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ISSN 2279-9184

ateatro 144.13
6/5/2013 
Teatro e filosofia Filosofia e teatro in dialogo per sconfiggere la crisi
Con una intervista a Achille Varzi
di Margherita Sanna
 

Secondo giorno del Festival di Filosofia al Teatro Massimo di Cagliari. La partecipazione è sempre forte e soprattutto varia, abbracciando fasce d’età differenti. Il tema del dialogo mattutino tra Maurizio Ferraris e Achille Varzi è Fatti e finzioni, un vero e proprio dialogo fra due filosofi, personaggi fittizi di berkleiana memoria: Hylas, il filosofo materialista interpretato da Maurizio Ferraris) e Philonous, l’idealista interpretato da Achille Varzi.
Achille Varzi insegna attualmente presso il dipartimento di filosofia della Columbia University a New York. Oltre a essere una menti che il nostro paese ha regalato al mondo, è anche una persona squisitamente leggera, nell’accezione calviniana di questo termine.



I festival di filosofia sono, a suo parere, accessibili anche ai neofiti, ai non addetti ai lavori, o per seguirli è indispensabile un seppur minimo sostrato filosofico?

I festival di filosofia e in generale i festival culturali che si sono moltiplicati negli ultimi anni, diciamo di letteratura, scienze, economia oltre alla filosofia, sono secondo me una risorsa straordinaria. Il numero dei partecipanti conferma quanto siano benvenuti: permettono di parlare di cose importanti, non soltanto di filosofia ma anche di altre discipline, al di fuori dei circoli soliti: da un lato al di fuori del ristretto ambito accademico, e dall’altro anche al di fuori dai salotti televisivi. Perché l’Italia soffre di questa assurda contraddizione: o si fa la scienza con la “s” maiuscola nel mondo accademico, e allora sembra una torre d’avorio, oppure la si fa chiacchierandosi addosso in televisione. Ecco, i festival consentono di superare questa dicotomia, perché sono accessibili a chiunque abbia interesse in queste tematiche. Poi dipende dai casi singoli, se i relatori entrano nel giusto meccanismo o si mettono sulla giusta lunghezza d’onda. Però sono sicuramente accessibili a chiunque. E' però una formula rischiosa: non bisogna pensare che per coinvolgere “i non addetti ai lavori”, “i non esperti”, sia necessario semplificare cose difficili. Semplificare non va mai bene. Secondo me, e in questo senso la filosofia forse è il caso più interessante, sono opportunità straordinarie per far vedere quanto siano complicate cose che sembrano semplici. Non si tratta di semplificare le cose difficili, ma di far vedere quanto siano complesse, straordinariamente e meravigliosamente, questioni che invece potrebbero sembrare banali. Io sarei contentissimo se ci fosse un intero festival dedicato al problema del perché gli specchi invertono a destra e sinistra e non sopra e sotto. Ecco, sembra una domanda banale, una questione sciocca, ma da questo problema Kant ha tirato fuori la dialettica trascendentale. Ecco, è questo l'importante, a mio avviso: riscoprire la meravigliosa complessità del quotidiano.

Lei ha detto: “In Italia c’è una dicotomia fra la scienza con la “s” maiuscola e il parlarsi addosso dei talk show”. In America questo non accade?

Non è la stessa cosa, no. In America innanzitutto l’università è meno popolare: è un dato di fatto, è un po’ più d’élite, insomma non ci entrano tutti, per entrare all’università uno deve essere bravo. Ma nello stesso tempo il mondo accademico non è un ambiente così separato dal resto della società. Nello stesso tempo i talk show degli intellettuali, o degli accademici che hanno smesso di fare la Scienza con la “s” maiuscola e hanno deciso di invecchiare chiacchierando e vicendo un po’ di rendita, quello non c’è. Quindi, per comincioare, i due mondi sono un po’ diversi. E soprattutto esiste una forma intermedia di cultura ad ampia diffusione che da noi fa fatica a decollare: in Italia ci abbiamo provato ma non ci siamo riusciti. Ci sono pubblicazioni e riviste come “The New York Times Book Review”, oppure “The New York Review of Books”, oppure il “New Yorker”, che si comprano in edicola e dove le recensioni o gli articoli sulle questioni importanti su cui si sta dibattendo sono tutti molto seri, scritti da accademici, giornalisti o intellettuali: uno in metropolitana legge queste cose. Non sono testate di grandissima diffusione, perché anche lì il problema naturalmente esiste: ma in ogni caso queste storiche riviste si pongono a metà tra i due poli di cui parlavo.

