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ISSN 2279-9184

ateatro 141.12
11/17/2012 
Teatro a 2234 metri
Marco Paolini incontra i vagabondi di Jack London: Preparare un fuoco
di Fernando Marchiori
 

A due anni dal primo passo sulle montagne trentine, con il pubblico salito fino ai 2234 metri del rifugio Vajolet, sul Catinaccio, per Preparare un fuoco in compagnia di Jack London (era la prima notturna nella storia dei Suoni delle Dolomiti e un violento temporale avrebbe interrotto lo spettacolo creando seri disagi a pubblico e artisti), il cammino di Marco Paolini nei territori avventurosi dello scrittore americano sembra finalmente giunto a una svolta. Non diremo a una conclusione che ne consegni gli esiti a una tournée ufficiale, dato che per Paolini il percorso continua a essere più importante della meta e ogni spettacolo finisce per coincidere con il suo stesso processo creativo. Certo però adesso si potrà vedere questo Studio per una ballata di uomini e cani in spazi scenici meno inconsueti e con musicisti, costumi, luci, scenografia. Insomma: il nuovo spettacolo di Marco Paolini, destinato a evoluzioni e aggiustamenti, ma già pienamente godibile.
Chi ha avuto la fortuna di partecipare a una delle serate che l’attore veneto ha proposto, in modi talvolta semiclandestini e secondo una collaudata procedura di drammaturgia in progress, per avvicinare il suo London e ascoltare le risposte del pubblico, già conosce la relazione simpatetica che Paolini ha stabilito con l’autore di Zanna bianca, la finezza di certi passaggi interpretativi, il pudore con cui talvolta l’attore affiora sul narratore a tirargli la volata. Quattro giorni di prove aperte al Teatro di Villa dei Leoni di Mira, storica officina di rodaggio di tanti suoi lavori (dagli Album al Milione, dal Vajont ai Bestiari, fino al più recente Itis Galileo), hanno ora dato il via a un confronto più serrato con il pubblico, nel quale Paolini rinuncia all’incisività suasiva della voce sola per misurarsi con una più complessa dimensione spettacolare che, con il gesto liberatorio di tutti i suoi lavori sfuggenti alla facile categoria del “teatro civile”, tende a intrecciare in scena linguaggi differenti per raccontare “semplicemente” delle storie. E ancora sembra scusarsene, Paolini, quando già con tono londoniano, mentre gli ultimi spettatori prendono posto e i musicisti già intonano la prima ballata, esordisce con un «Per me, quelli che vendono le storie sono come quelli che ingannano le vedove». Ed è subito il Klondike, l’epopea dei cercatori d’oro, i vagabondi che si arrampicano sui treni e quel ragazzo, Jack, già vecchio prima dei vent’anni, bevitore controvoglia per farsi accettare dai grandi, randagio, marinaio, homeless.



Lo spettacolo propone le storie del grande nord, i paesaggi di Zanna Bianca e del Richiamo della foresta, attraversati da un fil rouge, ancora frammentario ma destinato a delinearsi con chiarezza, che pescando da La strada e dalla biografia dello scrittore fa di London stesso il protagonista ideale delle vicende narrate, uno di quei vagabondi in cerca di fortuna ma insieme di libertà e di autenticità nell’esperienza individuale del rapporto con la natura estrema, con le bestie, con i bisogni primari. Sul proscenio, dei bidoni colorati sono usati come strumenti musicali e come postazioni, diventano i vagoni del treno e i rifugi degli hobos che spuntano, capovolgendo di segno l’inevitabile memoria beckettiana, da un personale, ribelle finale di partita con la vita. La musica incalza, accattivante. Gianluca Casadei (fisarmonica), Angelo Baselli (clarinetto) e il bravissimo Lorenzo Monguzzi (chitarra e voce) impastano brani originali e sonorità folk americane, ballate di Woody Guthrie ed echi verdiani (da Rigoletto, da La forza del destino), rendendo plausibile anche nel sound quell’incontro che Paolini prova a immaginare tra il mondo degli hobos e degli avventurieri della corsa all’oro e quello degli immigrati italiani in Nord America. È anche lo spunto per uno dei tanti cortocircuiti anacronistici che servono, come sempre in Paolini, ad avvicinare la materia trattata all’esperienza più diretta del suo pubblico: sulle note della Casetta in Canadà, il Klondike diventa il posto in cui Paperon de’ Paperoni ha guadagnato il suo primo cent. Altrove saranno le scivolate nel dialetto veneto a svolgere tale funzione di accorciamento delle distanze storiche e antropologiche, oppure il richiamo a paesaggi nostrani: il Klondike come la Val di Genova in Trentino. Per il divertente racconto del cane Macchia, Paolini sale su un palchetto che ha più o meno le dimensioni di una cabin, la tipica baracca dei cercatori d’oro che anche London ha abitato. La narrazione scivola via lubrificata da numerosi adattamenti della scrittura all’oralità tipica di Paolini (per esempio: «Lo sguardo di Macchia era di uguaglianza, non di sottomissione: one face, one race »; oppure, quando il padrone decide di ammazzarlo, gli occhi del cane sembrano dirgli: «Fallo pure, la pistola ce l’hai tu, ma per me è omicidio»).



