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ISSN 2279-9184

ateatro 139.7
2/28/2012 
Teatro della persona, teatri delle persone
Una riflessione sul teatro sociale e di comunità
di Oliviero Ponte di Pino
 

Questa è la prima versione di un testo sul teatro sociale, messo a punto in occasione del corso "Oranizzare teatro sociale e di comunità" tenuto alla Civica Scuola d'Arte Drammatica "Paolo Grassi" nel gennaio-febbraio 2012 (partner il Master di teatro sociale di Torino).
Vuole offrire una prima base di discussione, in vista ulteriori approfondimenti. Osservazioni, critiche e suggerimenti sono graditi.


Un’arte sociale e di comunità

Una premessa superflua: tutto il teatro è da sempre «teatro sociale» e «teatro di comunità».
Il teatro è un’arte sociale, a differenza per esempio della pittura e della scrittura: un quadro o una poesia esistono indipendentemente da chi li guarda o legge, in quanto oggetti e opere. Al contrario, uno spettacolo senza pubblico non può esistere, non ha senso.
Nelle parole di Claudio Meldolesi, «l’azione teatrale proviene dalla mente… ma con modalità collettive anziché individualizzatrici, controllabili anziché dominatrici, coinvolgenti anziché introverse, portatrici di arricchimento affettivo e artistico».
Il teatro mette in azione e in relazione tre comunità:

- quella di chi crea e realizza lo spettacolo (che non è mai un’opera di creazione individuale ma coinvolge una pluralità di soggetti «creatori»);
- quella di chi assiste allo spettacolo (il pubblico), che si fonde in una comunità più ampia con chi agisce sulla scena;
- quella della società che ospita lo spettacolo, la polis nel suo complesso.

Il teatro sociale e di comunità è dunque un’esperienza che rientra nell’ambito del teatro, e ne accentua alcuni aspetti. E’ anche «teatro della persona» (nella prospettiva di Claudio Meldolesi); e «teatro antropologico» (per riprendere l’approccio di Piergiorgio Giacché):

«Potremmo avanzare l’ipotesi che, all’origine tanto dell’antropologia quanto del teatro moderni, ci siano un Io e un Altro e la relazione degli sguardi che li lega. E, in entrambe i casi, la direzione primaria dello sguardo, e con essa quindi la direzione primaria fra osservante e osservato, è raddoppiata da una direzione opposta che inverte i ruoli, trasformando l’osservante in osservato, e viceversa. A teatro (…) lo spettatore rappresenta l’osservante primario, pur essendo nello stesso tempo l’osservato: anche l’attore infatti guarda lo spettatore, e lo guarda con quello stesso miscuglio di curiosità, diffidenza e sorpresa che è intrinsecamente alla base di ogni relazione con l’altro e della fascinazione che la sostanzia.» (Marco De Marinis, Il teatro dell’altro. Interculturalismo e transculturalismo nella scena contemporanea, la casa Usher, Firenze, 2011, p. 11)

E’ una esperienza legata «storicamente e culturalmente con la vicenda del nuovo teatro in alcuni dei suoi tratti fondamentali» (Cristina Valenti, Normalmente stranieri, in «Teatri delle diversità», a. XIV, n. 2 dicembre 2008). Quello che dice Eugenio Barba, raccontando la nascita del teatro di gruppo e dell'arcipelago del «terzo teatro», potrebbe applicarsi anche al teatro sociale:

«Nasce un teatro come espressione di piccoli gruppi di persone che forse presentano necessità e contraddizioni che riguardano un numero limitato di individui. Essi, però, esistono, si manifestano e agiscono fra di noi.
Sono gruppi che non si sognano come veicoli di grandi parole, di grandi messaggi, di grandi dibattiti, ma che cercano la strada perché il singolo entri in contatto con il singolo, il diverso con il diverso.
Non contenuti nuovi, ma rapporti nuovi, spesso difficilmente decifrabili, vengono a prendere il posto lasciato vuoto dagli abituali contenuti del teatro. Non è un "altro teatro" che nasce. Altre situazioni cominciano a essere chiamate teatro.» (Eugenio Barba, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, Ubulibri, Milano, 1985, 1996, p. 181)



