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ISSN 2279-9184

ateatro 144.12
6/5/2013 
Teatro e filosofia Le anime antiche del dirompente Bergonzoni
L'apparizione al festival di Filosofia di Cagliari (con una intervista)
di Margherita Sanna
 



E' Alessandro Bergonzoni ad aprire la seconda edizione del 2° Festival di Filosofia al Teatro Massimo di Cagliari, la “quattro giorni di incontri e dialogo” organizzata dal Teatro Stabile della Sardegna in collaborazione con l'università.
Dirompente e potente, Alessandro Bergonzoni (intervistato da Oliviero Ponte di Pino) nel suo dialogo “La stirpe degli Ulissidi” troneggia sul palco del Teatro Massimo: strana contraddizione (o forse no), visto che alla prima domanda di Oliviero Ponte di Pino – “Quando sali in scena, il palcoscenico per te è più uno specchio del mondo o uno specchio della mente?” - Bergonzoni risponde senza ironia di non essere affatto attaccato al palcoscenico.

“Per me il teatro è un percorso, è un mezzo, è un aldilà, ma non è che sia la mia vita. Anche quando sono dentro il palcoscenico sono anche altrove. Ho sentito l’altro giorno un musicista che diceva: 'La musica è tutta la mia vita'. Io provo una tristezza infinita per questo musicista, per il quale la musica è tutta la sua vita e la sua vita era solo musica. E mi sono detto: con la morte – non solo la tua - capirai che sei molto corto”.

Non risparmia mai gli attacchi ai “corti” Alessandro Bergonzoni, sia che siano personaggi noti o persone come quelle che incontriamo di tutti i giorni. In un’ora di dialogo esplora le sue tematiche cardine: la “cultura colluttoria”, la vita e la morte e il morir vivendo, l’attesa come spazio attivo della conoscenza, la sovrumanità, il viaggio del sé verso altri sé, la fortuna, il diritto alla tenerezza, la follia e il sogno. Sferza l’aria con i suoi giochi di parole, veloci, in un flusso ininterrotto e musicale di pensieri. Abbraccia la platea con le sue tenaglie linguistiche, eredi della più grande tradizione sofistica. Non un fiato, non un segno di noia: divampa sul proscenio mentre il pubblico, dai più giovani agli adulti e ai non più giovani, si lascia trascinare, come in estasi, ridendo e ascoltando. Non importa più in quell’istante ciò che si pensa o si credeva un attimo prima di entrare in quel teatro, non hanno più senso i gusti e le preferenze. Bergonzoni avvolge e travolge, attrae senza apparenti contraddizioni la sua “filosofia” del vivere vivendosi in altri: è una “terapia del risveglio” che manipola e decostruisce ciò che prima era e ora potrebbe non essere più.

“Non vedete che le parole arrivano prima di noi? Stanno lavorando all’esterno perché noi ci svegliamo dall’interno e capiamo... Finché ci accontentiamo dell’umanità va bene così, questa umanità è perfetta. Ma dobbiamo chiedere il sovraumano”.

Concetti complessamente semplici, ma che spesso rimangono confusi in quest’esistenza di “già morti”. Bergonzoni sollecita tutti a intraprendere “viaggi sconosciuti, a ritornare dei e predisporsi in attesa di ciò che non si conosce”. Scherza e irride nel suo dialogo di viaggio e mistero. Afferma di non leggere e poi cita vari autori. Afferma di non guardare la tv e poi cita l’interpretazione di Odio gli indifferenti di Elio Germano, che è andata in onda la settimana scorsa. Esorta il pubblico a una “chirurgia etica”, a “rifarsi il senno”, perché “una volta si era schiavi con la palla al piede, ora siamo schiavi in un altro modo”. Ironizza sulla potenza delle proprie parole, rivalutabili in base alla sua possibile morte. Abbraccia tutto, non risparmia niente, nemmeno le campagne contro femminicidi: “Io uomo sono donna. Bisogna fare manifestazioni contro gli uomini che sono solo uomini. Uomini che non siete altri!”, e scatta il commosso applauso femminile e non solo. Bergonzoni shakera il pubblico per un’ora intera, senza requie, rimandandolo a casa con l’augurio di non uscire mai da quel sé ed altrove che lì, nel Festival della Filosofia di Cagliari, si ritrova, solo per un’istante, prima di fuggire in un tweet.



Secondo te esistono i comici e quali sono oggi i comici? E tu sei un comico?

Io non sono certamente un comico. Io sono “anche un comico”. Decidiamo chi sono “anche i comici”. Peppe Lanzetta, che è un uomo di Napoli, è “anche un comico”. Paolo Rossi è “anche un comico”. Aldo, Giacomo e Giovanni sono soprattutto comici e li stimo molto.

E Luciana Littizzetto non è un comico?

No, non è un comico. Questo non vuol dire che sia brava, che possa piacere. Ma la Littizzetto è un’intrattenitrice, una persona che lavora in televisione. Però il comico fa un altro mestiere: fa un lavoro di ricerca, di osservazione, di scavo, va anche altrove. Non è soltanto intrattenimento. Geppi Cucciari è soprattutto una intrattenitrice, una presentatrice, nel senso buono del termine. Magari così le libero da un concetto di comicità che potrebbe dar loro fastidio: la Littizzetto fa ridere, peròè un altro discorso.