E perché da noi non si riesce?

Eh, questo non lo so. Di recente hanno provato a far ripartire una rivista che esisteva parecchi decenni fa, “Alfabeta”. Ecco, ci sarebbe “Alfabeta2”, ma ha visto qualcuno leggerla? L’ha vista leggere in metropolitana? E' questo il punto. Riviste di questo genere esistono anche in Italia, ma raggiungono quattro gatti. Invece tutte le persone colte al venerdì si prendono il “New Yorker”, e quindi un articolo del “New Yorker£ su una questione importante viene letto da tutti perché è un articolo serio: non è una cretinata da talk show ma nemmeno una elucubrazione specialistica da università. È questo che ci manca, purtroppo. Ci hanno provato in tanti, ho già citato “Alfabeta”, ci sarebbe anche “Micromega”, ma raggiungono comunque solo nicchie di intellettuali, o sono dei tentativi falliti. Comunque non raggiungono il grande pubblico, che così ha davanti a sé solo i talk show, dove la gente si parla addosso in maniera superficiale oppure il professore con la “P” maiuscola.

Il filosofo oggi può essere utile per uscire dalla crisi? Quale possibilità può offrire in più?

Il filosofo può essere utile sì, per uscire dalla crisi nella misura in cui la crisi è espressione di un’incapacità di immaginare e di implementare scenari nuovi. L’abbiamo visto, soprattutto in questi ultimi tempi. Siamo avvitati su noi stessi e non riusciamo a uscire dal barattolo nel quale ci siamo incastrati. Io penso anche che la filosofia – come dicevo stamattina - possa essere un importante strumento di emancipazione proprio in quanto è una sorta di scienza o arte del possibile. In quanto tale – cioè in quanto ginnastica utile a superare i paraocchi che ci impediscono di vedere e immaginare mondi diversi – è sicuramente, almeno potenzialmente, molto utile. Del resto, quando si parla di filosofia bisognerebbe anche intendersi su che cosa si intende. Io non sto parlando di filosofia in quanto storia delle idee, non credo che possa essere utile più di tanto. Per carità, la cultura è utilissima, però non c’è niente di speciale nel suo essere filosofica piuttosto che storica. Per filosofia intendio invece quello che è la filosofia e che era, quando Aristotele diceva che la filosofia nasce con il senso della meraviglia e con il senso dello stupore. Ecco, se per filosofia intendiamo questa disponibilità a lasciarci sollecitare da quello che ci sta intorno e a cogliere la meravigliosa complessità di quello che ci sta intorno, allora diventa la filosofia automaticamente un'arte del possibile, perché ci rendiamo subito conto che, come diceva Ferraris questa mattina, citando l’Amleto di Shakespeare “ci sono più cose tra il cielo e la terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”, e facevamo una battuta sulla situazione politica italiana. Ma non è una battuta scontata, o come dire, volutamente superficiale; è drammaticamente vera: l'avvitamento nel quale ci siamo ficcati è espressione di una mancanza, di una carenza di capacità di immaginazione.

Oggi ha sottolineato l’importanza del dialogo. Secondo lei oggi nella vita sociale, politica, si è perso il senso del dialogo? E come sarebbe possibile riacquistarla?

Il dialogo è importante come strumento per la messa a punto, la chiarificazione di un pensiero. E' per questo che dicevo che non a caso la prima filosofia di cui abbiamo una documentazione estesa, quella di Platone, era una filosofia fatta interamente per dialoghi, e non erano dialoghi tra persone o interlocutori che avevano delle idee precise, e che in qualche modo litigavano intellettualmente fra di loro. Erano dialoghi all’insegna della ricerca comune e spesso si concludevano non già con una risposta al problema, ma semplicemente con la chiarificazione della domanda. Filosoficamente, i dialoghi sono strumenti importanti per la messa a punto del pensiero. Oggi ne abbiamo continue conferme: il dialogo è quello che ci serve, ci manca per superare degli stalli, delle impasse in cui ci ficchiamo continuamente. La cosa più deprimente dei talk show è proprio che mostrano l’incapacità di dialogare: vediamo persone che hanno delle idee, dei punti di vista, dei partiti presi, e l’unico modo nel quale dialogano è l’aumento del volume della voce. Ci si parla addosso, non si ascolta l’altro. Manca sia la capacità di ascoltare gli altri che quella di lasciarsi provocare in maniera sincera. Io credo che se riuscissimo a migliorare la nostra capacità di dialogare. Ecco, e qui si torna anche alla sua seconda domanda: se dialogassimo, sicuramente avremmo più opportunità di uscire dalla crisi. Perché la crisi è anche un problema di dialogo fra sordi.