Tecniche dell’Io, del Tu e del Noi

L’incontro con il pubblico presuppone da sempre il lavoro preparatorio dei creatori dello spettacolo: «Venite a vedere (e partecipare a) quello che abbiamo preparato per voi» è il patto presupposto da ogni evento teatrale. Quello che accade «prima» dell’evento spettacolare è il processo delle prove o, se si preferisce, la drammaturgia, intesa come «tutto ciò che accade prima dell’inizio dello spettacolo».
Nel corso dell’itinerario creativo di avvicinamento allo spettacolo - e anche prima, soprattutto nell’educazione, preparazione e training degli attori, e nel processo della scrittura drammaturgica vera e propria - vengono utilizzate diverse tecniche. Queste tecniche attoriali e di scrittura si sono moltiplicate, affinate, approfondite, in quello che è stato anche un tentativo di dare scientificità al lavoro teatrale. Il percorso è iniziato ai primi del Novecento, con il padre della regia contemporanea Konstantin Stanislavskij. Poi è proseguito con le ricerche di Vsevolod Mejerchol’d (la biomeccanica), Etienne Decroux (il mimo), Ingmar Lindth (l'improvvisazione), Jerzy Grotowski (il training del Teatr Laboratorium e il parateatro), gli esercizi del Living Theatre, dell’Odin Teatret o di Tadashi Suzuki, solo per citare le esperienze più note.
Ciascun creatore ha messo a punto una gamma di esercizi, giochi, metodi, training, pratiche, discipline, percorsi, situazioni (ma anche sperimentazioni e ricerche). Queste tecniche (cui è difficile dare definizioni precise, visto che ciascun creatore affina le proprie, facendole evolvere nel corso della propria carriera teatrale) operano a diversi livelli.
In primo luogo, si sono sviluppate quelle che potremmo definire «Tecniche dell’Io», che lavorano tra l’altro su:

- il corpo (il gesto, la danza);
- la voce (la dizione, il canto);
- l’attenzione e l’energia (la «presenza scenica»);
- il rapporto con gli oggetti;
- la percezione del tempo e dello spazio;
- la memoria e l’identità personale (le emozioni e i ricordi, il personaggio, la maschera).

Un secondo gruppo di tecniche riguarda l’incontro e la relazione interpersonale (il rapporto Io-Tu), con pratiche che per esempio lavorano su:

- l’incontro e la scoperta dell’Altro;
- le varie forme di dialogo e di interazione tra più individui, sia a livello fisico-corporeo, come la Contact Improvisation, sia a livello spaziale e prossemico, sia a livello verbale.

Un terzo gruppo di tecniche lavora sulle dinamiche del gruppo e sui meccanismi di aggregazione, fino a costruire una comunità (il rapporto Io-Molti e la creazione di un Noi), per esempio con il lavoro su:

- il ruolo (ovvero l’insieme dello norme e delle aspettative che un sistema sociale tende a prescrivere all’individuo);
- l’identità collettiva (il coro; il rito);
- la creazione di un gruppo-compagnia con la propria identità e il proprio linguaggio (la comunità).

Molte di queste tecniche ed esercizi lavorano in parallelo sul rapporto realtà-finzione, anche nella accezione del rapporto tra persona (reale) e personaggio (fittizio).


