ateatro 141.55 11/18/2012 Un cabaret straniato Trionfo e il paradigma Brecht di Federica Natta
Brecht a non più finire. Sui palcoscenici, per tacere dei recentissimi Un uomo è un uomo del Teatro
Insieme e delle Farse della Compagnia Il Gruppo […], i tre maggiori teatri stabili italiani stanno attualmente replicando a sale stipate e acclamati come stadi, rispettivamente, e in ordine cronologico, Madre Courage e i suoi figli a Genova, Santa Giovanna dei Macelli a Milano, Il signor Puntila e il suo servo Matti a Torino. […] A quattordici anni dalla morte, il drammaturgo bavarese non soltanto continua a manifestare la sua ingombrante presenza ma l’allarga; la estende, l’approfondisce, riuscendo solo lui a conciliare nel suo nome i nostalgici del
teatro di poesia (perché è anche un poeta), gli apostoli del teatro didattico (perché
dichiarava di voler insegnare) e le leve della nuova sinistra (perché era un
marxista mai incasellabile nei cataloghi ufficiali al capitolo bravi ragazzi
dei quali è sempre possibile fidarsi)[1].
Così nel dicembre 1970, Ettore Capriolo registra dalle pagine di “Sipario” una nuova “stagione brechtiana”
[2]
, un intensificarsi di studi [3] e di allestimenti attorno all’opera del
drammaturgo di Augusta, giustificando l’interesse di questo boom critico e scenico dai palchi 1970, sulla linea di due ragioni: il venir meno del monopolio esercitato dal Piccolo Teatro di Milano sin dal 1956 sulle rappresentazioni italiane dei testi del “povero B.B.” [4]
; il trascorrere di un sufficiente numero di anni,
tali da assicurare ai copioni di Brecht così come sono e, insieme agli
schemi interpretativi che ancora negli anni Cinquanta conservavano un chiaro
valore di provocazione, la decorosa sostanziale “inefficacia dei classici”
[5]
.
Così
se nel 1956, la prima milanese dell’Opera da tre soldi poteva essere
disturbata dai dissensi politico-ideologici-moralistici di una certa ben
determinata parte del pubblico, segno di una funzione “scomoda” del testo,
oggi, rileva Capriolo, lo stesso pubblico, in tutti i suoi settori, accoglie
con entusiasmi da partita di calcio un’opera come Santa Giovanna dei Macelli,
in sé “certamente più aspra, più dura, più cattiva”. Con lapidario e sconsolato
cinismo, il critico constata un cambiamento, un cambiamento della gente, che se
da una parte almeno ha smesso di avere paura delle aggressioni provenienti dal
palcoscenico, dall’altra ha reso decisamente più difficile ogni collegamento
con le componenti sociologiche, decisamente e comprensibilmente
paleocapitalistiche, del discorso brechtiano:
Almeno nelle nostre città
industrialmente più evolute quei tipi di sfruttati e di sfruttatori
appartengono più al passato che al presente e le tracce, qua e là vistose, che
ne permangono possono comunque essere considerate anomale e transitorie da chi
vive e lavora in un contesto diverso, dove hanno assunto forme diverse sia lo
sfruttamento che le sue conseguenze sui lavoratori e sui temi della lotta. Con
il risultato che battaglie un tempo vigorose e ardite possono arrivare come
pacifici luoghi comuni e che il materiale favolistico rischia di fornire
pretesto a ingiallite pagine di un album della famiglia proletario, magari
esteticamente squisite ma sostanzialmente inerti
[6].
In
realtà, la via di Brecht alla classicità fu qualcosa di molto più complesso. Fu
operazione di parte dell’establishment intellettuale, complice di
presentare le opere separate dalla teoria, il poeta distinto dal militante
politico, privilegiando ovviamente il primo termine della tendenziosa dicotomia
così da renderlo fruibile a quell’élite borghese che consumò e mise da
parte alla svelta lo scrittore comunista; dall’altra, questa assunzione al
cielo dei classici fu una modalità specifica di “divulgazione” del drammaturgo
tedesco della regia critica italiana che privilegiò un lavorìo di esegesi dei
testi da calare in uno “stile”. Con un’attenzione rivolta alle messinscene e al
modello del Berliner Ensemble, così come era venuto configurandosi nel tempo,
dopo la morte del suo fondatore, viene definito un paradigma abbastanza
riconoscibile: un Brecht corretto, rigoroso, impaginato in un impianto visivo
accattivante, recitato da attori di forte risalto, sostenuto da uno sforzo
produttivo cospicuo. Si tratta di un modello messo in circolazione
principalmente dai Teatri Stabili, di Milano, in primis, e poi di
Torino, di Trieste, di Roma e condiviso, seppure con qualche variante, dai
catecumeni dei diversi contesti cittadini. Tuttavia, di fatto, questo
“brechtismo di palcoscenico” nostrano, naviga a vista. La scarsa dimestichezza
con il corpus teorico, in gran parte non ancora accessibile in
traduzione italiana, genera una vulgata vaga e arbitraria. Il che fu un
limite paralizzante per la creatività, perché non ci fu spazio per coraggiosi
scarti rispetto alla normalizzazione
[7]
.
La
situazione muta sul finire degli anni Sessanta: il rilancio di un teatro engagé
e il radicalizzarsi di un dibattito politico di livello nazionale, pongono il
problema del “metodo” di Brecht
[8], di
un modo diverso di fare “teatro epico”, lontano dal dettato stilizzato. Critici
come Ettore Capriolo, Guido Boursier, Italo Moscati denunciano dalle pagine dei
giornali la necessità di cominciare sul serio un discorso su Brecht come
contemporaneo, non cercando nelle opere e nei saggi dei modelli di
comportamento, inevitabilmente svuotati di significato, ma delle preziose
indicazioni di lavoro. Capriolo, in particolare, invoca la necessità di
“aggirare” gli equivoci di un’umanità fittizia e mistificante, seppellendo
definitivamente le memorie degli anni Trenta e Quaranta e ritrovando nei testi
del drammaturgo ciò che in essi possa ancora sollecitare riflessioni, scuotere
nervi, turbare, dividere:
L’opera drammaturgica di Brecht è
stata vittima di un boom editoriale e scenico in Italia che ne ha distorto
completamente la funzione storica, sia per il ritardo con cui è arrivata da
noi, sia a causa di realizzazioni semplicistiche che hanno fatto di Brecht un
predicatore tranquillizzante
[9]. Il
recupero di Brecht è non la conoscenza critica delle sue opere e delle ragioni
del loro apparire ma la riscoperta acritica di un repertorio che, quando non è
stato usato in chiave populista, è diventato mero appannaggio di una certa zona
teatrale: banco di prova delle evoluzioni registiche o dell’opulenza di Teatri
e della efficacia emozionale su pubblici plaudenti per la propria soddisfazione
estetica e per il proprio risanamento morale
[10].
Bruno
Schacherl parla di una nuova stagione brechtiana a patto di tre condizioni:
[…] La prima è che sorgano – sulle
scene, nelle biblioteche e negli archivi – gruppi di giovani capaci di
ripercorrere fino in fondo il tormentato cammino del drammaturgo […], nella sua
inimitabile concretezza e in tutti i risvolti storici, politici, teorici. […].
La seconda condizione, ed è forse la più importante, è che tutto questo lavoro
sia condotto dal punto di vista della storia travagliata del movimento operaio
e del suo dibattito storico. Senza Rosa e Lenin, Korsch e Stalin, Benjamin e
Lukàcs, Spartaco e Ulbricht, Marx e Mao, anche Brecht è incomprensibile […] La
terza condizione - ed è forse la più difficile, almeno in Italia – è quella delle
forze di massa capaci di mettere le gambe alle idee brechtiane: ossia la
costruzione di strutture culturali alternative e non integrabili, la proiezione
degli attuali grandi movimenti sociali sul terreno della gestione diretta dei
rapporti di comunicazione e quindi anche del teatro. Sono compiti estremamente
ardui, che qui posso solo indicare. Ma è da qui che si deve passare anche per
recuperare il vero significato che è la teatralità dell’opera di Brecht,
cioè il suo valore universale
[11]
.
Da
più parti si invoca la necessità di cogliere per Brecht la specificità del suo
linguaggio teatrale, nel senso indicato da Schacherl; ossia il modo in cui la
rete enormemente complessa delle mediazioni culturali si sciolga nel gesto
scenico, che è appunto l’atto mediante cui l’attore sdoppiato mostra
se stesso e la dialettica della storia, recita e si recita, parla ed è parlato,
ossia rischia tutto se stesso nella scommessa di un ipotetico rapporto critico
con il pubblico, che forse non ci sarà mai comunque, ma senza il quale tutto
ciò che egli dice non avrebbe senso.
In
altre parole, il problema è quello, già ribadito, del “metodo del teatro epico”
e della sua contemporaneità, per il quale il “segreto” di Brecht non sta tanto
nella tipicità di un linguaggio in cui ogni parola è diversa dalla pagina
scritta, quanto nel famoso e indiscusso effetto di straniamento, che è il solo
modo di cui dispongano i suoi personaggi per essere se stessi e nello stesso
tempo cominciare a cercare di non esserlo più, invocando perciò la modifica del
mondo che li ha fatti come sono. Lo straniamento, dunque, come secondo grado
dell’azione rivoluzionaria che aiuta a ipotizzare il passo che separa
l’istintiva coscienza della propria alienazione e la lotta per alienare
l’alienazione stessa, ricostruendo la propria unità morale.
Fig. 1: Teatro Stabile di Torino, stagione 1970/1971. Il Signor Puntila e il suo servo Mattidi Bertolt Brecht. Regia di Aldo Trionfo (traduzione di Nello Saito). Scene e costumi di Emanuele Luzzati. Rielaborazione delle musiche originali di Paul Dessau. Musiche di scena di Renato Sellani.
Nella foto: Corrado Pani, Aldo Trionfo, Tino Buazzelli (Immagini concesse dal Centro Studi - Teatro Stabile di Torino).
Aldo
Trionfo presenta la prima messa in scena italiana di Herr Puntila und Sein
Knecht Matti
[12] all’interno
di questo processo di rinnovamento, con piena consapevolezza della sua
operazione di rottura della doxa brechtiana; consapevolezza recepita
anche dalla critica militante, che segnala l’allestimento del 29 novembre 1969
al Teatro Alfieri, con significativi articoli di recensione: Torna Brecht
con “Puntila”
[13]
; Arrivano Puntila e la coscienza
[14]
; Brecht vive di Pani e Buazzelli
[15]
; Anche
Torino avrà il suo Brecht. Arriva il “Puntila” con un po’ di polemica
[16]
; dalle pagine di “Sette giorni”, Italo Moscati
annuncia il suo Trionfo rilancia Brecht, parlando di un’emancipazione
del drammaturgo (finalmente) “dalle nebbie dei devoti e dei militanti di scarsa
fantasia”
[17]
.
Fig. 2: Teatro Stabile di Torino, stagione 1970/1971. Il Signor Puntila e il suo servo Mattidi Bertolt Brecht. Regia di Aldo Trionfo. Foto di scena (Immagini concesse dal Centro Studi - Teatro Stabile di Torino).
Naturalmente
le posizioni sono diverse e contrastanti.
