con una Medea contemporanea con inserti da Carmelo Bene e quindi ancora da Shakespeare, quale urgenza ti ha spinto verso un altro testo che ha ispirato l’ultimo “grande attore”?

Per questo Riccardo III non ho pensato a Carmelo Bene. Certo, ho visto la sua straordinaria versione, ma non saprei come trovare un’ispirazione comune in questo mio spettacolo.



In che modo l’idea della deformità fisica di Riccardo III oggi coinvolge il problema identitario, attraverso i riferimenti che contaminano la lingua e la scenografia?

Ho lavorato sull’identità a partire dal fatto che, trattandosi di un percorso sulla follia e normalità, la deformità ovviamente non è solo fisica ma soprattutto psichica. Di questa deformità gli stessi attori impazienti si fanno beffe, definendo i confini a partire dal fatto che “visto da vicino nessuno è normale”. Dopo questa affermazione, tutto il senso dell’identità viene ribaltato e i pazienti attori diventano padroni della vicenda. Le scene sono quelle di un mondo di stracci che in qualche modo sono anche le responsabilità che ci vengono attribuite e buttate addosso. Gli attori se ne servono per creare un loro linguaggio e un loro mondo, se ne liberano o ricoprono altri a seconda della necessità. La scelta del palermitano come dialetto usato da re Riccardo è nato da una necessità sonora, e direi musicale.

Quanto conta l’improvvisazione nella riuscita di uno spettacolo, quando si lavora con attori non professionisti o quando si decide perfino di contaminare gli interpreti con professionisti e con diversi linguaggi, attingendo alla musica dal vivo e alla danza?

Io lavoro sempre a partire dall’improvvisazione, è una stesura drammaturgica che faccio sui corpi degli attori e con loro complici. Dunque il mio lavoro non è molto diverso dal solito. Soprattutto non faccio distinzione tra attori professionisti e attori non professionisti. Secondo me non esiste l’attore non professionista. Esistono solo attori bravi o attori mediocri.

Cosa è cambiato dal 1973, quando esattamente quarant’anni fa Giuliano Scabia allestiva il suo Marco Cavallo nel rapporto tra teatro e istituzioni quando ci si occupa di coinvolgere i pazienti psichiatrici in progetti legati al mondo dello spettacolo?

Per quanto mi riguarda – ho lavorato con i pazienti psichiatrici esattamente come lavoro con gli attori, non ho avuto nessun metodo diverso. Ho chiesto loro di usare i loro corpi e le loro emozioni e sono rimasta spesso sconvolta dalla potenza che ho ricevuto dalle loro azioni e dal loro mettersi in scena. La differenza è stata solo nel trovare reciprocamente un linguaggio con cui comunicare, ma l’ho trovato molto velocemente, anche perché il mio percorso artistico e umano ha sfiorato spesso il confine tra normalità e patologia. Direi che, sentendo esattamente tutte le loro emozioni, mi è stato molto facile costruire – un percorso drammaturgico. Le istituzioni in questo momento non so come interagiranno con il – progetto. C’è stato da subito un interessamento verbale da parte di chi ha visto lo spettacolo. Francesco Giambrone e lo stesso Leoluca Orlando che hanno raccolto – il – mio desiderio di rendere questo spettacolo l’inizio di un percorso stabile, la possibilità di creare una compagnia Insanamente Stabile. C’è stato l’interessamento di una regista e operatrice teatrale che lavora da anni in territori affini, Donatella Massimina, che ci ha proposto di portare lo spettacolo al Piccolo di Milano quest’inverno all’interno dell’Edge Festival 2013, la rassegna da lei curata. Da parte mia ho appena iniziato, certo è mia intenzione non fermarmi qui e approfondire il mio lavoro teatrale coinvolgendo realtà di disabilità – a più livelli. Credo che ci siano energie preziose che possono dare molto al mio teatro e ho costruito un linguaggio su cui posso lavorare ancora più profondamente. Se le istituzioni sapranno dare seguito alle promesse, il percorso sarà più semplice. Ma non saranno le istituzioni a garantire la riuscita di un progetto artistico che ha basi forti e potenti, e credo possa davvero rappresentare molto per il teatro in Italia in questo momento.

 

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