Del resto noi abbiamo una bellissima tradizione letteraria in cui viene utilizzato il dialogo proprio per rendere più semplici concetti complessi, pensiamo alle Operette morali di Leopardi...

Esattamente! Le Operette morali sono il mio modello di scrittura filosofica, come Il dialogo sui massimi sistemi di Galilei: proprio perché non è un trattato, il lettore vede le ragioni degli iterlocutori, i pro e i contro. È sciocco che non si riesca a costruire questa tradizione perché – ripeto - è forse il modo migliore per uscire dalla crisi. La crisi politica è un dialogo fra sordi, un dialogo tra partiti presi, dove non ci interessa quello che dicono gli altri, a volte non ci interessa nemmeno farci capire, ci basta essere più rumorosi.

E se la politica è lo specchio della società, vuol dire che questo dialogo fra sordi avviene continuamente.

Perché diventa diseducativo a tutti i livelli. Io penso ai miei figli, che sono cresciuti proprio in questa cultura televisiva dell’irrazionalità e delle veline. Lasciamo stare le veline: ma c’è il problema di questi dialoghi fra sordi. Come può un ragazzo, una ragazza sentirsi invogliato o invogliata a confrontarsi con gli altri se i modelli che ha sono questi? Modelli pessimi!

Che cos’è più opportuno secondo lei: essere sempre sé stessi oppure disconoscere il proprio sé per lasciarsi contaminare dai tanti altri sé che incontriamo?

Questa è una domanda, come direbbe il professor Ferraris, da un milione di dollari! Se sono costretto a scegliere una delle due cose, sicuramente la seconda. Essere sempre noi stessi è pericolosamente ambiguo, perché non è detto che noi si sia mai noi stessi. Quindi il rischio è di intestardirsi su un certo profilo e di voler essere sempre quella roba lì. Per carità, se fosse il profilo che veramente corrisponde a noi, potrebbe andar bene. Noi cambiamo, “noi stessi” non è una costante, è sempre in evoluzione. In ogni caso, credo che il modo migliore per trovare noi stessi sia lasciarsi costantemente interrogare dalla storia, da quello che ci sta intorno. Potrei dore che se uno davvero raggiunge il proprio sé, deve tenerselo stretto. Ma siccome questo succede molto di rado, piuttosto che arroccarmi su una finzione preferisco lasciarmi interrogare, anche se questo può essere destabilizzante.

Anche perché bisognerebbe capire qual è il proprio sé...

Esattamente. E c’è un problema grosso che si chiama autoinganno, è proprio il modo in cui uno si autoinganna, si autoconvince di avere trovato qualcosa e si autoconvince di essere qualcuno. Non c’è niente di peggio. E' una grande mistificazione. Quindi lasciamoci interrogare, anche se questo a volte può essere destabilizzante, ma nel senso quasi adolescenziale del termine, certo però, meglio entrare in crisi piuttosto che intestardirsi in quello che non si è!

Anche perché dall’autoinganno è derivata una delle cause di frustrazione maggiore che poi portano problemi psicologici.

Sì, e portano anche a degli atti drammatici. Nel momento in cui uno si rende conto di come stanno le cose, perché l’autoinganno è un continuo posticipare il problema della verità, per usare dei paroloni, a quel punto però la realtà prende il sopravvento e uno non ha più le risorse per reagire. È pericolosissimo anche dal punto di vista psichiatrico.

Lei ha regalato a chi ha seguito questo festival un interessante dialogo, ma a lei cosa lascia Cagliari e quest’esperienza?

Innanzitutto un senso di accoglienza e di vitalità che mi hanno colpito molto. Mi ha dato e mi sta dando questa grossa sensazione di vitalità e di partecipazione, lo stesso pubblico che era presente, le domande, anche quelle dei giovani, tutte molto puntuali e azzeccate, questa partecipazione di una cittadinanza a tutti i livelli, anche per quanto riguarda l'età... Non me l'aspettavo! Ma non perché avessi una cattiva opinione di Cagliari, ma perché è difficile aspettarsi una cosa così. E' veramente interessante. Stavo parlando con una persona che ha riconosciuto il mio accento piemontese e mi ha detto: “Io sono di Milano però vivo qua. Mi sono trasferito in Sardegna perché è troppo bella”. Beh in effetti, devo dire che un pensierino verrebbe voglia di farlo!

 

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