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ISSN 2279-9184

ateatro 142.15
12/13/2012 
La morte si sconta vivendo: dentro l'Ilva di Taranto
L’eremita contemporaneo degli Instabili Vaganti
di Giada Russo
 



L'eremita contemporaneo, ultima produzione della compagnia bolognese Instabili Vaganti, che ha debuttato con successo allo STOFF Stockholm Fringe Festival nell’agosto di quest’anno, è ispirata alla vicenda Ilva e dedicata proprio alla città di Taranto.
Una voce fuori campo, cantilenata, sospirata, quella della regista Anna Dora Dorno, ci accompagna dentro una favola moderna, dove il protagonista è l’operaio di una fabbrica, eroe dei nostri giorni, eremita contemporaneo costretto nella propria solitudine.
Solo in scena, il corpo acrobatico dell’attore Nicola Pianzola, incastrato dentro una scala d’acciaio, viene illuminato a intermittenza da video proiezioni, ma l’intera performance si svolge nell’oscurità di una fabbrica, una di quelle dove si suda e si lavora, si produce, si crea, si suda e si lavora, dove la luce del sole arriva solo per qualche attimo, dalla finestra in alto, a ricordare che c’è una vita anche fuori di lì.
Il lavoro fisico dell’attore è metafora della condizione di alienazione dell’operaio, indagata nei resoconti dei lavoratori e filtrata attraverso le parole di grandi poeti. Il suo corpo diventa inorganico, robotizzato, completamente depauperato, e alla fine resta il sudore come unico residuo di umanità.



La sveglia alle sei del mattino è la prima trappola che condanna l’uomo alla reiterazione: Nicola va avanti e indietro su un tappeto trasparente, un red carpet sbiadito per poveri, la passerella di una star quotidiana a cui il teatro pretende di dare un nome. In scena c’è un operaio X, che parla dei compagni come numeri, perde perfino il volto e anela alla propria identità, ma ha un corpo, braccia spalle e occhi che raccontano speranze e paure. Non riesce più a riconoscere i suoi denti, le sue labbra, le gengive, le narici: il performer ruota così velocemente la testa da moltiplicare i suoi tratti fino a perdere ogni connotato.
Questa progressiva spersonalizzazione, che viene cantata come “brutalizzazione”, diventa un tormentone pop, un coro da stadio, lo striscione urlato di una manifestazione. Teatro e vita sempre più sincroni, si rispecchiano: nella vita l’uomo diventa prodotto, merce, oggetto, nel teatro l’oggetto diventa uomo, persona, presenza. Così l’elmetto da saldatore può essere il cadavere di un compagno operaio: Nicola lo sotterra dentro la scatola metallica, e si inginocchia per pregare. Mentre compiange l’amico caduto, per un attimo il suo corpo resta fuori dalla gabbia, ma subito è pronto a rientrare, dopo tanti andirivieni giunge all’uscio di quella prigione e di nuovo, ingabbiato, striscia, salta, cade, ruota, fino a contorcersi come un feto nel grembo materno. Non si parla solo di morte, ma di una vita in potenza, che in atto non è più – o non è ancora – vita.
Appeso alle sbarre laterali della scala, Nicola corre per scappare via dall’involucro, ma resta fermo, come attorcigliato in una tela di ragno: accanto all’alienazione, la frustrazione di una fuga abortita.
Alcune parole messe in bocca al performer rischiano a tratti di ingombrare la scena, che si nutre della presenza totalizzante del corpo e della musica dal vivo, elementi di una partitura impeccabile: se saltasse una sola nota, il gesto si farebbe superfluo.
Lo spettacolo si chiude quasi per stremo: l’attore ha faticato troppo, gli spettatori con lui hanno sopportato le ripetizioni, i tormentoni, gli scatti, la sua nevrosi ci ha contagiati tutti. Non resta che finire: a fare l’epilogo è l’elmetto nero, seduto in cima alla scala per ricordare la morte che, fuori dai teatri, ma così vicino a noi, viene sfiorata tutti i giorni.

 

ISSN 2279-9184

 

 

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