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ISSN 2279-9184

ateatro 144.16
9/5/2013 
Teatro e filosofia Le parole scongelate dei festival
Una intervista a Remo Bodei
di Margherita Sanna
 

Anche quest’anno al Festival di Filosofia di Cagliari non è mancato l’intervento del professor Remo Bodei, che nella seconda giornata ha tenuto una lezione dal titolo “L’ultimo elefante. Poesia e verità”. Di poesia è proprio il caso di parlare, per una lezione ricca di spunti filosofici e letterari, uniti dalla capacità di rendere visibile i propri sé. Il professor Bodei ha illustrato infatti come sia possibile scoprire sé stessi attraverso le storie che la letteratura ci narra, l’incontro con i personaggi, i luoghi, i miti letterari, capaci di ampliare la propria anima e mente. Ha concluso il suo intervento affermando “Diventate quel che volete essere, voi stessi, perché non è mai troppo tardi. è una cosa traballosa, ma provateci!"



Com’è stato questo suo secondo ritorno a Cagliari per il Festival di Filosofia?

Torno volentieri perché il Festival di Filosofia di Cagliari è originale rispetto ad altri. Coordino il Festival di Modena, che è più grande, 180.000 presenze rispetto alle 6000 di Cagliari, più 9000 in streaming. La specificità di Cagliari è unire il teatro alla filosofia: quindi è un’esibizione della filosofia. Si parte ogni anno estraendo un problema: l’anno scorso il male dai Fratelli Karamazov, quest’anno invece che cosa vuol dire essere sé stessi dal Peer Gynt. C’è una espressione visiva e uditiva di quello che in termini di pensiero astratto è la domanda “cosa vuol dire essere sé stessi?”: la si vede a teatro e poi ci si pensa, c’è una circolarità. Poi c'è un elemento affettivo: sono cagliaritano e qui torno sempre volentieri. Nell'insieme è una bella esperienza, sia per chi la fa più o meno attivamente, sia credo per chi ascolta e vede.

Roberta De Monticelli, nel presentare il suo intervento, l’ha definita “un po’ il nostro genius loci, gli abbiamo attribuito una sorta di cum causam nella creazione di questo festival”.

Sì, dato che ho ideato e diretto assieme a Michelina Borsari il Festival di Modena, che quest'anno è alla tredicesima edizione. La differenza, oltre al fatto che è molto più grande, con quasi duecento eventi, quaranta lezioni cosiddette magistrali (con un unico relatore), è che abbiamo anche mostre d’arte, cinema, teatro. Roberta De Monticelli si è ispirata al Festival di Modena, però innestando quel modello sul teatro, visto che il fratello è il direttore del Teatro Stabile della Sardegna. È un innesto felice.

Lei crede che festival di filosofia come questi possano aiutarci a capire meglio noi stessi?

C’è fame di senso per vari motivi. In primo luogo perché la nostra scuola non funziona granché bene, e anche l’insegnamento in generale, in particolare quello della filosofia. Quando si è giovani e si manca di esperienze, certe cose entrano da un orecchio ed escono dall’altro. Invece quando ci si torna da adulti, oppure senza l’obbligo scolastico, e quando si lega il fenomeno della filosofia al teatro, si è maturi di esperienze e certe cose si capiscono di più. C’è una storiella che raccontano gli antichi: c'era una volta un paese in cui d’inverno le parole si congelavano, bisognava aspettare l’estate perché si scongelassero e si capisse quello che era stato detto. L'aneddoto è stato applicato alla filosofia: quando si è giovani le parole della filosofia sono congelate, perché risultano astratte e non corrispondono a nessuna esperienza; per chi è maturo, d’estate, per chi ha dunque avuto le esperienze necessarie per capire cos’è bello e cos’è brutto, cos’è giusto e cos’è sbagliato, cos’è buono e cos’è cattivo, le parole della filosofia si scongelano: a quel punto diventa più facile capirne il senso. Quindi c’è un problema legato alla scuola, e poi c’è un problema attuale, legato alle difficoltà dell’esistenza. La situazione economica, politica, sociale è peggiorata. Di fronte a questi sbarramenti, la gente comincia a porsi delle domande e nei periodi di difficoltà la filosofia aiuta a riflettere. Poi c’è il fast food dell’informazione, soprattutto la televisione e i giornali, che riducono all’osso le notizie, che non vengono più digerite e pensate. Il fatto stesso che esista una “terza pagina” dedicata alla cultura disegna una specie di recinto, un ghetto, mentre le altre notizie restano separate, sembra debbano essere prive di pensiero interno. Mancano le inchieste, che sono diventate molto povere. Di fronte a questo fast food, la filosofia offre un cibo un po’ più corroborante, è uno slow food che insegna a pensare.