Arturo
Lazzari da “L’Unità” tuona contro “questo modo diverso di fare Brecht” che non
è un problema di adesione alla fedeltà del dramma ma piuttosto di contenuto che
“subisce, attraverso queste “innovazioni” rappresentative che sono più di stile
che di sostanza, un arretramento ideologico-politico nei confronti del testo
originale. […] Scartato il modello Brecht, Trionfo ne ha scartato anche
l’epico”
[18]
.
Sulla
stessa linea, Carlo Fontana, Raul Radice, Roberto De Monticelli e Giorgio
Simonelli che denunciano perplessità sulla chiave parodistica adottata da
Trionfo, per nulla adatta a “conservare a questa commedia popolare, tutta
quella carica di aggressività, di determinazione ideologica e, alla fine, di
rabbia, che il testo ha, nonostante la sua piacevolezza”
[19]
Fig. 3: Teatro Stabile di Torino, stagione 1970/1971. Il Signor Puntila e il suo servo Mattidi Bertolt Brecht. Regia di Aldo Trionfo. Foto di scena (Immagini concesse dal Centro Studi - Teatro Stabile di Torino).
[…] Ci domandiamo quanto i testi
di Brecht reggano a interpretazioni basate su parodie degradate di altri
generi. In altre messe in scena abbiamo visto interpretazioni parodistiche. Ma
in quelle c’erano mimesi ironiche e non c’era mai il gusto della degradazione.
Qui si tiene l’occhio della memoria attento magari ai remoti spettacoli di
rivista dei viennesi fratelli Schwarz ma poi certi atteggiamenti, certe mimiche
violente e volutamente volgari ricordano l’avanspettacolo. Ecco bisogna
stabilire se con Brecht il gioco funziona.
Fig. 4: Teatro Stabile di Torino, stagione 1970/1971. Il Signor Puntila e il suo servo Mattidi Bertolt Brecht. Regia di Aldo Trionfo. Foto di scena (Immagini concesse dal Centro Studi - Teatro Stabile di Torino) .
Simonelli,
in particolare, se da una parte registra lucidamente l’intenzione di Trionfo di
introdurre in Italia un nuovo Brecht, puntando su altre componenti della sua
opera, diverse da quelle finora messe in evidenza, quali ad esempio la sua verve
comica, agendo dunque in direzione opposta a quella streheleriana, dall’altra
si dichiara poco convinto che l’operazione sia veramente un “rinnovamento di
Brecht”
[20]
.
Guido
Boursier, Massimo Dursi, Alberto Blandi, Vincenzo Talarico, Nino Ferrero,
salutano invece il Puntila di Trionfo con entusiasmo, annunciandone la
novità:
[…] Va preparandosi il tempo
dell’estraniamento, ma le sue origini stanno già in parte nei suggerimenti
antichi del cabaret, del varietà e si dirameranno poi in più vaste direzioni.
Aldo Trionfo che ha messo in scena la commedia per la prima volta in Italia,
per lo Stabile di Torino, è là che risale scartando posizioni già guadagnate,
aggirando modelli illustri e ammonitori, forse sostenendo che è giunto il tempo
di farsi un proprio Brecht seguendo le lezioni ma con la libertà concessa dal
maestro negli ultimi tempi e quella che offriva nei primi
[21].
Di tale passo si va incontro a scomuniche. Trionfo approfitta non illecitamente
dei riferimenti al cabaret (o all’avanspettacolo) che vengono dal voluto
frammentarismo, per usare i canoni dell’estraniamento come buttafuori delle
soubrettes: le quattro fidanzate di Puntila. Con effetti azzeccati e
intenti acuti anche se appariranno empi a taluno. L’orchestrina posta in primo
piano negli esempi classici si tramuta in pianoforte che sta dentro la scena,
dietro i personaggi lui stesso. I nitidi oggetti di scena di Lele Luzzati (che
debbono aver sofferto assai a perdere la loro materia autobiografica trasudante
tempo ed esistenza) escono da tendaggi rossi e sontuosi astutamente “alienanti”
e che con l’altalena-trapezio, la cuoca-clown e altre cose ci riportano al
Varietà ma lasciando Puntila alla sua realtà sbronza. Lo spettacolo chiede
dunque di essere esaminato con la mente sgombra da sacrosanti dogmi
[22].
Fig. 5: Teatro Stabile di Torino, stagione 1970/1971. Il Signor Puntila e il suo servo Mattidi Bertolt Brecht. Regia di Aldo Trionfo. Foto di scena (Immagini concesse dal Centro Studi - Teatro Stabile di Torino) .
In
particolare, Guido Boursier dalle pagine della “Gazzetta del Popolo” parla di
un Brecht che si distende davanti agli occhi dello spettatore senza aggredirlo
come un sergente all’istruzione, senza dito puntato, senza le formule
imbalsamate del “Breviario di estetica”, senza quei balbettamenti, corollario
imprescindibile per taluni di recitazione straniata. Esplicito è il riferimento
al canone streheleriano, laddove si dice che non c’è più un “Brecht rappreso su
lividi fondali, senza sangue”. I rossi sipari di Luzzati avvolgono infatti il Puntila
in una scenografia che apre su ambienti stilizzati, dorature fasulle, cucine
lucidissime, trasparenti, illuminati come i film di Judy Garland.
Nell’allestimento
di Trionfo, Boursier vede “Brecht finalmente piombato in pieno teatro, in pieno
artificio e convenzione e citazione teatrale, a fare i conti col teatro e dal
teatro tirar fuori tutta la sua autenticità, la sua vena di corrosione e di
denuncia della realtà ma che con la realtà s’impasta vigorosamente, con
consapevole, lucida e terribile allegria”
[23]
.
Si
schiera con l’operazione dell’Ingegnere il triumvirato dello Stabile torinese:
Nuccio Messina, Giuseppe Bartolucci, Federico Doglio, insistendo sui caratteri
di “popolarità”, “comunicatività”, “divertimento”
[24]
dello spettacolo e sottolineando la novità
rispetto al lavoro condotto sui testi brechtiani da altri registi e da altri
Stabili. Bartolucci, in particolare, in un’intervista rilasciata su “L’Unità”
di Roma, parla di “liberalizzazione del teatro del drammaturgo di Augusta,
delle nuove possibilità di sperimentare su di esso, spregiudicate soluzioni
anche formali, fuori del monopolio di fatto instauratosi al riguardo, in
Italia, per diverso tempo”
[25]
.
Naturalmente,
si diceva, c’è poi, sopra tutto, la lucida consapevolezza del regista sul senso
del lavoro compiuto sull’opera del drammaturgo bavarese. In un’intervista di
Nino Ferrero, Aldo Trionfo dichiara il suo scarto rispetto all’”accademia
brechtiana”, a suo parere completamente infedele allo spirito, alla lettura, ai
significati dei testi dello scrittore di Augusta. Soprattutto però denuncia la
sua linea esegetica, attenta al confronto con la mutata sensibilità
contemporanea:
Fig. 6: Teatro Stabile di Torino, stagione 1970/1971. Il Signor Puntila e il suo servo Mattidi Bertolt Brecht. Regia di Aldo Trionfo. Foto di scena (Immagini concesse dal Centro Studi - Teatro Stabile di Torino) .
[…] É mia intenzione attuare una
“lettura” di Brecht il più fedele possibile al suo testo, leggendolo quindi per
quello che è. Ciò non significa ovviamente riprodurlo, anche scenograficamente,
come vent’anni fa; tutto questo tempo non è trascorso inutilmente; le nostre
condizioni oggi sono molto diverse; il nostro occhio è abituato diversamente;
la nostra sensibilità è mutata. Ciò non toglie che io pensi di ritrovare in
questa lettura mia del testo, il più fedele possibile all’originale e non alle
sue precedenti edizioni o anche ad altri allestimenti brechtiani, una ragione
dello spettacolo
[26].
In evidente imbarazzo e polemiche o in entusiastica
accoglienza, le recensioni segnalano comunque la novità, la rottura dell’allestimento
torinese: tecnica dei quadri sciolti, del cabaret, delle scenette, una serie di
quinte, provviste di altrettanti sipari, velluti rossi, ottoni rilucenti, luci
tonde e mobili dei riflettori a occhio di bue, un pianoforte sempre in vista in
fondo alla scena, pochi ed essenziali oggetti ammassati progressivamente in
ogni quadro fino alla confusione totale dell’ultima sequenza. Attori, canti,
dialoghi e pantomime accomunati da un ritmo vertiginoso
[27]
.
Una lettura attenta è quella di Gabriele Tacchini:
Lo spettacolo si articola in due
tempi, ma praticamente è composto di dodici piccoli atti, legati l'uno l'altro
da uno stesso motivo conduttore, ma anche completamente autonomi come storia. E
la regia di Aldo Trionfo, evitando la ricerca di un’unità scenica che potrebbe
risultare non aderente, accentra il distacco tra un quadro e l'altro quasi a
voler dichiarare la sua adesione al montaggio tipo music-hall che in questo
caso si dimostra veramente efficace o comunque degno di essere posto in rilievo
[28].
La
cifra stilistica del cabaret, della rivista, dello spettacolo italiano di arte
varia è colta in modo unanime dalla critica; come pure le citazioni filmiche,
la charlottiana Luci della città, in primis, fonte principe, ma
anche il cinema delle comiche (di Keaton, la coppia Laurel-Hardy) e dei
fratelli Marx. Simonelli, in particolare, individua nella forma della rivista
la risposta di Trionfo a due esigenze principali: la familiarizzazione con il
pubblico e l’autonomia di ogni singolo momento
[29]
.
D’altra
parte, nella sua prefazione al Puntila, Brecht stesso dice che “è
tutt’altro che un’opera a tesi”:
In nessun momento e sotto nessun
aspetto la parte di Puntila dovrà essere spogliata del suo fascino naturale;
sarà necessario un attento studio per rappresentare poeticamente, delicatamente
e con un massimo di variazioni, le scene di ubriachezza, e meno grottesche e
brutali che sia possibile, quelle di snebbiamento. Per intenderci: bisognerà
tentare di conferire al Puntila uno stile in cui siano fusi elementi della
commedia dell’arte insieme con elementi del dramma realistico di costume
[30]
.
E
davvero opera su questa linea Aldo Trionfo, in questa realizzazione che tiene
conto sì e no di talune raccomandazioni dell’autore, procedendo per una strada
che pare logico sviluppo linguistico, quindi corretta adeguazione al gusto
moderno di una commedia che la sua stessa ricchezza di citazioni dal teatro,
consente un arricchimento delle citazioni stesse, assicurandoci della
contemporaneità di Brecht.
Trionfo
ha sviluppato, portandoli a conseguenze impreviste, con invenzioni, gags,
richiami figurativi al clima degli anni Trenta, della Fougez e di Paul Poiret,
i semi sparsi di Brecht nel suo saggio sulle ragioni di Puntila. E con
la coscienza di un Volksstück tutto cittadino, pur sempre condito di
villici e possidenti, ha percorso l’equazione teatro popolare-rivista come
ipotesi reale e concreta per conferire popolarità a un lavoro essenzialmente di
testa, traducendolo nei termini popolari a lui più noti e familiari sul piano
scenico. Un’intenzione denunciata già nel libretto di presentazione del Puntila
dove si dichiara che
[…] lo spettacolo viene proposto
sulla falsariga di un varietà a “numeri chiusi”, dove ogni scena è di per sé un
piccolo spettacolo, con un inizio e una fine, con una sua storia autonoma.
