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ISSN 2279-9184

ateatro 144.14
7/5/2013 
Teatro e filosofia Psicosi e identità dell’io
Una intervista a Filippo Maria Ferro
di Margherita Sanna
 

Penultimo giorno del Festival della Filosofia qui a Cagliari, è il momento dell'incontro sul tema “Sé e identità tra corpo e mente: il caso della schizofrenia”. Sul palco il professor Vittorio Gallese, neuroscienziato scopritore dei neuroni specchio, e il professor Filippo Maria Ferro, eminente psichiatra esperto di storia dell’arte. Gremito il Teatro Massimo di Cagliari, i due relatori attraverso esempi, casi clinici ed esperimenti scientifici, introducono il pubblico nell’argomento del giorno, seppur così tecnico. Cibo per la mente, l’ha definito la professoressa Roberta De Monticelli, ed in effetti così è stato.



Una ricerca ormai di qualche anno fa diceva che 3 giovani su 100 soffrono di psicosi...

Molti meno, per fortuna.

Quanto può durare una terapia psicotica? E da cosa nasce la psicosi?

E' un problema molto serio. Il manifestarsi della psicosi di solito inizia verso i diciotto anni, con le prime crisi di maturazione adolescenziale, il primo break-down. Eccezionalmente, se la struttura è poco costruita, può esserci una psicosi in età infantile; se è una struttura che regge ancora, può esserci una psicosi ad inizio più tardivo. Ma se lei prende le statistiche, nel 90% o anche nel 95% dei casi l’esordio è adolescenziale – primo giovanile, quando si affaccia una relazionalità di tipo diverso, sul piano sentimentale e sul piano dell’autorità, cioè del rapporto con la figura paterna: il problema edipico, insomma ma in senso molto originario. Allora lì c’è il crollo, il soggetto non regge questi livelli di autonomia e di relazionalità.

E questo è il crollo vero e proprio, l’acmé. Ma ci sono già stati alcuni sintomi?

Non è proprio un fulmine a ciel sereno: di solito è preceduta da situazioni che permettono di identificare il soggetto è a rischio. Tuttavia bisogna stare molto attenti: se potessimo vedere i pazienti adolescenti nelle scuole, individueremmo praticamente tutti quelli che possono avere una psicosi, però questa sarebbe un’invasione di campo indebita. Di solito ci si appoggia alle segnalazioni delle scuole, dei genitori, quello che appare.

Ma potrebbe individuarla uno psichiatra o anche uno psicologo come quelli che si trovano nelle strutture scolastiche?

No, bisogna sapere quello che si cerca: ci sono modalità di osservazione psicopatologica molto precise, alcuni segni sono distintivi, altri meno. Questi segni di fragilità rimandano a fragilità nel percorso del sé che non sono dell’io storico, ma sono localizzate in situazioni di abbandono, conflitto avvenute nei primi due anni di vita: è lì che si gioca tutto.

Dunque situazioni che una persona quindi neanche ricorda...

No, non le ricorda. Infatti uno dei problemi della terapia psicotica è che molte cose si intuiscono e si vedono a livello del contro-transfert, dell’andamento della terapia, senza essere verbalizzati. Le faccio un esempio. Una paziente era stata ricoverata in ospedale, aveva una situazione catatonica. In pratica era una statua, non parlava, non rispondeva, non mangiava, niente, veniva gestita con le flebo. A un certo punto diventò rossa come il fuoco, tant’è vero che venne chiamato il dermatologo. Non si capiva che cosa avesse, le diedero il cortisone, poi smisero, non si capiva nulla. Andavo a vederla quasi tutti i giorni, per cercare di cogliere il minimo spiraglio, finché a un certo punto il rossore comera così se ne andò. Dopo quindici giorni – era rimasta lì due mesi prima di riprendere la vita normale, con supporto della psicoterapia – tornò di nuovo rossa. Mi sono detto: “Santo iddio, ma cosa posso fare?” Ma questa cadenza quindicinale mi insospettì. Mi sono fatto dare i turni delle infermiere e ho scoperto che lei veniva accudita senza dar segno di vita da un’infermiera in particolare, che la pettinava, le metteva la flebo, eccetera. E quindi la paziente la conosceva attraverso il tatto. Insomma, quando quell’infermiera così dedita a lei andava via per il week end o per il turno di riposo, lei aveva questa reazione cutanea, diventava rossa come un gambero. Quando tornava questa tutto andava a posto.

E questo fa pensare anche a quando voi dicevate che l’io è sempre in relazione con qualcun altro...