Al Festivalletteratura di Mantova lei ha spiegato Socrate ai bambini. Proprio pensando alla questione della scuola, è possibile insegnare la filosofia ai bambini nelle scuole?

Come no! Esiste una children philosophy che è praticata anche in Italia. Io stesso ho fatto qualche lezione, e a Pisa c’è un collega, Alfonso Iacono, che tiene dei corsi sulla filosofia dei bambini agli adulti e ai maestri per insegnare loro come si fa, e tiene lui stesso dei corsi ai bambini. I bambini sono quelli che chiedono tanti “perché”, finché il genitore non si scoccia e li obbliga a risolversi da soli i problemi, ma poi loro non ci riescono. C’è un magazzino di idee, idee che abbiamo già, fatte in casa, ma che non sono sufficienti. Praticare la filosofia significa aprire questo magazzino, dargli aria e vedere quello che c’è dentro. Dopo tutti i “perché?”, “perché?, “perché?”, uno si fa da sé le proprie idee. Ricorre anche un tipico errore: quando ai bambini dicono “Questo palazzo è bello, quest’altro è brutto”, non gli spiegano mai cos’è bello e cos’è brutto. E quando dicono loro: “Quest’azione che fai è buona, quest’altra è cattiva”, non gli spiegano mai cos’è buono e cos’è cattivo, cos’è giusto e cosa no. Arrivati a una certa età, fornire alcuni criteri per distinguere il buono e il cattivo, il giusto e l’ingiusto, è uno dei tanti compiti della filosofia.

Se lei potesse cambiare qualcosa nella scuola italiana da dove partirebbe?

Prima di tutto vorrei scuole più interattive, ma non buoniste. L’idea della pigrizia, dare il sei politico a tutti, io l’abolirei. La cultura bisogna guadagnarsela! E poi abolirei la classe, o meglio le classi in cui vanno tutti insieme: invece farei andare avanti quelli che vanno bene e studiano matematica, mentre quelli che vanno male stanno indietro, ma non perché vengono bocciati. Vanno messi in una classe specifica, se volete differenziale, in cui la matematica viene insegnata in maniera diversa. Non vorrei una classe in cui mi porto dietro sia i mandroni sia quelli bravi. La farei in modo che vadano avanti in un certo modo quelli che hanno delle capacità, e senza essere bocciati, ma rimanendo più o meno allo stesso livello. E intanto si recuperano quegli altri. Trovo i debiti formativi spaventosamente diseducativi e incivili, perché poi uno arriva all’ultimo anno e gli abbuonano tutto. Gli effetti si riflettono nell’università: con il 3 + 2, i primi tre anni sono in pratica il liceo di una volta, e gli ultimi due anni sono lo stesso. Quindi sarebbe stato meglio se l’università fosse rimasta di quattro anni, senza questa divisione. L'attuale 3 + 2, a parte il rispetto delle norme europee che in realtà non sono così vincolanti, è il degrado che ha provocato. Noi avevamo la scuola elementare più bella del mondo; i licei, soprattutto il classico, funzionavano bene. Ora abbiamo un degrado che si riflette come onde d’urto. La scuola elementare ancora tiene, ma non è buona come prima. Il disastro più grande è la media inferiore, in cui praticamente c’è l’obbligo di promuovere tutti: quindi lo studente se ne frega e fa come gli pare. Non è che io sia per una scuola più dura, punitiva, anzi, bisognerebbe aiutare gli ultimi piuttosto che colpirli. Ma una scuola che fatta così, con menefreghismo e indifferenza, produce disastri. Vorrei una scuola di qualità che aiutasse chi sta dietro, ma non senza bocciare, o rimandare, tanto poi si sconta tutto: invece serve aiutare chi resta indietro con forme di sostegno. Soprattutto, servono maestri e professori capaci di motivare gli allievi.