L’aprirsi e il chiudersi dei grandi sipari, separano e sottolineano le varie
situazioni. La presenza di oggetti, che si richiama continuamente allo
spettacolo di “arte varia”, serve a chiarire il comportamento dei personaggi;
essi non sono mai “scenografia” tranne nel quadro della “cucina” (finale I
parte) e nel quadro della “biblioteca” (finale II parte)
[31]
Preso
atto dunque che il Puntila è una commedia fatta di un certo numero di
scene a sé stanti, tutte autonome e autosufficienti, dove ognuna contiene
integralmente il discorso complessivo dell’opera e costituisce, di fatto, una
diversa variazione cromatica su un unico tema (Puntila che propone
continuamente una tentazione a Matti e Matti che la respinge), Trionfo taglia
il copione sulla campionatura di dodici “sketch” totalmente irrelati. Come
scrive Claudio Longhi “Un Brecht, fatto a pezzi, trascritto sul pentagramma
dell’avanspettacolo, secondo una chiave che richiama le caleidoscopiche kermesse
della Borsa genovese”
[32]
ma ancora di più, come dichiara lo stesso Trionfo,
l’esperienza del Synket:
Per quanto mi riguarda
personalmente, penso di essere arrivato a rendermi conto sul vivo di che cosa
sia lo straniamento quando, alcuni anni fa, proprio mentre rileggevo il teatro
brechtiano, inscenai a Roma un vero e proprio spettacolo di arte varia, Synket.
Considero questa l’esperienza che più mi ha aiutato nella messinscena di questo
Puntila
[33].
Ma
nonostante l’isolamento e l’autosufficienza delle diverse scene, permane comunque
un riferimento all’insieme, secondo una tecnica che Jean-Claude François
analizza bene per Madre Courage negli allestimenti del 1949, del 1950,
del 1951
[34]
. Si tratta di isolare nell’azione degli atomi che
poi si concatenano ad altri atomi della scena successiva così da fare dello
spettacolo un foisonnement, un tableau dove ha significato ogni
centimetro quadrato. In Trionfo, questi atomi sono rappresentati da due dati:
alcuni oggetti scenici come i bauli che i personaggi si tirano dietro a ogni
comparsa sul palco; una specifica scelta registica che anticipa o riannoda
significati di sketch precedenti o successivi.
Paradigmatico
esempio di questa colossale opera di montaggio combinatorio è la scena dei Racconti
di Finlandia (quadro VIII), quella in cui le quattro aspiranti fidanzate di
Puntila, cacciate dalla fattoria di Kurgela, durante il viaggio di ritorno a
casa, narrano vicende di “sfruttati”. Eliminata ogni dimensione corale, il
regista presenta il quadro frammentato, diviso schematicamente in sei “numeri”,
tutti presi per sé: l’antefatto, i quattro racconti, l’epilogo. Non solo. Nella
messa in scena torinese, ciascuna delle quattro interpreti delle fidanzate
agisce in completa autonomia. Secondo la logica dell’esibizione, la
Marescalchi, l’Ambesi, la Carbonetti e la Cardile non si ascoltano, non si
rispondono, non condividono l’esperienza
[35]
.
Enrico
Groppali registra lucidamente che
I racconti delle donne non sono né pezzi didattici né
episodi edificanti; diventano “canzoni”. [...] La canzone favola è lividamente
doppiata da quattro impeccabili sciantose-caratteriste che rifanno il verso
alla retorica sdolcinata del song mentre il raggio di luce del riflettore le
esalta come vedettes e ancor più le isola separando individuo da indivduo,
emozione da emozione. Se le sciantose cantano per dimenticare, Puntila si
sbronza
[36]
Ma
la scelta espressiva e scenica è significante di una precisa posizione
ideologica: la messa in evidenza del rapporto fruttuosamente ambiguo tra il
testo e il comportamento dei personaggi. Nel quadro VIII, ognuna delle quattro
donne racconta una storia triste, parte della propria esperienza personale.
Eppure il loro comportamento, nei quadri precedenti, tocca vette di parossismo
e gaiezza esilaranti: è operetta viennese la scena delle casette ed è pura
farsa quella in cui si presentano a casa di Puntila come fidanzate.
Nell’intenzione del regista esse hanno “consapevolezza del loro stato ma
davanti alla tentazione di un’evasione, non sono in grado di difendersi, cioè
di passare all’azione o almeno al rifiuto”
[37]
. I quattro racconti diventano così un ritorno alle
loro origini autentiche, un controcanto ideale, vuoto però, perché
completamente divaricato rispetto al loro reale comportamento in scena. E così
le loro pietose storie di sfruttati sono interpretate con il valore del mito,
nei modi però imposti dalla società. Quindi una mitizzazione di tipo
hollywoodiano o “da giornale femminile” per le prime tre attrici (la creazione
di desideri impossibili che permette di accettare le evasioni possibili);
mentre per la quarta interpretazione c’è una resa più eroica, di sinistra. A
ogni modo, l’intento è identico: quello di mostrare il contrasto tra le storie
di sfruttati che le ragazze raccontano e quella mitizzazione di sé che è forma
di comportamento attraverso cui esse mettono in luce la loro sostanziale
sterilità. Ogni racconto è presentato dunque come numero staccato, esibizione
personale, solipsistica, accolta con indifferenza dalle compagne, proprio
perché le ragazze vivono ognuna chiusa in sé e consumano la lacerazione tra
mondo mitico che si sono fabbricate e storia nella quale vivono e agiscono. Ma
così congegnato, il quadro VIII funziona anche da anticipazione, da
“preparazione” raggelata e amara delle conversazioni tra l’Avvocato, il Pastore,
il Giudice nel salotto di Puntila (quadro IX), i cui racconti sulla
“cattiveria” dei poveri, sulla loro “avarizia”, sono il diretto corrispettivo,
parossistico però, delle storie eroiche narrate dalle quattro fidanzate. Non
solo. L’annullamento della dimensione corale della scena dei Racconti di
Finlandia annoda il quadro VIII alle vicende del III “numero”, l’incontro
cioè delle quattro donne con Puntila, che avviene, per ciascuna, con tempi e
modi diversi, come pure è autonomo il narrato del loro amaro e faticoso
trascorso esistenziale. E così lo straniamento opera attraverso un crudele
teatro anatomico tutto “riflesso”, che si nutre di echi e rimandi, per
analizzare, ridendone amaramente e con lucidità, le debolezze umane. Ma si badi
bene: non si tratta in nessun caso di “proletariato senza coscienza critica”,
come l’assistente alla regia, Alessandro Giupponi, riferisce a proposito delle
quattro fidanzate di Puntila
[38]
. Piuttosto, come dichiarano i loro stessi racconti
eroici, esse sono da mettere in stretta relazione agli operai di Santa
Giovanna dei Macelli, quelli coinvolti negli episodi che la protagonista
contempla insieme a Mauler; episodi che dovrebbero testimoniare l’abiezione
degli oppressi e la vanità di ogni sforzo per salvarli. In realtà, il senso
dell’operazione di Trionfo è tutto nella frase di Giovanna: “Non la malvagità
dei poveri m’hai tu mostrato ma la povertà dei poveri”. E lo stesso vale per i
braccianti del mercato. La figura che viene fuori è piuttosto quella del
resistente passivo, del disincanto come unica possibilità di sopravvivere. E il
lavoro registico dell’Ingegnere, attraverso le qualità e i connotati
esistenziali dei suoi personaggi, altro non è che preparazione graduale e in
crescendo della vicenda dell’esistenzialismo come responsabilità, come giusta
capitolazione, incarnata alla fine dal congedo di Matti da Puntila ma in
nuce già nei personaggi delle quattro fidanzate all’inizio, nei lavoratori
del mercato delle braccia poi, nelle serve di casa durante l’esame di Eva,
nell’operaio Surkkala che vuole consumare il licenziamento davanti ai figli
“perché meglio che ascoltino anche loro, non gli farà male” e infine, nel
quadro XII, in Matti
[39]
.
L’umana
gentilezza e correttezza vengono messe a confronto con uno stato di cose che
deve determinare necessariamente o la fine dell’uomo “perbene” o la sua
capitolazione. Ma il drammaturgo di Augusta distingue decisamente tra la
“giusta capitolazione o capitolazione apparente”, che poggia sull’astuzia o sul
disincanto responsabile e aspira a proclamare la verità ad onta delle
difficoltà, e le chiacchiere bonarie che rimangono senza effetti, incapaci di
dialettica, di coscienza, per sboccare infine nella più miserevole abdicazione
[40]
. Il servo Matti è colui che sceglie la prima via
[41]
, la stessa che percorre, seppure in una forma,
necessariamente scissa, Shen Te. Il tema è lo stesso di Madre Courage e
di Santa Giovanna dei Macelli: volontà oggettiva di essere buona o
partecipazione alla creazione delle premesse oggettive della bontà umana.
Giovanna capisce come stanno le cose, Madre Courage no. E Shen Te? Shen Te è
l’anima buona del Sezuan, la prostituta, la baiadera che incontra gli dei. Gli
dei però sono impotenti, le cose per loro vanno male e la parabola scenica è la
dimostrazione di questa impotenza; questo perché è un dramma dell’immanenza,
non della trascendenza. Gli dei, nel Sezuan, dato che essi non sono
“interessati” nel senso più autentico della parola, non trovano nessuna
sistemazione. Ma il Sezuan non è altro che la società moderna, scissa, plurima;
nemmeno diversa dalla Mahagonny di alcuni anni prima o dalla Finlandia di
Puntila. Il Sezuan è dunque un modello: è il mondo moderno in cui un’anima
buona deve andare a fondo. L’unica soluzione che si presenta è allora la
scissione della personalità con l’invenzione del cugino Shui Ta, che non è
affatto il cugino cattivo, ma, come ben chiarisce Hans Mayer, il “cugino
realista”.
Si fraintenderebbe completamente
il dramma se lo si vedesse altrimenti. La scissione delle personalità non
significa che lo spettatore possa credere in un momento qualsiasi che Shui Ta è
veramente Shen Te. È naturalmente sempre Shen Te che si è trasformata nel
cugino: un’anima buona che si sforza nel mondo reale di essere buona per quanto
è possibile (corsivo mio), e che anche in forma di cugino prova la terribile
tentazione della bontà e anche la terribile tentazione dell’amore, quando
incontra l’aviatore
[42]
.
Dunque,
dato che gli dei non possono dare aiuto, Shen Te rimane perplessa in terra; ma
l’epilogo conclude su una perplessità voluta e fittizia perché la soluzione la
si deve intuire: finché ci sarà un Sezuan, una Mahagonny, una fattoria di
Kurgela, l’anima buona dovrà sempre trasformarsi nel cugino cattivo.
La
stessa scissione la conosce Puntila con le sue crisi di lucidità e le sue
sbornie
[43]. Una
scissione che è unica forma di realismo e di sopravvivenza nel cinico mondo
degli affari, così come l’abbandono disincantato di Matti è sola possibile
risposta. Ma si badi bene: quella di Puntila non è uno schizofrenia inconsapevole,
come alcuni critici hanno sostenuto. Superficialmente accattivamente, “buono”,
quando ha in corpo la grappa, schiavista quando è sobrio, in realtà questo
latifondista non si spacca mai. Il signor Puntila, infatti, guidato da istinto
infallibile, non commetterebbe mai lo sbaglio di firmare un contratto o di
stipulare una compravendita durante le sue lunghe sbornie. E anche
nell’ebbrezza egli riesce ad affermare che “quello che importa a te è comunque
di avere del lavoro, ma sono io che devo incanalarlo a una meta utile”
[44].