Tutto il mondo è teatro

La tradizione teatrale è fondata una serie di concetti chiave che hanno accompagnato l’intera storia della cultura (non solo Occidentale): personaggio, parti e ruoli, maschera, scena-retroscena-proscenio, attore-spettatore, tragedia-commedia, coro… Questi termini ricorrono anche fuori dal contesto strettamente spettacolare, come metafore che ci aiutano a comprendere numerosi altri fenomeni dell’esistenza.
E’ dunque possibile utilizzare il teatro come strumento d’analisi, per meglio comprendere le interazioni tra esseri umani e il loro rapporto con la realtà: la scoperta della natura teatrale dei rapporti sociali e della relazione con la realtà esplode con la forza di una rivelazione nel teatro di Shakespeare («Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti», Come vi piace, atto II, scena VII) e nel gran teatro barocco del Siglo de Oro (La vita è sogno di Calderón de la Barca).
Più di recente, in parallelo all’evoluzione novecentesca delle arti dello spettacolo dal vivo, è emersa la consapevolezza che molte situazioni della nostra vita quotidiana possono essere analizzate in termini di evento teatrale. E’ l’approccio - o il trucco - utilizzato da un sociologo come Erving Goffman:

«Nello sviluppare lo schema concettuale adoperato in questo studio, è stato fatto uso di un linguaggio teatrale. Ho parlato di attori e di pubblico, di routines e di parti, di rappresentazioni che riescono e rappresentazioni che si afflosciano, di "imbeccate", di ambientazione scenica e di retroscena, di esigenze, capacità e di strategie drammaturgiche. Adesso bisogna ammettere che il tentativo di spingere una semplice analogia fino a questo punto è stato in parte frutto di uno stratagemma retorico». (Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, ed. or. 1956, tr. it. 1969)

Da qui a trasferire alcune esperienze e conoscenze maturate in ambito teatrale per accrescere la nostra consapevolezza e intervenire sulle nostre modalità di interazione con noi stessi, gli altri e il mondo che ci circonda, il passo è breve. Così una serie di tecniche nate e sviluppate in ambito teatrale sono state adottate in altri ambiti, con obiettivi diversi.
Questo lavoro, che attinge a tecniche teatrali per applicarle in ambiti non strettamente teatrali (parateatro), non ha più per obiettivo primario la realizzazione dello spettacolo (che anzi può addirittura non essere nemmeno realizzato). Nei paesi anglosassoni si parla di applied theatre, ovvero di teatro applicato. Il teatro, lo spettacolo non è più un fine, ma diventa un mezzo.


Un teatro senza spettatore

Il teatro sociale e di comunità non punta all’intrattenimento, al divertimento, all’evasione, e nemmeno all’arricchimento culturale, e non si esaurisce nell’evento spettacolare. Al limite, potrebbe anche essere un "teatro senza spettatore", che si rivolge prima di tutto a chi lo fa. Ha come obiettivi, almeno nella fase iniziale "senza spettatore":

- superare rigidità e inibizioni;
- accrescere la consapevolezza di sé stessi e la propria capacità di azione;
- facilitare le relazioni interpersonali e di gruppo;
- sviluppare la capacità d’espressione e la creatività individuale e collettiva (fisico-gestuale o sonoro-verbale);
- favorire l’integrazione del singolo nel gruppo, e del gruppo nel corpo sociale.


Terapie del corpo e della mente

A partire dagli inizi del Novecento, le affinità e gli scambi tra il teatro e le psicoterapie - soprattutto le terapie di gruppo - sono stati costanti e fecondi.
L’invenzione della psicoanalisi da parte di Sigmund Freud (che fonda la propria teoria psicologica e sociale su un mito teatrale come quello di Edipo) è pressoché contemporanea alle ricerche di Stanislavskij, che parla di «lavoro dell’attore su sé stesso». Le affinità tra il concetto psicoanalitico di «ritorno del rimosso» e quello stanislavskiano di «riviviscenza» non vanno enfatizzate, ma sono evidenti, come è evidente la consapevolezza della complessità della natura umana presupposta sia da Freud sia da Stanislavskij. Con queste premesse, non sorprende che la psicoterapia (e soprattutto la terapia di gruppo) si sia rapidamente appropriata di terminologie e tecniche teatrali, per adattarle ai propri obiettivi.
All’inizio degli anni Venti, Jacob Levi Moreno (fondatore a Vienna nel 1921 dello Stegreiftheater, ovvero teatro di improvvisazione) mette a punto la tecnica dello psicodramma, con l’obiettivo di sviluppare la spontaneità dei soggetti. Lo psicodramma nella sua forma classica prevede una scena in cui si svolge l’azione, un protagonista e una équipe psicodrammatica i cui componenti, detti «Io ausiliari»,