Certo. Quando cura un paziente con una nevrosi, compie dei movimenti di cui viene fuori il motivo, viene verbalizzato, quindi il paziente capisce e poi si scioglie. Invece nella psicosi lei ha molto spesso una visione indiretta di quello che è successo: si sa che siamo vicini a quest’area traumatica che non viene verbalizzata, però è come se apparisse dietro un paravento, come se lei vedesse un oggetto in controluce, lo vede e non lo vede, però sa che c’è. E quindi il problema è che non andrà mai via del tutto. Ma il problema dello psicotico non è quello di rammendare il buco, per usare l’espressione di Freud, quanto di rafforzare altre parti della personalità che gli permettano una vita normale: non c’è uno strappo, è un buco come quello di una sigaretta. Un po’ come si fa anche in neurologia: se un paziente ha una lesione del cervelletto, per esempio in seguito a un ictus, la lesione non guarisce, all’inizio gli dà difficoltà a controllare i movimenti, va storto, barcolla, poi, poco per volta si creano dei circuiti compensatori per cui la situazione si normalizza. Certo, non potrà mai fare l’acrobata, però dopo un po’ non se ne accorge più nessuno, però non è che la lesione sia guarita, ma è stata vicariata da altre cose. È difficile da far capire.

Quali tipologie cliniche segue?

Proprio l’altro giorno che mi sono trovato di fronte a un caso molto serio: un ragazzino di quindici anni che ha avuto il primo break-down psicotico. In realtà non è stato un break-down vero e proprio, perché l’ho preso in tempo. Abbiamo avuto colloqui tutti i giorni, abbiamo parlato dei suoi sogni e abbiamo vissuto questa cosa attraverso i suoi vissuti interni. All’inizio era preoccupante: sognava di lottare contro un mostro che poi questo lo buttava giù dal balcone: questo mi ha molto allarmato, perché buttare una parte di sé dal balcone per un adolescente può anche voler dire un suicidio, non è uno scherzo. Poi poco per volta le cose si sono ammorbidite e infatti domani torna a scuola. Ormai lavoro quasi esclusivamente su pazienti acuti, lo sanno anche i miei colleghi e mi mandano quasi tutti i giovani con problemi acuti, e continuo a imparare. Adesso ho un occhio esercitato a vedere cose che una volta non mi colpivano così, aspettavo anch’io. Normalmente si aspetta che la crisi finisca: è un errore terribile, perché quello che si vede dentro la crisi non si vede più quando la crisi finisce, perché quando finisce il danno è fatto. E' come se lei anziché modellare una scultura prima di farla cuocere facesse cuocer la creta e poi si mettesse a modellarla, ma a quel punto non ci riesce più. È lì che comincia la schizofrenia. La schizofrenia è una cosa su cui non si è intervenuti a tempo e in un certo modo. D’altra parte è come se uno si rompesse una gamba: se non gliela mettono a posto subito, il paziente diventa storpio.

Lei ha detto stasera: “Non esiste un solo Io, ma tanti Ii”. Com’è possibile far convivere in maniera sana ed equilibrata, senza creare scompensi, i nostri vari Ii?

Se lei pensa agli stadi della sua vita, in ciascuno di essi ha interpretato vari personaggi, si è evoluta. Quello che però garantisce la continuità, è che anche il matto più matto è sempre lui, perché queste esperienze originarie dell’imitazione eccetera denotano l’originalità. Le faccio un esempio tratto dalla pittura: si è parlato molto della mano, se lei interroga quelli che riconoscono i pittori, che guadagnano anche su questo, possono avere di fronte un quadro grande come una parete o un quadro piccolino, ma la prima cosa su cui si soffermano istintivamente sono le mani, perché le mani sono come delle firme del pittore. La mano è una parte del corpo privilegiata come identità, tant’è vero che anche nelle situazioni di relazionalità, di simpatia, sono sempre qualcosa di cui uno non è consapevole ma che passano dentro di lui come Gestalt privilegiate che richiamano delle situazioni molto antiche. Infatti quello che ci colpisce negli altri è il sorriso, il modo di camminare, il modo di gestire con le mani. Quando le presentano qualcuno, non gli guarda la spalla, magari la guarda dopo ma non è la prima cosa che la colpisce: a colpirla sono queste Gestalt privilegiate che richiamano vissuti antichissimi, come uno ha vissuto la figura femminile nella mamma, come ha vissuto certe figure significative.

Quanto è difficile per lei comunicare in maniera semplice agli altri non addetti ai lavori tutte queste ricerche?

Ormai lo faccio da quando avevo vent’anni, da quando facevo l'assistente alla clinica neurologica. La difficità è spiegare cose oggettivamente complesse, non tanto decodificare questa complessità quanto di spiegare cose che se uno non le vede non riesce a rendersi conto del perché vengono interpretate in un certo modo. Per esempio, se lei mi mette in fila i sogni di un paziente, annotati i sogni che ricorrono, ci sono delle varianti significative, per cui si capisce come una cosa è andata avanti.

Come la questione degli zombie: un suo paziente psicotico il cui sogno ricorrente, fin da bambino, era popolato da zombie che lo perseguitavano e volevano ucciderlo. Nell’ultimo sogno il paziente si trovava in un attico di un grattacielo, tutti gli ascensori erano stati preventivamente bloccati, e il giornale dava notizia di un avvenuto attacco di zombie.

Esatto. C’è stata una fase – che non ho potuto raccontare - in cui gli zombie non lo impegnavano più in un corpo a corpo, ma erano comunque molto persecutori perché stavano dentro le tubature dell’acqua. Adesso sono davvero lontani, c’è una spartizione precisa: ci sono ancora ma c’è una specie di armistizio.

 

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