Di
fatto, le poche, pochissime ore di lucidità gli sono sempre sufficienti per
esercitare la sua “missione” di padrone del vapore. Ecco il realismo di
Puntila. Come a dire che il capitalismo è fornito di una lucida coscienza che
sa tenere rigorosamente separati gli affari dagli slanci del cuore. Usando
parole di Paul Rilla e non di Brecht “l’uomo buono, sotto la dura scorza del
possidente capitalistico non deve essere preso sul serio, poiché esso non è
serio, bensì ubriaco. E la speranza sociale che si basa sulla bontà dei ricchi
è speranza vana che deve svanire come una sbornia”
[45]
. La differenza capitale con Chaplin di Luci
della città, è che lui, Puntila, resta sempre simpatico anche quando gli
passa la sbornia. Ed è autentico quando loda boschi e laghi, il cielo stellato,
la sua natura finlandese (quadro X); perché, certamente, dalla sua
prospettiva la vita è proprio bella. Di fatto meno simpatico è Matti, perché
“non raggiunge la poesia”, non si emoziona patriotticamente quando, nella
scalata al monte Hatelma, prende “possesso visivo” della natura, delle colline,
delle acque del Signor Puntila. Perché è solo un dettaglio il fatto che quella
bellezza sia personale proprietà del latifondista.
Sembra
trasparire una pungente critica al sentimentalismo, critica che, lungi
dall’auspicare la cancellazione dei sentimenti, li rilancia quali sono
realmente: conseguenze di cause oggettive, e non cause di effetti oggettivi.
Ecco una scena illuminante. La scena del pranzo nuziale (quadro IX): in preda
alla sbornia e alla bontà, Puntila ha messo alla porta in quattro e quattr’otto
un fatuo diplomatico che era fidanzato della figlia e ha deciso che questa si
sposi con Matti. La ragazza, alla quale Matti piace, è contenta. Matti, che è
ora dalla parte del più “forte”, si fa pregare, è esigente e la sottopone a un
esame: se ella risponderà a dovere, lo sposerà. L’interrogatorio è stringente,
lucido. Eva si dichiara disposta a tutto: ma non è una resa. L’episodio è
ambiguo: l’amore vi occhieggia da ogni lato. Se Matti ci creda realmente, non
importa indagarlo: anche se incredulo, anche se è certo che quelle
dichiarazioni sono frutto di un ostinato capriccio al pari delle bizzarrie di
Puntila, asseconda l’illusione. Ma in un ilare impulso di sincero affetto,
colpisce con la mano aperta i posteriori dell’ereditiera. Improvvisamente
costei s’irrigidisce e dandogli del lei, gli dice: “Come si permette?”. Rotta
l’illusione. È bastato un niente a distruggere i dominii del sentimento: un
nulla per sfatare una realtà che il sentimento aveva preteso di costruire
ergendosi a causa, mentre in verità esso altro non è che un effetto.
Di
fatto, nel lavoro brechtiano, la dialettica servo-padrone è colta nei labili
incroci che sono le reazioni psicologiche, dove approdano in ultima analisi i
rapporti umani.
Matti
allora non cede al sentimentalismo della sua terra, della sua patria, del suo
ceppo nativo, perché capisce che vincere Puntila al cuore non è neutralizzarlo
e comunque non significherebbe nulla. Finché Puntila resterà il padrone, i
rapporti di proprietà poetica tenderanno sempre a coincidere con i rapporti di
proprietà reale. La poesia del popolo sarà tale soltanto quando il popolo non
dovrà limitarsi a prendere possesso visivo di ciò che, comunque, dovrebbe appartenergli.
E così si spiega perché, nelle recensioni, Pani si dice sempre sovrastato da
Buazzelli, in “frigido equilibrio senza illusioni”
[46]
, con “pose di sarcastica attesa e l’atteggiamento
fastidioso del giudice”. Scrive Giorgio Prosperi:
A volte sembra addirittura una
presenza al di fuori della commedia e fatalmente una presenza retorica, e cioè
non un personaggio che alla fine non senza sforzo umano esce dal gioco, ma che
non c’è mai entrato
[47].
In realtà Matti è “freddo e spigoloso”
[48]
, perché tale deve essere, per incarnare in modo
adeguato il disincanto del resistente passivo. Perché, come Puntila, anch’egli
è realista, ma lo è per mancanza di mezzi del potere che “permette anche gli
sbagli”, perché non ha l’angolo della sbornia in cui ritirarsi quando le cose
volgono a suo sfavore. E Matti è allora come il reduce Klager di Tamburi
nella notte e come Schweyk nella seconda guerra mondiale: la fuga
dalla storia (dell’espressionismo e non solo) nel primo caso o l’adesione
passiva alla tirannide nel secondo, sono aspetti di una stessa logica: rivelare
la sterilità dell’urlo di rivolta, sbigottire i carnefici e renderli impotenti.
Fig. 7: Teatro Stabile di Torino, Tamburi nella notte di Bertolt Brecht. Regia di Aldo Trionfo. Scene di Roberto Francia ed Emanuele Luzzati. Produzione del Teatro Stabile di Bologna (Immagini concesse dal Centro Studi - Teatro Stabile di Torino) .
E su questo punto c’è il fil rouge che lega
la messa in scena di Tamburi del 1964, per lo Stabile di Bologna e il Signor
Puntila e il suo servo Matti: la ragione di un’ininterrotta indagine
condotta sull’ambiguità, sul tema brechtiano della mostruosità dell’ordinario.
Un tema condiviso da Trionfo perché strutturalmente integrato al suo teatro,
fin dagli esordi concepito essenzialmente come manifestazione-espressione di
aggressione reciproca, cioè trascrizione di quell'infinita serie di modi di
rapporti tra individui per mezzo dei quali gli individui stessi si fanno rivali
e sono resi gli uni contro gli altri, come persone e come gruppi [49].
E da qui discende quell’operazione continua, tipica di Trionfo, di trafiggere
il linguaggio letterario per scovare le crepe o le continuità di un
comportamento, le ambiguità delle relazioni. La cui trascrizione avviene per
suggestioni concentriche e convergenti, a senso stratificato, che si armano
l’una contro l’altra sia tecnicamente che drammaturgicamente. Oppure per
contaminazioni e citazioni di forme e mezzi esclusivamente teatrali
(naturalismo, romanticismo primariamente), attualizzate. Contaminazioni operate
usando sia proiezioni individuali/collettive sia riferimenti personali
piuttosto che specifici, degli attori o dei personaggi, con un raccordo poi
fornito nello spettacolo da riscontri su un piano estetico, storico, morale,
sociologico ma anche oggettuale, scenico, illuminotecnico
[50]
. Citazioni e contaminazioni infinitamente
mitizzate e smitizzate dunque, e per questo neutralizzate nella loro
possibilità di danneggiare la narrazione; tuttavia, sono esse stesse quelle
proiezioni che riflettono le ambiguità dei rapporti tra individui. Ambiguità,
dunque, si diceva, come nodo del lavoro di Trionfo su Brecht. Non è un caso
allora la scelta di Tamburi della notte, definita dallo stesso autore
come la più “ambigua” delle sue prime opere teatrali, quella in cui “lo spirito
di contraddizione ha spinto il drammaturgo fino al limite dell’assurdo”
[51]
. Opinione condivisa anche da Arturo Lazzari che
dalle pagine de “L’Unità”, in occasione dello spettacolo del 1964, parla di
“testo ambiguo, percorso da un’amara ironia che è anche autoironia”, di cui
Brecht si serve per comunicare l’impossibilità di comprendere il comportamento
degli uomini nella realtà sociale. Emblematico esempio è tutto il terzo atto,
intitolato Cavalcata delle valchirie, dove l’epos germanico è messo
quasi con sadismo nella dimensione più antieroica, e non per nostalgia
dell’eroica, bensì per dimostrarne la totale, reale distruzione; per farne
piazza pulita
[52]
. Il punto è sempre quello del disincanto come
presa di coscienza sulla realtà; una presa di coscienza che se vuole tornare a
essere realistica, deve essere in grado di guardare con occhi lucidi e
distaccati, tutto ciò che si nasconde sotto la superficie delle cose. I mostri
che si agitano nelle coscienze individuali e le fragili basi delle istituzioni
sociali
[53]
Fig. 8: Teatro Stabile di Torino, Tamburi nella notte di Bertolt Brecht. Foto di scena (Immagini concesse dal Centro Studi - Teatro Stabile di Torino) .
Come osserva acutamente Alberto Blandi che mette in
relazione i due spettacoli brechtiani di Trionfo:
In Tamburi della notte era
ambiguo il personaggio del reduce che ai rischi della rivoluzione preferisce il
tepore di una grigia esistenza borghese, qui è ambiguo il rapporto
servo-padrone a conferma che il peggior nemico sono le piccole cose e che la
natura, la gioia di vivere, i piaceri più innocenti possono aprire altrettanti
trabocchetti
[54].
Fig. 8: Teatro Stabile di Torino, Tamburi nella notte di Bertolt Brecht. Foto di scena (Immagini concesse dal Centro Studi - Teatro Stabile di Torino) .
Più radicale ancora Renzo Tian che vede il Puntila
come commedia a doppia faccia, dove l’ambiguità è chiave di volta di una
possibile spiegazione del mondo. Infatti non solo è ambiguo il gioco delle
parti servo-padrone ma a doppia faccia sono tutti i personaggi principali: il
proprietario terriero, del quale è più difficile dire se sia lui stesso durante
le crisi di sobrietà oppure durante le sue felici incursioni nell’ebbrezza;
così come l’autista Matti che, da un lato accoglie compiacentemente e quasi
complice, le stravaganti richieste del padrone, dall’altro, sa far parlare la
sua dignità quando gli ricorda che, anche se ridotto a fare da banderuola, si
tratta pur sempre di una banderuola di ferro
[55]
.
Fig. 9: Teatro Stabile di Torino, Tamburi nella notte di Bertolt Brecht. Nella foto: Ruggero Miti, Maria Stanzani, Luigi Montini, Mirella Gregori (Immagini concesse dal Centro Studi - Teatro Stabile di Torino) .
In realtà, il senso di queste considerazioni è
nelle indicazioni che lo stesso Brecht fornisce per i suoi personaggi, come
Puntila, per esempio, che deve essere oggetto “di un attento studio per
rappresentare poeticamente, delicatamente e con un massimo di variazioni, le
scene di ubriachezza, e meno grottesche e brutali che sia possibile, quelle di
snebbiamento” questo perché, come fa notare François, c’è una ricchezza contraddittoria
ineliminabile nei personaggi
[57]
brechtiani che non è un aspetto de l’”humanité
éternelle” ma un “phénomène historique”. A proposito di Madre Courage ma
lo stesso vale per Puntila, anzi per Matti, François rileva che
Le tragique de Mère
Courage et de sa vie réside dans la présence d’une épouvantable contradiction,
qui est surmontable, mais seulement par la société et au terme de terribles
luttes[58]
Fig. 10: Teatro Stabile di Torino, Tamburi nella notte di Bertolt Brecht. Nella foto: Graziano Giusti, Mimmo Craig, Andrea Matteuzzi (Immagini concesse dal Centro Studi - Teatro Stabile di Torino) .