«hanno la funzione di recitare quelle parti di cui il paziente può aver bisogno per presentare adeguatamente la propria situazione (…) dando corpo o a persone reali dell’ambiente del paziente come il padre, la madre o il figlio, o a figure simboliche come Dio, il Giudice, o Satana caratteristici del mondo del paziente.» (Jacob Moreno, Gruppenpsychotherapie und Psychodrama. Einleitung in die Theorie und Praxis, Thieme, Stuttgart, 1959, p. 82)

Nello psicodramma, il soggetto si trova a ripetere in forma teatrale (e dunque a rivivere) un avvenimento del passato particolarmente traumatico, interpretando (attraverso l’improvvisazione) possibili varianti, per prepararsi ad affrontare situazioni analoghe in futuro. Un uditorio fa da eco al protagonista, manifestando le proprie emozioni di fronte alle vicende rappresentate. Moreno riprende da Freud il concetto di acting out, ovvero un agire che inconsciamente diminuisce le tensioni interne, scaricando impulsi tenuti a freno e contenuti rimossi.
Anche altre forme di terapia, più o meno ispirate all’insegnamento di Moreno, fanno consapevole ricorso a tecniche e situazioni tipicamente teatrali.
La delimitazione di una scena teatrale consente di selezionare e isolare, nell’infinita gamma dei comportamenti umani, alcune variabili, rendendo più controllabile l’evento (come accade negli esperimenti scientifici). Si tratta di evidenziare di volta in volta alcuni aspetti ritenuti cruciali, per concentrare l’attenzione e l’azione su di essi. La creazione di una cornice protettiva come quella della finzione permette di sperimentare diverse forme di comportamento, ma anche emozioni, ruoli, relazioni, pensieri, a prescindere dalle conseguenze che possono avere. Si tratta, in altri termini, di «delimitare il campo dello scontro». E’ una necessità condivisa da teatranti come Eugenio Barba, che parla del

«bisogno di trasformare il teatro in una ben delimitata situazione che permetta di andare aldilà dei rapporti e delle percezioni che debbono caratterizzare la vita di ogni giorno (…) Questa ricerca cosciente di colui che sceglie il teatro non per esserne "spettatore", ma come situazione per raggiungere un diverso stato di esperienza, questo è già superare i limiti definiti da una convenzione vecchia di pochi secoli: il Teatro.» (Eugenio Barba, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, cit., p. 185)

La drammaterapia usa i processi drammatici, narrativi, immaginativi tipici del teatro per sviluppare la creatività e le capacità di relazionarsi con il mondo e con gli altri. Un percorso di drammaterapia e ogni singolo incontro si strutturano tipicamente in tre fasi:

- fondazione: la creazione di un clima di gruppo basato sulla fiducia, l’intimità e la collaborazione; e l’attivazione delle risorse espressive dei partecipanti attraverso esercizi fisici, giochi di conoscenza e di fiducia, improvvisazione corporea, immaginativa e narrativa;
- creazione: un momento di ricerca creativa in cui è possibile affrontare alcuni elementi problematici personali attraverso la creazione di scene, attivando il processo creativo drammatico attraverso giochi di ruolo immaginativi, sociali e/o familiari;
- condivisione: i partecipanti rielaborano il percorso condividendo i vissuti soggettivi attraverso lo scambio verbale o in termini simbolici e immaginativi, con un gesto o con un segno, o semplicemente con il puro esserci.