Naturalmente lo spettacolo che stiamo raccontando è il risultato di una delle diverse possibilità di combinazione dei materiali semilavorati che attore e musicisti stanno verificando. Sera dopo sera, come spiega Paolini dialogando con il pubblico nel corso di una pausa, i pezzi cambiano di posizione nel montaggio, vengono sperimentati raccordi nuovi. Uno spettatore gli chiede: «Perché London?», e lui risponde che non esistono solo i libri delle classifiche, spiega il suo amore per autori come Melville, Conrad, London. Un altro cerca nello spettacolo i richiami al presente e i significati impegnati di altri lavori di Paolini. E lui sembra ritrarsi: «Questa è la mia croce: voi mi inchiodate a un ruolo, ma io voglio restare libero di scegliermene altri, faccio teatro». Più avanti, tuttavia, darà una definizione illuminante e amara della sua scelta: «In tempi di crisi, quasi uno spettacolo per le truppe».
Con sguardo più inquieto si seguono dunque le peripezie di un “vagabondo reale” su un treno in corsa verso il nord, nel ritmo sempre più veloce dei tamburi-bidoni-vagoni, e poi la storia di un altro cane di nome Bastardo, dall’omonimo racconto, del suo rapporto di attaccamento nell’odio con il padrone Black Leclère. Ma è nell’ultimo racconto, quello che almeno per ora chiude lo spettacolo, che si profila con maggior nitore l’orizzonte di questa affascinante attraversata dell’opera di London. Siamo infatti di fronte a una riflessione sui limiti dell’uomo, sulla volontà che prevarica la necessità, sul confine tra libertà individuale e posizione dell’uomo nell’universo. Indagando il rapporto uomo-animale, dunque, Paolini non si allontana molto dal terreno scomodo e pietoso sul quale si è in precedenza mosso con grande sensibilità per interrogarsi sulle «vite indegne di essere vissute» di Ausmerzen o sulla coscienza insonne di Galileo dopo l’abiura innanzi all’Inquisizione. Preparare un fuoco è un racconto bellissimo reso con intensità e precisione, mettendo in gioco il corpo dell’attore non meno della sua voce. Se poco prima Paolini aveva mimato Bastardo strisciante a terra verso la gola del suo padrone, qui cade e si rialza più volte nei panni del giovane camminatore deciso ad attraversare le pianure gelate e i boschi lungo lo Yukon, il fiume che scorre nel Klondike, nonostante i 50 gradi sotto zero. La musica tace. Solo scricchiolii del ghiaccio a dilatare il tempo. La bella animazione video di Simone Massi doppia sul fondale alle sue spalle le cadute e i tentativi disperati dell’uomo di camminare ancora, lasciandosi poi cadere nella neve e sprofondando nel vortice delle immagini della sua vita che gli passano davanti prima della morte. La scena drammatica del vano tentativo di accendere un fuoco e del rapido congelarsi degli arti del protagonista è resa con stile paratattico che investe tanto le strutture linguistiche quanto i movimenti del corpo. Le prime vengono scomposte, private di connettivi e subordinate, con i verbi scorciati all’infinito e le preposizioni articolate ridotte a semplici (disarticolate). I secondi si contraggono in scatti, automatismi, tropismi. Poco prima, avanzando a quattro zampe nell’estremo sforzo di sopravvivenza, l’uomo aveva cercato di afferrare il cane che lo accompagnava nel viaggio per ucciderlo e scaldarsi nel suo corpo, ma l’animale era scappato, non riconoscendo più l’uomo in quell’essere che aveva di fronte, essendo diventato ormai incerto anche il confine infraspecifico. È un confine che ci interroga. E un confine lungo il quale Paolini ha intenzione di continuare a inoltrarsi. Converrà seguirlo.

(foto Calimero)

 

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