E così è chiaro per l'allestimento di Puntila
il senso dell’adesione ai modi della rivista, del cabaret perché qui
l’azione/lavoro si manifesta attraverso citazioni di un fare teatro non
borghese, “popolare” e di rapporti analizzati dialetticamente, in grado di
determinare un'espansione di divertimento comunicativo per paradossalità, per
ambiguità di comportamento dei personaggi [59].
Tratti sostenuti anche dalla specifica scelta
musicale che, isolando il pianista Sellani sul fondo della scena,
contribuiscono a rendere evidente il passaggio a un altro livello estetico,
quello sonoro appunto, inficiando l'impressione che “les chants sortent
organiquement de l'action”. E se si tratta di una modalità espressiva in
parte mutuata dalle indicazioni del Modellbuch (“Les musiciens sont
pas dans une fosse d'orchestre mais dans une loge sur la côté de la scène, donc
visible”
[60]),
quindi utile a straniare [61],
dall'altra si ha a che fare, invece, con una dinamica tutta interna al teatro
di Trionfo e alla sua matrice ebraica, da riferire, in particolare, a quel tema
dell'iconoclastia che proclama un uso visivo del suono e fa della musica
un'alternativa alle immagini, perché in grado di declinare e ricapitolare senza
posa i momenti di quell'improvvisa rottura del silenzio che fu la creazione. E
riproduttive per essenza, esse diventano il solo tentativo di rappresentare
quel che non può essere rappresentato, vale a dire l'essenza trascendente del
reale
[62].
Sicuramente c'è in queste scelte espressive anche
il riferimento a quell'estetismo, così connaturato al fare di Dado, che Franco
Quadri collega al concetto di “gioco” e a quel senso di “giovinezza ferita”,
tipica soprattutto dei suoi spettacoli elisabettiani, per la quale esiste una
bellezza da sprecare nella corsa contro il potere, confusa con la vita e la
morte di chi popola le sue storie
[63].
Fig. 11: Teatro Stabile di Torino, stagione 1970/1971. Il Signor Puntila e il suo servo Mattidi Bertolt Brecht. Regia di Aldo Trionfo. Foto di scena (Immagini concesse dal Centro Studi - Teatro Stabile di Torino) .
A unificare il tutto in Puntila invece
intervengono gli oggetti scenici, come i già citati bauli, che si rimandano nei
diversi quadri; il oppure il leitmotiv dei colori del rosso, del verde e
dell’oro, presenti in ogni scena. Ritornano poi elementi simbolici parte della
biografia e del repertorio percettivo del regista come la catasta dei mobili
che costruisce il monte Hatelma, dalla cui vetta, Puntila contempla, con
l'arroganza del potere, l'intera Finlandia. Mobili accatastati che sono
citazione diretta del Golem di Luzzati per la regia di Fersen e che si
ritroveranno poi anche nel Gesù come simbolo del potere a significare il
Golgota, la Sinagoga
[64]. E
non si tratta di un caso. In effetti, la montagna luzzatiana, costruita con
oggetti prelevati dal quotidiano e assemblati per ekphrasis,
destrutturando quindi il ruolo originario dell'oggetto, per realizzare una
specifica immagine da trasferire al pubblico
[65],
Fig. 12: Emanuele Luzzati, Bozzetto del Golem, Regia di Alessandro Fersen, Museo Biblioteca dell’Attore, Genova, Fondo Fersen.
ritorna nei tre spettacoli con la stessa valenza: essa
è simbolo dell'oppressione e del dramma del potere. Esemplificativo, in questo
senso, è l'ambiente costruito per lo spettacolo ferseniano del 1969. Nel Golem
[66],
Luzzati crea un’unica scena che rappresenta, nella
parte superiore, la corte e in quella inferiore il ghetto, usando come
oggetto-modulo la sedia, incardinata in una struttura piramidale. L'effetto è
lo stesso della catasta di mobili del monte finlandese.
Ma la scena unica e la piramide in realtà servono a
Luzzati a rendere evidente l'idea alla base dello spettacolo: “si tratta di un
dramma sul potere e sugli ebrei oppressi nei ghetti”
[67]
E in questa funzione, anche l'oggetto-sedia conosce gradazioni. Alla base della
struttura sono infatti seggiole piccole, rotte e scure. Man mano che la
piramide cresce e si arriva alla sommità, le seggiole diventano più belle e
spaziose fino a giungere alle tre poltrone che circondano il trono del re,
posto al culmine. “L'obiettivo è rendere chiaro un concetto e cioè che il
potere sta in alto e tutte le gerarchie in basso, fino ai tuguri del ghetto”
[68].
Fig. 13: Emanuele Luzzati, Bozzetto del Golem, Regia di Alessandro Fersen, Museo Biblioteca dell’Attore, Genova, Fondo Fersen.
Si tratta del tema del Puntila, la cui
ambiguità più rilevante è questa invasione stratificata del reale, al di là
della semplice dialettica servo-padrone. La coppia sfruttato-sfruttatore non è
di semplicistica opposizione, di netta dicotomia ma Trionfo varia
acrobaticamente la particolare angolazione per disegnare un confronto assai più
intrigante: quello fra “esseri umani”.
In questo senso, allora, il Puntila di
Trionfo è davvero teatro popolare, e proprio nella specifica declinazione
brechtiana di “scuola per ingannare tutti coloro che dispongono della capacità
inferiore d'ingannare se stessi o di farsi ingannare”
[69].
Come pure con Brecht è la tendenza alla mescolanza dei livelli di stile, al
continuo ricambio fra tensione tragica e gioco intellettuale della comicità. La
mostruosità dell'ordinario viene però sviluppata invertendo il meccanismo di
straniamento: nella messa in scena di Trionfo non c'è il quotidiano che diventa
estraneo, facendo dunque esplodere “l'abitudine all'abituale”
[70];
è l'inquadramento artificiale a diventare reale (sipari, luci...) mentre gli
oggetti ordinari sono mostrati come estranei: presentati a un uso, essi vengono
impiegati per un altro. Carlo Fontana parla in questo senso di “straniamento
per autosmontaggio”
[71].
Il punto è che esiste “un'universalità” di Brecht
che è nella sua matrice marxista e razionale, la quale non costruisce mai eroi
ma semplicemente analizza il meccanismo che regola la società capitalista.
Brecht “rivela” chiunque ne parli. Misurarsi con questo autore significa
assumere e manifestare una precisa posizione perché se è vero che è stato
sconfitto il mostruoso disegno hitleriano, “il ventre da cui nacque è sempre
fecondo”: sono rimaste cioè le condizioni che ne hanno permesso la nascita e
soprattutto è rimasta la minaccia reificante di un sistema che
sotterraneamente, giorno per giorno, distrugge la personalità dell'individuo,
lo emargina in funzione di un anonimato, lo cattura con “nuovi riti e nuovi
miti”. E allora giusto ogni aggiornamento; giusto il Brecht di Trionfo che
risale alle “minime” annotazioni del comportamento, attraverso un'analisi
concentrica di momenti diversi in individui e gruppi sociali per “aggirare” e
“circondare” l'aggressività intersoggettiva che regge il mondo borghese”
[72];
giusto ogni straniamento dialettico
[73]
che svolge un discorso sull'alienazione dell'uomo e
cioè un discorso sull'uomo come essere sociale e politico alla ricerca
delle contraddizioni che lo muovono, affinché lo spettatore possa uscire da
teatro con la volontà di agire perché il mondo non sia più come lo ha appena
visto. Il recupero dei valori deve avvenire su tutti i piani, linguistico e
ideologico, attraverso un'opera di demistificazione senza posa, perché, a dirla
con Jameson, seguito da Claudio Longhi, la didattica brechtiana è più questione
di metodo che di messaggio
[74].
Note
[1]
E. Capriolo, Brecht come bandiera, medicina e strenna, “Sipario”,
dicembre 1970, p. 15.
[2]
L’espressione è di Bruno Schacherl nel suo articolo Per Madre Courage,
in B. Schacherl, Il critico errante. Anni Sessanta e dintorni a teatro in
cerca di storia, Le Lettere, Firenze, 2005, p. 101
[3]
Nel giugno 1969 viene data alle stampe a Milano la traduzione italiana di Theaterarbeit
di Brecht (Berliner Ensemble - H. Weigel, Theaterarbeit, fare teatro. Sei
allestimenti del Berliner Ensemble, Il Saggiatore, Milano, 1969), cui fa
seguito, nel marzo successivo, la pubblicazione di F. Ewen, Bertolt Brecht.
La vita, l'opera, i tempi (1967), prefaz. di P. Grassi, Feltrinelli,
Milano, 1970. Nel luglio del 1970 esce Per conoscere Brecht, a cura di
R. Fertonani, Mondadori, Milano, mentre a dicembre dello stesso anno, compare Del
classico B.B. I testi del “Brecht-Dialog” 1968, a cura di A. Lazzari, ed.
Guanda, Modena, 1970
[4]
Monopolio fondato su di una sorta di investitura
morale di Strehler a garante per la penisola della qualità dei lavori di messa
in scena dei copioni brechtiani, accordata dallo stesso drammaturgo al deus
ex machina del teatro di via Rovello in seguito all’allestimento dell’Opera
da tre soldi, firmato appunto da Strehler, nella stagione 1955-1956.
L’”investitura” tuttavia non venne sancita da alcun accordo scritto. Per le
modalità di instaurazione e la legittimità del monopolio esercitato dal Piccolo
Teatro di Milano sui diritti di rappresentazione di Brecht in Italia cfr.; E.
Gaipa, Giorgio Strehler, Cappelli, Bologna, 1959; G. Guazzotti, Teoria
e realtà del Piccolo Teatro di Milano, Einaudi, Torino, 1965; F. Marotti, Amleto
o dell’oximoron, Bulzoni, Roma, 1966; G. Strehler, Per un teatro umano,
Feltrinelli, Milano, 1974; C. Meldolesi, Brecht e il teatro reale,
“Scena”, nn. 3-4, 1978; C. Longhi, Marisa Fabbri. Lungo viaggio attraverso
il teatro di regia, con Cd-rom, Le Lettere, Firenze, 2010, pp. 128-129 e
180-181, n. 29.
[5]
Cfr. su questo punto E. Buonaccorsi, Strehler, Squarzina e Tolusso per una
Brecht-renaissance, “Cinema nuovo”, 208, anno XIX, 1970, pp. 438-445; Idem,
Lo Stabile di Genova e la via di Brecht alla classicità, in F. Natta (a
cura di), Teatro e teatralità a Genova e in Liguria dall’epoca medievale al
Novecento, pp. 193-211.
[6] Capriolo, Brecht come
bandiera, medicina e strenna, cit..