Il Playback Theatre è una forma di improvvisazione teatrale nata intorno alla metà degli anni Settanta negli USA e poi diffusa anche in Europa, in cui il soggetto narra un momento della propria storia personale, sceglie nel gruppo gli attori destinati a impersonare i vari personaggi e vede la sua storia ricreata in forma teatrale.
Anche la Gestalt Therapy, messa a punto da Fritz Perls (che in gioventù, a Berlino, era stato anche attore in spettacoli diretti da Max Reinhardt), utilizza diverse tecniche teatrali, con particolare attenzione alla comunicazione non verbale. Una delle tecniche utilizzate per esplorare i rapporto dell’individuo con sé stesso e con gli altri è quella della «sedia vuota»: il soggetto si rivolge a una sedia vuota, come se vi fosse seduta una persona e può anche ricreare conversazioni tra due o più persone per lui significative.
Rispetto alla Gestalt Therapy, che enfatizza l’esperienza e la consapevolezza, le terapie cognitive privilegiano piuttosto credenze e interpretazioni, e possono usare in questa chiave situazioni teatrali.
Esemplare nel rapporto tra teatro e disagio psichico resta l’incontro di Giuliano Scabia con i pazienti dell’ospedale psichiatrico di Trieste diretto da Franco Basaglia, che porterà all’esperienza di Marco Cavallo: una grande scultura teatrale di cartapesta intorno alla quale il 25 febbraio 1973 Scabia organizzò, in una festa-spettacolo, la fuoriuscita dei ricoverati dall’ospedale, nella città. Con questo «cavallo di Troia alla rovescia», la pratica teatrale è diventata strumento di liberazione individuale e collettiva.
La drammanalisi opera nella direzione opposta, introducendo competenze e tecniche psicologiche in ambito teatrale: si propone di «rendere più efficace il processo formativo dell’attore» facendo «riferimento, innanzitutto, alla teoria psicoanalitica dell’azione teatrale come sublimazione delle pulsioni esibizionistica e voyeuristica» (Gianni Tibaldi, Per una introduzione alla «drammanalisi», in «Teatri delle diversità», n. 51, anno 14, n. 51, ottobre 2009).
L’approccio psicoterapeutico privilegia di solito l’aspetto verbale, anche attraverso improvvisazioni, e molti protocolli terapeutici vietano esplicitamente il contatto fisico tra terapeuta e paziente. Altre tecniche e metodi lavorano invece sulla corporeità, a partire dall’invenzione della biomeccanica, il «sistema di allenamento globale dell’attore» ideato da Vsevolod Mejerchol’d tra il 1913 e il 1917, e sviluppato successivamente.
Mejerchol’d divideva il lavoro dell’attore in tre fasi:

- intenzione: la percezione intellettuale del compito ricevuto;
- esecuzione fisica: la realizzazione plastica dell’idea dell’attore;
- reazione psichica: l’emersione della vita emozionale dell’attore.

Centrale nell’approccio biomeccanico è dunque il rapporto tra l’aspetto fisico e quello emotivo, o meglio l’effetto reciproco di postura e gesto da un lato ed emozioni dall’altro.
In teatro, come nel lavoro sulle disabilità fisiche e mentali, sono state messe a punto diverse tecniche del corpo, che attingono alle fonti più varie: alcune sono state sviluppate in ambito terapeutico (per esempio la tecnica Alexander), altre attingono all’ambito sportivo (tecniche di allenamento e ginnastiche riabilitative), o spirituale-filosofico (come lo yoga o il tai chi, o l’euritmia di Rudolf Steiner).
Sulla scia della biomeccanica (e del metodo ideato da Rudolf Laban), e attingendo anche a questo repertorio di esercizi, sono emerse varie forme di training fisico-gestuale, che sono poi entrate nel bagaglio di alcuni operatori di teatro sociale.