Ma secondo te, la risata che generi ogni volta nel pubblico, come oggi, è dovuta alla manipolazione, alla manomissione del linguaggio, come la definisci tu? Oppure è frutto della piena comprensione di tutto quello che vuoi trasmettere?

In questo momento, stai muovendo più che altro il braccio, stai più che altro guardando... Ma è più forte quello che dici, quello che senti, oppure è più forte il battito del tuo cuore? Non è che io scateno la battuta per la battuta, il gioco di parole, il divertissement, anche se questo in teatro accade di più: ma anche in teatro, è un percorso che ti tira dentro. Non faccio la scenetta, la parodia, il personaggio... Lavoro per cortocircuito, lavoro anche in teatro per una elettricità, per una scossa. Secondo me c'è anche il livello fisico. Prima qualcuno mi ha detto: “E' stata un’esperienza fisica”: erano spossati, come se avessero o riso a crepapelle, o pianto pianto pianto... A Napoli, alla fine dello spettacolo, spesso mi dicono: “E' 'na fatica fisica, è 'na palestra”, escono spossati, sudati. Molti ridono dentro, altri non ridono. Ci sono spettatori che amano il teatro che non non hanno mai risoma si divertono, altri provano fontane di felicità: la chiamo la “fontana di Trevi del piacere”...

Vedendoti in scena, mi sono chiesta quanto fossi felice, perché sentivo come una lancinante tristezza in quello che dicevi.

C’era, certo che c’era anche la tristezza. Mi sa che questa intervista verta soprattutto sullo “e... e...”, sullo “o... o...”, “non è solo così...”, “è anche...”. Io oggi sono stato drammaticamente triste, drammaticamente coinvolto, felice, entusiasta, mi sono liberato, mi sono sfogato e al tempo stesso mi sono impegnato. Ho faticato ma non sono per niente distrutto. Sarei pronto a rincominciare. Mi sono divertito come un cavallo. E' stato tutto questo.

Hai detto che i festival sono luoghi in cui si trova una cultura colluttoria...

Non per colpa dei festival, ma per colpa di chi li guarda. Grandi applausi, vi vogliamo bene, poi vai a casa e guardi magari la De Filippi.

Hai detto che “la tv è un mezzo di distrazione di massa”.

Ho detto la tv, ma anche certi giornali, rotocalchi, la radio brutta. Non dico che la tv fa cagare, invece la radio è meravigliosa. No, c'è una radio brutta, orrenda.

E in quali luoghi l’uomo deve abitare per riappropriarsi di sé stesso?

L’altro sé, l’invisibile, il mistero, sono i luoghi di cui noi disponiamo quotidianamente. Vita, morte, zone, corpi... Invece noi i luoghi li dividiamo in “stadio-luogo”, “concerto-luogo”, “teatro-luogo”... Quelli non sono luoghi: sono “posti”, anzi “im-posti”. Prova a immaginare posti che non sono imposti. La mente, e anche l’anima, lavorano per creare zone che non sono reali. Mentre facciamo la doccia dobbiamo pensare a una cucina... Sono quei luoghi lì, l’immaginario, la fantasia, ma immaginario e fantasia reali. Qualcuno ha detto: “L’invisibile, l’incredibile, non sono meno veri del reale, sono veri. Sono effettivi.”

Quando Bergonzoni è diventato il Bergonzoni che conosciamo oggi?

Bergonzoni non è ancora diventato Bergonzoni, proprio per i motivi raccontati sul palco. lo sono stato sicuramente prima di nascere, in vite precedenti. lo sarò in altre vite. E ci sono molti, moltissimi Bergonzoni. C'è Bergonzoni che vuole conoscere chi è attratto dalla biografia: forse sono diventato Bergonzoni da Costanzo, quando feci l’unica televisione della mia vita, nel 1988? Forse aver fatto venti puntate in vent’anni mi ha fatto diventare qualcuno per il pubblico? Forse vendere un libro, venderne più copie, scrivere sul “Venerdì”? In questo senso Bergonzoni non c’è: non sono diventato famoso per una pubblicità, non sono diventato famoso per un fatto di cronaca, non ho mai fatto trasmissioni che mi hanno lanciato. Allora, sono famoso perché faccio sessanta date l’anno di teatro? Magari!

Intendevo il Bergonzoni intimo, quello che riesce a mettersi in contatto con gli altri.

Interno? Vite precedenti. Vite fa, non in questa, non ce l’avrei mai fatta in questa. Materialmente mia madre mi ha detto di andare in un manicomio quando avevo sedici, quattordici anni: il manicomio una volta, prima delle legge 180, la legge di Basaglia, dove c'erano ancora i letti di contenzione. Certo, lì materialmente è nato un altro Bergonzoni. Materialmente. Ma spiritualmente c’era già, vite fa. Anime antiche.

 

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