[7]
Il paradigma di un “brechtismo all’italiana”, così come era stato diffuso dal
Piccolo (uso dei siparietti a mezza altezza, colori in scala di grigi,
palchetti, didascalie, ininterrotta “citazione della Commedia dell’Arte”…) si
incontra nelle principali rappresentazioni di quegli anni e non conosce
deviazioni significative rispetto al modello, complice anche il passaggio a
Venezia, nel 1966, del Berliner Ensemble. Tra gli spettacoli più significativi
degli anni Cinquanta-Sessanta si menzionano: per il teatro di via Rovello l’Opera
da tre soldi (nelle due versioni del 1956 e del 1958); l’Anima buona di
Sezuan (1958), Schweyk nella seconda guerra mondiale (1961), L'eccezione
e la regola (1962), Vita di Galileo (1963). Con la regia di
Gianfranco De Bosio, lo Stabile di Torino nel 1961 allestisce Arturo Ui
mentre al teatro Valle di Roma, Franco Enriquez, con la compagnia “dei Quattro”
e la collaborazione di Emanuele Luzzati mette in scena Vita di Edoardo II
d’Inghilterra (1963). Nella giungla delle città è spettacolo invece
dello Stabile romano con la regia di Antonio Calenda, giovane esponente del
gruppo di avanguardia dei Centouno (1968), mentre nel 1961 all'Eliseo è
presente I sette vizi capitali con la regia di Squarzina e i mimi di
Jacques Lecoq. Luzzati è scenografo anche dell’allestimento dello stabile
triestino Un uomo è un uomo (1963) con la regia di Fulvio Tolusso, che
nel 1964 rappresenterà poi anche il brechtiano Antigone di Sofocle con
scene di Luca Sabatelli. Chiudono la stagione degli allestimenti: Trionfo con
il suo Il signor Puntila e il suo servo Matti a Torino (ottobre 1969);
Luigi Squarzina a Genova con Madre Courage e i suoi figli (marzo 1970);
infine Giorgio Strehler al Teatro La Pergola di Firenze con Santa Giovanna
dei Macelli (luglio 1970).
[8]
Sul concetto di “metodo”, diverso dalla nozione di “stile”, si vedano: E.
Buonaccorsi, Brecht e l’economia del segno teatrale, “Studi di storia
delle arti, 1980, pp. 1-19
[9]
+ “Brecht en effet a quelque chose de rassurant”. Si
tratta di un’affermazione dello studioso Claude Yersin tratta da un’intervista
intitolata L’histoire e le vécu uscita in “Théâtre/Public”, n. 10, avril
1976, p. 15.
[10]
Capriolo, Brecht come bandiera, medicina e strenna, cit., p. 13.
Lodovico Mamprin dalle pagine de “Il Popolo” parla della necessità di
un’operazione brechtiana che si chiama “rapporto con la contemporaneità”, che
richiede il distacco dai modelli proposti dal drammaturgo tedesco, ormai
superati dalla realtà storica. “Tutti siamo convinti della straordinaria
efficacia di questi modelli in una determinata realtà, quella del primo
dopoguerra, quella fra le due guerre e anche quella del secondo dopoguerra,
quando nel mondo le distinzioni erano nette; quando una linea nettissima
separava affamati da affamatori del popolo; quando sia il proletario che il
capitalista avevano il loro volto preciso. Oggi, almeno nei paesi sviluppati
economicamente, questa distinzione non è più così netta. […] non è più l’epoca
del “brotladen” e della “panetteria”. Il capitalista semmai opera con mezzi più
sottili. Sa benissimo che non è redditizio operare con viso truce e con lo scudiscio
in mano. Sa benissimo che non è redditizio il ruolo dell’affamatore, almeno nei
paesi sviluppati. E sempre nei paesi sviluppati, lo stesso proletario è ben
cosciente di essere arrivato in fabbrica magari in automobile. Semmai sarà
anche cosciente che lo sfruttamento è più sottile”, L. Mamprin, Puntila
patetico, Brecht stravolto, “Il Popolo”, 1 dicembre 1970.
[11]
Schacherl, Il critico errante, cit. pp. 104-105.
[12]
Scritto nel 1940 durante l’esilio finlandese (lo ispirarono i racconti di Hella
Wuolijoki, di cui Brecht fu ospite) Il signor Puntila e il suo servo Matti
è un apologo satirico incentrato sul personaggio di un grande proprietario
terriero il quale rileva sentimenti umani solo in condizioni di ebbrezza
alcolica. Questa, tuttavia, non giunge mai a tanto da permettere alle buone
intenzioni di Puntila di concretarsi in generose azioni. E il servo Matti dopo
aver assecondato per un po’ il “buon nocciolo” del padrone, lo abbandona. Per
quanto invece riguarda la vicenda scenica, Piove sempre sul bagnato,
titolo originale del Puntila, non ha una storia particolarmente
interessante. Viene dato per la prima volta nel 1948 a Zurigo, con la regia di
Kurt Hirschfeld e scene di Teo Otto, protagonista Leonard Steckel; l’anno
successivo Brecht lo fa rappresentare dal Berliner Ensemble, chiamando Engel a
collaborare nella regia e Neher a preparare le scene. L’opera rimane in
cartellone per alcuni mesi, poi scompare dal repertorio del Berliner. Tra gli
allestimenti successivi da segnalare si ricorda quello del T.N.T. nel 1964,
interprete e regista Georges Wilson e, per curiosità, un’edizione
cinematografica girata da Cavalcanti nel 1955 per la Wien Film. La messa in
scena di Trionfo per lo Stabile di Torino merita dunque un’attenzione
particolare perché il regista si trova di fronte a un testo relativamente nuovo
sia per il numero limitato degli allestimenti, sia per la distanza di vent’anni
dalla messa in scena brechtiana. Dal libretto dello spettacolo del Teatro
Stabile di Torino si ricavano i dati essenziali dello spettacolo: Il signor Puntila e il
suo servo Matti: regia di Aldo Trionfo; traduzione di Nello Saito; scene e
costumi di Emanuele Luzzati. Musiche di Paul Dessau elaborate da Renato Sellani
(al pianoforte). Attori: Tino Buazzelli (Puntila), Corrado Pani (Matti),
Leda Negroni (Eva Puntila), Aldo Turco (il cameriere), Enrico
Poggi (il giudice), Leo Gavero (l'attaché), Gianni Salvo (il
veterinaio), Maria G. Marescalchi (Emma), Laura Ambesi (Manda),
Antonietta Carbonetti (Lisu), Angela Cardile (Sandra), Franco
Ferrari (un uomo grasso), Emilio Marchesini (un operaio), Claudio
Dani (il pelorosso), Attilio Corsini (il macilento), Pietro
Buttarelli (Surkkala), Francesco Cavalli (un lavorante), Jole
Silvani (Laina), Claudia Lawrence (Fina), Werner Di Donato (l'avvocato),
Roberto Paoletti (il pastore), Giovanna Pellizzi (la pastoressa).
Al pianoforte: Renato Sellani. Torino, Teatro Alfieri, 29 novembre 1970, cfr.
P. Crivellaro (a cura di), Teatro Stabile di Torino 1955-2005,gli
spettacoli, Fondazione del Teatro Stabile di Torino, Centro Studi della
Fondazione TST, Arti Grafiche Roccia, Torino, 2005, p. 74.
[13] Anonimo, Torna Brecht con
“Puntila”, “Paese Sera”, 15 luglio 1970.
[14] S. Boldin, Arrivano
Puntila e la coscienza, “Avvenire” - Milano -, 16 luglio 1970.
[15] P. Perona, Brecht vive di
Pani e Buazzelli, “Stampa Sera”, 28 novembre 1970.
[16]
Ag. Sa. (Aggeo Savioli), Anche Torino avrà il suo Brecht. Arriva il
“Puntila” con un po' di polemica , “L'Unità” - Roma -, 15 luglio 1970.
[17]
“Strehler non giuda più il gioco e deve fare i conti con lui [Trionfo]. Non che
siano mancati altri registi per Brecht ma con lo spettacolo dello Stabile di
Torino, appunto il “Puntila”, le cose non stanno più come prima; nel senso che
Strehler, concessionario per vari anni, insieme a Paolo Grassi del grande
tedesco, non ha a che fare con un imitatore o con qualche timido, incerto
competitore. Il suo Brecht stemperato nel sentimentalismo e ideologicamente
ridotto a un timido maestro di sinistra con soluzioni in tasca, diventa un
autore libero dalle nebbie dei devoti e dei militanti di scarsa fantasia”, I.
Moscati, Trionfo rilancia Brecht, “Sette giorni”, 13 dicembre 1970.
[18]
A. Lazzari, La favola brechtiana in chiave di avanspettacolo, “L’Unita”,
1 dicembre 1970. Lazzari è il critico che più da vicino ha seguito l’itinerario
brechtiano (A. Lazzari, L’età di Brecht, Rizzoli, Milano, 1977), insieme
a Sergio Checconi (Gli studi brechtiani in Italia, “Teatro e Cinema”, 1,
1969, pp. 22-28), Cesare Cases (Bertolt Brecht, Drammi didattici, con
introduzione di C. Cases, Einaudi, Torino, 1980), Paolo Chiarini (La
scrittura scenica brechtiana: stile o metodo, “Biblioteca teatrale”, n. 1,
1971, pp. 95-105 poi ripreso e ampliato in Un “classico inoffensivo”?,
in AA. VV., Brecht oggi, Longanesi, Milano, 1977) e Massimo Castri (Per
un teatro politico: Piscator, Brecht, Artaud, Einaudi, Torino, 1973).
[19]
R. De Monticelli, Un po’ addolcito ma sempre Brecht, “Il Giorno”, 11
febbraio 1971; Idem, L’alcool distrae il padrone ma non il servo, “Il
Giorno”, 1 dicembre 1970; R. Radice, Il “Puntila” a Torino, “Il Corriere
della sera”, 1 dicembre 1970; C. Fontana, Soltanto l’alcool rende umano il
padrone, “Avanti”, 1 dicembre 1970.
[20]
G. Simonelli, Un Brecht con molte riserve, “L’Eusebiano”, 11 febbraio
1971
[21]
Scrive Eugenio Buonaccorsi: “Da noi, nell’affanno di individuare una
costruzione teorica da cui far discendere una coerenza di soluzioni artistiche,
si ravvisava nel Berliner la prova di quel felice connubio, ignorando o
rimuovendo il fatto che Brecht, già nel ’54, quando mise in scena il Cerchio
di Gesso, si era ricavato uno spazio di ragguardevole autonomia, con i suoi
assistenti e attori, all’interno di quella gloriosa istituzione e aveva
realizzato una lunga attività di sperimentazione che non si conformava, se non
accidentalmente ai principi del Kleines Organon (Breviario di
estetica teatrale) e di Theaterarbeit, cfr. Buonaccorsi, Lo
Stabile di Genova e la via di Brecht alla classicità cit., p. 211. Allo
stesso modo, Jean-Claude François nel suo studio su Madre Courage mette
in guardia contro i pericoli di un allineamento sterile e pedissequo al dettato
del Modellbuch per le messainscena di Brecht. lang=FR>“Le Modellbuch
apporte sur les problèmes d’interprétation un certain nombre de données écrites
ou photographiques qui sont des variantes de valeur égale pour la compréhension
des éléments de la structure de la pièce. […] Il y aurait même un danger à
réutiliser les solutions trouvées par les comédiens dans certains cas:
comprendre pourquoi tel jeu de scène illustre bien l’argument ne doit pas
étouffer l’imagination, qui seul permet de trouver solutions adaptées aux
différents comédiens. Dans la mesure où le Modellbuch est un ouvrage de
référence pour les comédiens, les exigences de Brecht peuvent se résumer ainsi:
jouez la situation, jouez les détails, jouez la contradiction – car s’attacher
à un seul aspect du personnage c’est provoquer l’identification ou donner une
caricature – cela étant compris, inventez abondamment!”, cfr. J.-C. François, «Mère
Courage» de Bertold Brecht, “Les voies de la création théâtrale”, II, 1970,
pp. 36-37.