L’altro giorno Achille Varzi diceva che in America le scuole sono più selettive, ma allo stesso tempo meno accademicamente ingessate, aperte al mondo.

Si riferiva all'università. Prima di tutto c’è la diversa modalità d’accesso. In Italia gli studenti e le famiglie si lamentano perché si pagano 1500 euro di tasse universitarie all'anno. Nelle università americane, soltanto per frequentare, si pagano 25.000 dollari, almeno in quelle pubbliche dove insegno io; e nelle università private come Harvard o Yale si pagano 40.000 dollari soltanto per studiare, e poi bisogna aggiungere i soldi per mangiare e dormire. Quindi le famiglie più povere appena nasce un bambino e vogliono mandarlo all’università, cominciano a risparmiare. È per questo che poi gli studenti americani studiano davvero: non è che uno non fa un esame e poi dice “lo faccio il mese prossimo”. No, là lo può fare solo l’anno dopo, se gli va bene! E ripetere un anno costa 40.000 dollari. Però la scuola americana è peggiore della nostra: ci sono poche materie obbligatorie (inglese, matematica...), poi c’è una enorme attività sportiva, e va bene la mens sana in corpore sano, e poi una varietà di materie facoltative che noi riteniamo un po’ futili, dal tango all'ikebana. Sono molto più aperti alla vita, tant’è vero che l’esame finale, quello in cui consegnano la laurea o il dottorato, si chiama “Commencement”, non la fine ma l'inizio, perché finisce la scuola e comincia la vita. Però nessuno, a meno che non vada in qualche liceo di gesuiti o in un liceo francese o italiano, studia filosofia alle secondare. La maggior parte degli studenti frequenta i corsi di filosofia perché servono per fare i primi tre anni e poi passare a giurisprudenza. Però poi quelli che restano, la studiano bene: all’inizio sono peggiori degli studenti italiani, ma dopo, siccome si devono guadagnare la pagnotta e non far spendere i genitori, quando arrivano al dottorato generalmente sono migliori: un po’ più limitati, perché si iperspecializzano, anche se ora le cose stanno cambiando. Sono più disinibiti di noi, danno manate a Kant, Hegel o Aristotele, li criticano, mentre da noi è più importante capire che cosa ha detto veramente Aristotele. Loro invece si chiedono: “Ma quello che ha detto Aristotele è giusto o sbagliato?” Mi sembra un atteggiamento più sano. Il rovescio del medaglia è che manca la dimensione storica, sembra che i concetti siano sempre gli stessi, non si rendono conto della differenza.

I need, i giovani che non studiano né lavorano, corrono il rischio di avere un’identità “molto corta”, per dirla alla Bergonzoni. Com’è possibile arginare questo fenomeno?

Bisognerebbe distinguere quelli che non hanno voglia di impegnarsi e di lavorare e vivono alle spese della famiglia, e quelli che hanno cercato e non hanno trovato. Io sono qui da una settimana e ho visto che in corso Vittorio Emanuele cercano un cameriere e finora nessuno s’è preso il posto. Qualcuno ci potrebbe andare: non è un'indagine sociologica, è solo buonsenso. Negli Stati Uniti è normale: la maggior parte dei miei studenti per non pesare sulla famiglia lavora, fanno ore in pizzeria, le guide turistiche.

Che cosa l’ha colpita di più degli interventi del pubblico dopo la sua lezione?

Erano tutte delle domande molto pertinenti, non come nell'altro incontro...

Quello tra Varzi e Ferraris, quando una docente romana ha iniziato a leggere il suo saggio...

A volte nei festival può accadere. Una volta un tizio è arrivato camminando come un leopardo, si è steso per terra imbriaghu perdiu, e si è messo a fare domande che non c’entravano niente... Se ne vedono di tutti i colori. Invece ho apprezzato le domande che mi hanno fatto, erano molto pertinenti. Nei dibattiti pubblici ci sono naturalmente quelli che fanno domande fuori contesto, ma se sono quesiti intelligenti si può anche rispondere. Sono domande impertinenti, nel senso che non pertengono a qualcosa, spesso sono anche arroganti, ma a Cagliari, rispetto anche ad altre situazioni che ho visto, in genere le domande sono molto ben fatte.

 

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