[22]
M. Dursi, Con i toni della farsa una lezione di libertà, “Il Resto del
Carlino”, 1 dicembre 1970, cfr. anche V. Talarico, La generosità etilica di
Puntila (di Brecht) latifondista finlandese, “Momento Sera”, 1 dicembre
1970; A. Blandi, Puntila e il servo Matti su un'auto da collezione, “La
Stampa”, 22 novembre 1970.
[23]
G. Boursier, Un’allegra festa teatrale con Brecht, “Gazzetta del
Popolo”, 1 dicembre 1970.
[24]
Di divertimento in Brecht parla anche il saggio
di Nicola Ciarletta: “Il brechtiano Puntila e il suo servo Matti, diretto da
Aldo Trionfo è [...] innanzitutto uno spettacolo divertente. Cosa rara oggi
che, in ogni settore della cultura, e da qualsiasi fronte, da quello degli
“impegnati” come dei “disimpegnati”, si fa di tutto per riuscire noiosi. Cosa –
d'altra parte- essenziale per il teatro che, consistendo in una finzione, non
può non incidere, sia dal canto di chi finge che da quello di chi raccoglie la
finzione, in un di-vertimento (scandisco la parola, per metterne in evidenza
l'etimologia, la quale ci additerebbe un “volgersi per cambiare”, che ben
comporta le ragioni d'una gaiezza vitale”, cfr. N. Ciarletta, Del
divertimento e della dialettica del servo e del padrone, “L’approdo
letterario”, marzo 1972, pp. 164-169, (p. 164).
[25]
Ag. Sa, Arriva “Puntila” con un po’ di polemica, “L’Unità”, 15 luglio
1970.
[26] N. Ferrero, Trionfo
rivisita Bertolt Brecht, “L'Unità”, 22 novembre 1970.
[27]
C. Accossato, Puntila e il servo Matti tra
grottesco e paradosso, “Cinema Sport”, 2 dicembre 1970; O. Bertani, Ha
affidato ai fantasmi un messaggio, “Avvenire”, 1 dicembre 1970; B.
D'Alessandro, Il quarto Brecht di Buazzelli, “L’Europeo”, 20 agosto
1970; D. Danzuso, Brecht comico, “La Sicilia”, 2 dicembre 1970; G. De
Chiara, Attenti al capitalista con la faccia simpatica, “Avanti”, 2
dicembre 1970; Mosca, In vino falsum, “Corriere d'Informazione”, 2
dicembre 1970; R. Tian, Il gioco delle parti tra servo e padrone, “Il
Messaggero”, 1 dicembre 1970; E. Pagliarani, La sbornia del padrone,
“Paese Sera”, 1 dicembre 1970; Idem, La bontà del ricco svanisce con la
sbornia, “Paese Sera”, 1 dicembre 1970.
[28] G. Tacchini, Puntila: in
un montaggio sul tipo di music-hall, “La Sesia-Vercelli” 29 gennaio 1971.
[30]
Cfr. B. Brecht, Sul teatro popolare in Bertolt Brecht 1970. “Il
Signor Puntila e il suo servo Matti”, Teatro Stabile Torino, Torino, 1970
(“I quaderni del Teatro Stabile della città di Torino”, n. 21, programma di sala
dello spettacolo diretto da Aldo Trionfo) p. 54; N. Chiaromonte, Un
personaggio allevato col whisky, “L’Approdo”, 20 dicembre 1970.
[31]Il lavoro del regista e la scelta drammaturgica (a proposito di Aldo
Trionfo), intervista in Bertolt Brecht 1970, cit.,pp. 77-90.
[32]
C. Longhi, Storia del “Signor Puntila” per Aldo Trionfo, in S. Mazzoni
(a cura di), Studi di storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone,
Le Lettere, Firenze, 2010, p. 596.
[33]Aldo Trionfo sul “Puntila”: i molti tranelli della solidarietà emotiva,
intervista, “Ubu”, I, 11 gennaio 1971, p. 8.
[34]
Lo studio di Jean-Claude François sui rapporti scrittura-messa in scena di Madre
Courage è condotto con specifico riferimento al Modellbuch del
Berliner Ensemble. Questo volume è costituito di tre elementi: il testo, le
fotografie (circa 200) e le notazioni di Brecht. Immagini e commenti sono
riferiti a tre spettacoli successivi della pièce, realizzati sotto la direzione
di Brecht e di Erich Engel: Deutsches Theater 1949, Kammerspiele Munich 1950 e
Berliner Ensemble 1951. Madre Courage fu edita nel 1956 ma esistevano,
prima di questa data, numerosi esemplari messi a disposizione dei teatri
desiderosi di rappresentare l’opera, cfr. François, «Mère Courage» de
Bertolt Brecht, cit., pp. 23-24.
[35]
Cfr. La regia e l’interpretazione di Aldo Trionfo, (note a cura di A.
Giupponi), regista assistente, in Bertolt Brecht 1970, cit., pp.
26-37 (p. 32); Longhi, Storia del “Signor Puntila”, cit., p. 598.
[36]
E. Groppali, Puntila: le sciantose della “favola didattica”, in Idem,
Il teatro di Trionfo, Missiroli, Cobelli: la disperazione travestita,
Marsilio, Venezia, 1977, pp. 131-132. Per il critico esiste un rapporto con lo
spettacolo Margherita Gautier. Ma mentre là le morti dell'eroina erano
la sottolineatura sarcastico-crudele della versione edulcorata del mito della
santa, travestimento prediletto della società borghese; qui le sbornie di
Puntila scandiscono l'azione celebrando la “festa” della progressiva
intimidazione-repressione dei sottoposti urbani e dei diseredati contadini.
L'intenzionalità è evidente: lo stesso processo di santificazione che la
società persegue con l'aiuto di una vittima consenziente, è assunto su di
12.0pt'>sé dalla classe gerente-imprenditoriale, cfr.
Groppali, Puntila: le sciantose della “favola didattica”, cit., pp.
134-136.)
[38]
style='color:red'> La regia e l’interpretazione di Aldo Trionfo,
cit., p. 35.
[39]
Scrive Italo Moscati: “Sfilano intorno ai due personaggi principali altre
figure, altre realtà umane desolate. Donne che sperano di uscire dalla loro
condizione di povertà o di alienazione esistenziale con un matrimonio col
ricco, lo stesso Puntila; uomini che, ingaggiati al mercato, corrono come
cagnolini all’abbraccio del padrone scodinzolano nella speranza di un posto; serve
che si difendono come possono, chiudendosi in cucina; opportunisti, tra cui un
pastore, che fanno del razzismo contro “i rossi”, eccetera eccetera”, cfr.
Moscati, Trionfo rilancia Brecht, cit..
[40]
H. Mayer, Introduzione, in B. Brecht, Teatro, a cura di Emilio
Castellani, Einaudi, Torino, 1963, p. XXXIV.
[41]
Il riferimento teorico della capitolazione apparente è il trattato Cinque
difficoltà per scrivere la verità, composto nel 1934 e concepito come
introduzione al modo di scrivere dell’emigrato politico. Brecht pubblicò il
trattato subito dopo il suo rientro in Germania, insieme a Madre Courage,
nel primo quaderno della nuova serie dei suoi Versuche. Le cinque
difficoltà provengono dalla circostanza che uno deve avere il coraggio
di scrivere la verità e inoltre l'intelligenza per comprenderla; che
deve intendere l'arte di rendere la verità manovrabile come un'arma; che
deve possedere abbastanza giudizio da saper scegliere coloro nelle cui mani la
verità diventa efficace; che deve procedere con astuzia per diffondere
la verità tra molte persone. Il trattato non è solo una professione di fede in
Marx e Lenin, né l'antitesi degli style='color:red'> sforzi
politici degli amici di Brecht. Molti argomenti sembrano contenere in embrione
i posteriori capolavori, cfr Mayer, Introduzione, cit., pp. XXIV-XXV.
[43]
O Mauler di Santa Giovanna dei Macelli. Scrive Eugenio Buonaccorsi in
proposito: “ […] In tutti questi casi, il protagonista è alle prese con un “io
diviso”: e se la dolce candida prostituta Shen Te è costretta a inventarsi un
alter ego nella persona del cugino cattivo Shui Ta, per sopravvivere e arginare
le rovinose conseguenze della sua bontà, colorando questo sdoppiamento di
screziature etiche; l’industriale della carne Mauler vive nella sua interna scissione
la critica dell’”uomo faustiano”, oscillante tra concreta collocazione di
classe e mistificata coscienza di sé”, cfr. E. Buonaccorsi, Il Berliner
Ensemble: un modello brechtiano, “Sipario”, n. 402, 1979, pp. 9-13 (p. 10).
[44]
B. Brecht, Il signor Puntila e il suo servo Matti, Giulio Einaudi
Editore, Torino, 1977, quadro XI, p. 107. Ma già nella scena IV Puntila
affronta lo stessa tema: “Ben detto, Matti. Ho sempre saputo che tu non mi
serbavi rancore. Anzi, apprezzo la tua sincerità e come cerchi sempre il mio
vantaggio. Ma un Puntila può permettersi di cercare il proprio svantaggio:
questo tu devi ancora impararlo”, Brecht, Il signor Puntila, cit., p.
42.
[45] P. Rilla, Il Signor
Puntila e il suo servo Matti, in Bertolt Brecht 1970, cit., pp.
39-45, (p. 44).
[46]
G. De Chiara, Attenti al capitalista con la faccia simpatica, “Avanti”,
2 dicembre 1970.
[47]
G. Prosperi, Opera brechtiana in tono minore, “Il Tempo”, 1 dicembre
1970 ma anche, tra gli altri la recensione di Mc. B., Il Signor Puntila e il
suo servo Matti, “Rivista del Cinematografo”, gennaio 1971, che parla di
“recitazione troppo astrattizzante”.
[51]
G. Galloni, Note su “Tamburi nella notte”, in Tamburi nella notte di
Bertolt Brecht, Teatro Stabile di Bologna, gennaio-febbraio 1964 (programma
di sala). Tamburi nella notte va in scena nella stagione 1964/1965 e
annovera come attori principali:Gigi Pistilli (Klager), Leda Negroni (Anna),
Mimmo Craig (fidanzato di Anna), Luigi Montini, Pietro Buttarelli, Mirella
Gregori, Enzo Robutti, Marisa Pizzardi, Ruggero Miti, Auro Franzoni, Pina
Borione, Adolfo Milani, Adriano Boni, Giulio Pizzirani, Maria Stanzani, Tatiana
Uniti. Scene di Roberto Francia con la consulenza di Emanuele
style='color:red'> Luzzati. Carpi, Teatro Comunale, 9 gennaio 1964
(realizzazione del Teatro Stabile di Bologna).
[52] A. Lazzari, Sulle scene
la rivolta spartachista a Berlino, “L’Unità”, 26 gennaio 1964.
[53] A. Romano, “Tamburi nella
notte” di Brecht tragico e grottesco preludio del nazismo, “L'Italia”, 24
gennaio 1965.
[54] Blandi, Puntila e il
servo Matti su un'auto da collezione, cit.
[55] Tian, Il gioco delle
parti tra servo e padrone, cit..
[56] lang=FR> B. Brecht, Sul
teatro popolare, in Berliner Ensemble – Weigel, Theaterarbeit, cit.,
p. 20.
[57]
“C’est un aspect complémentaire du foisonnement, dans la
mesure où le jeu de scène isolé renforce un trait du personnage et produit, en succédant
à un autre, qui suggère un trait différent, une impression de incohérence, de
démarche en zigzag”, cfr. François, «Mère Courage» de Bertolt Brecht,
cit., p. 32.
[59]Il lavoro del regista e
la scelta drammaturgica, cit., p. 89.
[60] lang=FR> François, «Mère
Courage» de Bertolt Brecht, cit., p. 44.
[61] “[...] les
songs correspondaient à une rupture dans l'action et qu'ils faisaient appel
chez le spectateur à cette faculté de rapprochement, de comparaison et de
déduction qui est sollecitée par tous les éléments du spectacle”, Ibidem.
[62]
Su questo punto sono fondamentali due scritti: E. Limentani, L'iconoclastia
ebraica, tra mito e realtà, “Lettera internazionale”, n. 76, 2003; F.
Voltaggio, L'iconoclastia come problema storico, Lettera internazionale”,
n. 76, 2003.)
[63]
F. Quadri, L'ingegner Aldo Trionfo detto Dado, in Idem (a cura
di), Il teatro di Aldo Trionfo, Ubulibri, Milano, 2002, p. 15. Si veda
anche C. Peirolero (a cura di), Unagiovinezza ferita. Gli spettacoli
elisabettiani di Aldo Trionfo, Costa & Nolan, Genova, 1991. Qui non si
può non citare un collegamento con Alessandro Fersen per il quale Trionfo
lavorò come attore in due spettacoli: Salomone e la Regina di Saba
(1944), durante l'esilio in Svizzera, e Lea Lebowitz (1947) con la
Compagnia del Teatro Ebraico. In particolare il riferimento più stringente per
la nozione di gioco è la sua tesi di laurea L'universo come gioco, dove
riferisce di “un universo concepito come un'erudizione incessante di forze
inutili, uno sfoggio di impulsi puramente “lussuosi” [...] la voce di
un'insofferenza culturale contro i soffocanti conformismi di una società
totalitaria [...] quella condizione esistenziale disancorata dalle categorie
dell'utile e del fine, aperta agli estri di un gioco cosmico, approdava anche a
una concezione tragica della vita [...]: l'eternità è un fanciullo che gioca a
dadi: regalità di fanciullo”. [...] In questo aspro itinerario di ricerca
teatrale, ritrovo l'idea del gioco nelle sue antiche fattezze [...] la
tragicità del gioco non fa arretrare i partecipanti anzi li attrae come
alternativa al forsennato utilitarismo della prassi”, cfr. A. Fersen, L'universo
come gioco, Ed. Guanda, Modena, 1936, p. 307. Si tratta di una concezione
che poi sarà parte integrante del mnemodramma parlato, gestuale e visionario
che Fersen collega alla natura mistica del teatro ebraico, da lui ampiamente
esplorato. Ma anche per Trionfo l'esperienza non pare essere passata invano. Il
tratto pantomimico, la recitazione vicina al canto più che al parlato, l'orchestrazione
di elementi simbolici, l'alternanza di mimo e musica, l'uso espressivo del
corpo che si ritrovano in alcuni suoi spettacoli sono, in effetti, componenti
tipiche del teatro-cabaret yiddish che tanto l'Ingegnere aveva avuto occasione
di vedere durante il suo soggiorno a Losanna e poi a Genova, al rientro
dall'esilio, dai profughi in partenza per Israele, cfr. su questo punto E.
Luzzati, Il teatro per giocare insieme: una vita allo specchio,
intervista a cura di F. Quadri, Il teatro di Aldo Trionfo, cit., p. 22.
[64]Gesù di Carl Theodor Dreyer, traduzione di Ernesto Ferrero. Riduzione,
adattamento e regia di Aldo Trionfo con la collaborazione di Lorenzo Salveti.
Scene e costumi di Emanuele Luzzati con la collaborazione di Giorgio Panni.
Musiche di Sergio Liberovici. Compagnia Teatro Stabile di Torino. Interpreti
principali: Franco Branciaroli, Andrea Bosich, Ivan Cecchini, Alessandro
Esposito, Valeriano Gialli, Massimo Sacilotto, Gloria e Nadia Ferrero, Franco
Ferrarone, Raffaele Arena; Torino, Teatro Regio, 14 ottobre 1974.
[65]
Per Luzzati la scenografia è gioco. Si richiama alla libertà infantile,
destruttura il meccanismo delle regole convenzionali e utilizza un altro
sistema: quello della comunicazione dell'infanzia. Con la tecnica del collage,
disegna, taglia e incolla immagini che corrispondono al piacere infantile di
costruire forme. Assembla poi oggetti trovati, citazioni, parti conosciute, che
appartengono a un'esperienza condivisa ma che spesso sono trascurati e
abbandonati. “In teatro bisogna trovare gli oggetti che ti permettano di
trasporre la realtà, che ti eccitino la fantasia e che diano credibilità alla
frase che stai pronunciando”, cfr. E. Luzzati, T. Conte, Facciamo insieme
teatro, Laterza, Roma, 2004, pp. 44-45. Si tratta di una rappresentazione
mentale più che visiva. È questa l'idea che guida l'opera scenografica di
Luzzati: “Non esistono regole [...] l'importante è capire lo spazio
scenico...creare la scena come oggetto scenico. Capire cioè lo spazio e
l'oggetto costruito per quello spazio”, cfr. R. Cirio (a cura di), Dipingere
il teatro. Intervista su sessant'anni di scene, costumi, incontri, Laterza,
Roma, 2000, p. 166.
[66]Golem è stato presentato per la prima volta a Firenze, al Teatro La
Pergola, il 10 giugno 1969, nell'ambito delle manifestazioni del XII Maggio
Musicale Fiorentino. Esso chiude, assieme a Lea Lebowitz (1947) e Le
Diavolerie (1967), la triade drammaturgica di argomento ebraico, affrontato
per la prima volta nel 1947 e in seguito accantonato. Alessandro Fersen rievoca
e rappresenta un'antica leggenda ebraica – quella del Golem appunto – che serve
al regista come spunto per un discorso sui rapporti tra potere e scienza e sui
pericoli delle grandi scoperte, se applicate a fini malvagi e perversi. Si
tratta dello stesso argomento di Vita di Galileo di Bertolt Brecht, non
a caso modello drammaturgico di riferimento dichiarato dallo stesso regista. Il
paradigma del teatro epico è presente soprattutto nelle “scene non concatenate,
suddivise in quadri, dove esiste una scomposizione analitica tale che non può
darsi partecipazione a livello profondo, partecipazione mistica”(cfr. P.
Bertolone, La drammaturgia ebraica di Alessandro Fersen, in Ora
Fluente, del teatro e del non teatro: l'opera di Alessandro Fersen,
Titivillus, Corazzano, 2009, p. 74). Si tratta di un dramma in due tempi, in
cui tutti i personaggi sono storici (copione dattiloscritto in italiano con
note di regia a matita, conservato al MBA (Museo Biblioteca dell'Attore di
Genova), Fondo Fersen, cartella 32). La vicenda si svolge nei primi anni del
XVII secolo, nel castello di Hradscin, alla corte di Rodolfo II d'Asburgo.
Protagonista, insieme al reale appassionato di alchimia e scienze occulte, è il
rabbino Jehuda Lew Moreno Ben Betzabel, detto il Maharal, che sotto la
minaccia di sanguinose persecuzioni, crea un mostruoso essere a difesa del
ghetto di Praga: il Golem. Il fantoccio di argilla diventa così il nuovo
guardiano del Tempio e oltre a incutere paura, è forte, laborioso, ubbidiente.
Qualità che non passano inosservate all'imperatore e ai suoi consiglieri che
propongono un accordo con il rabbino per il possesso del Golem. Sfuggito
tuttavia al controllo di Maharal per l'intervento malvagio
dell'alchimista di corte Hyeronimus Scoto, il mostruoso fantoccio, pur tra il
dissenso generale, viene distrutto. Il Marahal posto di fronte al
rischio che il Golem possa essere strumentalizzato dal potere politico,
diventando così una minaccia per l'intera comunità umana, e messo di fronte al
dilemma di dover decidere sul destino del mostro che ha bensì affrancato gli
Ebrei dalla “loro vecchia angoscia” ma per sostituire a essi un'angoscia nuova
che tocca non più un solo popolo ma il “destino finale dell'uomo”, non ha
dubbi: che l'argilla torni argilla, che il robot sia annientato. Nonostante un
riferimento ai dettami del teatro epico, nel tentativo di presentare al
pubblico un dramma rivolto alla ragione e alla riflessione, Fersen tuttavia
ottiene, come rileva Paola Bertolone, un considerevole coinvolgimento emotivo,
la cui origine è da attribuire alla scenografia di Luzzati (pp. 74-75). La
stessa impressione è di Giorgio Prosperi che pur riconoscendo un effetto di
astrazione, di distanziazione, verifica “atmosfere e raccordi più suggestivi di
una scena realistica”, cfr. G. Prosperi, Apologo antiatomico nel Golem di
Fersen, “Il Tempo”, 22 marzo 1970. Ai fini della vicenda teatrale di
Trionfo, l'allestimento di Fersen importa soprattutto per due dati: la
prossimità con la rappresentazione del Puntila che avviene nell'ottobre
dello stesso 1969, e la specifica messa in scena del Golem che evidenzia
una componente rituale, simbolica dello spettacolo: “più che veri caratteri a
tutto tondo, i personaggi sono voci recitanti, simboli officianti di un rito
che li include e li trascende”, G. Prosperi, Apologo antiatomico, cit.;
M. Dursi, L'inquietudine di Fersen, “Il Resto del Carlino”, 12 giugno
1970; S. Gaudio, Un dramma sul conflitto fra la scienza e il potere, “Il
Mattino”, 31 maggio 1970.
[67] E. Luzzati, Fare
scenografia, in L. Lucignani (a cura di), Lele Luzzati, Ed. Curcio,
Roma, 1991, p. 39.
[69]La regia e
l’interpretazione di Aldo Trionfo, cit., p. 26.
[70] Rilla, Il Signor Puntila
e il suo servo Matti, cit., p. 41.
[71] Fontana, Soltanto
l’alcool rende umano il padrone, cit..
[72]Il lavoro del
regista e la scelta drammaturgica, cit., p. 87.
[73]
Il riferimento qui è a Bernard Dort e alla sua polemica contro il mito di un
“teatro scenotecnico” sostituito da una nozione dialettica di interazione tra
pubblico e scena e di prosecuzione del lavoro teatrale nella vita: insomma
un'arte che possa collaborare alla trasformazione del mondo non già suonando il
piffero della rivoluzione ma trasformando intanto la nozione che l'uomo ha di
sé e del mondo stesso, cfr. B. Dort, Lecture de “Galilée”.
Étude comparée de trois états d'un texte dramatique de Bertolt Brecht,“Les voies de la création théâtrale”,
III, 1972, pp. 109-257.
[74] F. Jamenson, Brecht e il
metodo (1998), a cura di G. Episcopo, Cronopio, Napoli, 2008; Longhi,
Storia del “Signor Puntila”, cit., p. 602.