Agit prop e animazione

Le esperienze di teatro sociale e di comunità hanno inevitabilmente un impatto sulla polis. Dopo l’esplosione del teatro politico degli anni Venti e Trenta (con il cosiddetto «agit prop»), anche i movimenti di liberazione degli anni Sessanta hanno scelto di utilizzare il teatro come strumento di consapevolezza, espressione e propaganda: basti pensare a una compagnia come il Teatro Campesino, che ha dato voce e corpo alle rivendicazioni degli immigrati messicani in California; al Bread & Puppet, con gli spettacoli-sfilata contro la guerra del Vietnam; o al Playhouse of the Ridiculous e a tutti i gruppi che hanno dato visibilità ai movimenti di liberazione sessuale (e soprattutto omosessuale) degli anni Sessanta.
In questo contesto, all’inizio degli anni Settanta il brasiliano Augusto Boal, rilanciando la Pedagogia degli Oppressi (1970) di Paulo Freire, ha sviluppato e teorizzato il Teatro dell’Oppresso, un metodo che usa il teatro come linguaggio, come mezzo di conoscenza e di trasformazione della realtà interiore, relazionale e sociale, rendendo attivo il pubblico. Il punto di partenza è sempre la persona che si mette in gioco, raccontando un episodio della propria storia, che viene fatta propria dal gruppo e viene successivamente presentata al pubblico sotto forma di domanda.
Una delle tecniche tipiche del Teatro dell’Oppresso è il teatro-forum:

«Nel teatro-forum il lavoro parte sempre da racconti d’oppressione. Gli attori pongono una domanda al pubblico e cercano, insieme agli spettatori, di trovare eventuali soluzioni al problema posto. Quindi nel teatro-forum ci sono sempre due tempi. Un primo tempo in cui si mette in scena la storia di qualcuno che lotta, invano, per ottenere qualcosa. Un secondo tempo in cui si permette al pubblico d’interrompere lo spettacolo in qualsiasi momento, di salire in scena e prendere il posto di un personaggio per mostrare quello che avrebbe dovuto fare per migliorare la situazione. C’è poi un personaggio mediatore - quello del jolly - che controlla che non si vada fuori tema, che si rimanga nell’ambito della domanda posta. Il jolly ha anche la funzione di dare fiducia agli spettatori, di aiutarli a lasciare la poltrona e a salire sulla scena.» (Philippe De Moulain, «Esperienze belghe in ambiente carcerario», in Robert Wilson o il teatro del tempo, Ubulibri, Milano, 1999, p. 145)

Un’esperienza affine è quella dell’animazione teatrale, che si sviluppa tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, in particolare nel lavoro con bambini e ragazzi, con funzione pedagogica e di socializzazione (sulla scia del Programma per un teatro proletario dei bambini scritto tra il 1924 e il 1928 a Walter Benjamin e della "scuola attiva" teorizzata da Célestin Freinet). Grazie all'impegno di personalità come Remo Rostagno, Mafra Gagliardi, Franco Passatore, si passa in quel periodo da un «teatro per ragazzi» a un «teatro con i ragazzi», o meglio ancora «dei ragazzi». La pratica teatrale diventa strumento pedagogico (con qualche anticipo sul cosiddetto edutainment, ovvero "educare divertendo").
La dimensione pedagogica ha avuto un notevole sviluppo, soprattutto negli ultimi anni, anche nella forma di «teatro d’impresa»: tecniche teatrali vengono adattate e integrate in percorsi di formazione, nella riqualificazione e nella motivazione di lavoratori e manager. Le tecniche sono simili a quelle dell’animazione e del Teatro dell’Oppresso (o addirittura riprese da queste forme), ma gli obiettivi sono diversi, tanto da suscitare reazioni e dibattiti:

«Sappiamo che ci sono alcuni gruppi che si dedicano a lavorare in favore delle imprese, obbedendo ai loro comandi, cercando di adattare i loro lavoratori a corrispondere meglio al proprio ruolo, così che i lavoratori possano diventare più fruttuosi, più lucrativi. Anche se loro usano, in forme frammentarie, alcuni degli esercizi, giochi e tecniche che noi abbiamo creato, in aggiunta ai loro abituali role-play, loro cercano di consolidare una situazione di oppressione - esattamente l’opposto della nostra filosofia.» (Augusto Boal, Under Pressure, Anno 3°, Volume 11, agosto 2002; citato in Dibattito Boal-Plotkin: lavorare con gli oppressori, http://www.giollicoop.it/index.php/es/il-metodo/45-il-tdo-metodo-o-tecnica/59-dibattito-boal-plotkin)

Su un versante più «leggero» le pratiche dell’animazione, private di ogni tensione politico-sociale e di ogni ambizione pedagogica o riabilitativa, sono approdate nei villaggi turistici e poi in televisione: il primo Fiorello è figlio - o meglio nipote - di quella stagione. Gli obiettivi sono gli stessi (socializzazione, espressione, creatività), ma in un contesto completamente diverso.
Più di recente, hanno iniziato a diffondersi esperienze come quella della Living History, che ricostruisce in forma teatrale eventi del passato significativi per la memoria collettiva.


Riattivare

In generale, le pratiche di teatro sociale e di comunità hanno l’obiettivo di «animare» (o meglio di «riattivare», per usare la terminologia di Claudio Meldolesi) in situazioni di difficoltà e disagio, e in generale di intervenire in una condizione di rigidità e chiusura individuale e/o collettiva. Situazioni di difficoltà nel rapporto con sé stessi, con il mondo e con gli altri spingono a irrigidire la struttura psichica e le relazioni interpersonali (secondo il paradigma di C. R. Rogers). L’individuo sano ha un sé dinamico, in grado di adattarsi e di evolvere; se invece l’adattamento del sé all’ambiente non simbolizza in maniera corretta l’esperienza (e soprattutto le esperienze stressanti), l’individuo si sente minacciato e tende a irrigidire l’organizzazione caratteriale. Un fenomeno analogo accade con i gruppi e le collettività che si sentono minacciate.
Uno degli obiettivi di queste «animazioni» è proprio quello di ammorbidire queste rigidità: tendono dunque anche a dissolvere i confini tra le tre comunità coinvolte nell’evento teatrale, e in generale la distanza tra attore e spettatore, e tra persona e personaggio.
Il compito di «riattivare» viene assunto dalla figura dell’operatore (che può essere definito animatore, guida, mediatore, jolly…), che recupera molte delle funzioni del regista e del drammaturgo (o del dramaturg), e le amplia.
Claudio Meldolesi utilizza il verbo «riattivare» in relazione all'attività del dramaturg, lo «specialista altro, impegnato a prospettare svolte impreviste nei passaggi oscuri di scena e di scrittura» (Claudio Meldolesi e Renata M. Molinari, Il lavoro del dramaturg. Nel teatro dei testi con le ruote, Ubulibri, Milano, 2007, p. 98). La funzione del dramaturg ha diverse affinità con quelle di chi opera opera nell'ambito del teatro sociale:

«L'agire del dramaturg dall'oscurità è collegabile alla maestria degli attori nominati "nulla" o " neri" in Giappone, attivi a volto coperto durante gli spettacoli per rimuovere ogni tipo d'impedimento materiale ai recitanti.» (Claudio Meldolesi e Renata M. Molinari, Il lavoro del dramaturg. Nel teatro dei testi con le ruote, cit., p. 25)

Alle competenze teatrali, l’operatore può (o dovrebbe) accostare quelle dello psicoterapeuta, del fisioterapista, del sociologo e dell’antropologo, oltre che quelle dell’educatore (o del rieducatore)… A seconda dei casi, l’operatore lavora da solo, in coppia, o fa parte di un gruppo più articolato (che può coincidere con una compagnia o gruppo teatrale).
Il percorso non è privo di ostacoli. Riferendosi in particolare all’esperienza del «teatro-carcere» (ma la riflessione ha portata più ampia), a proposito della «interazione scenica, (della) prassi costruttiva per cui un attore produce con i compagni un risultato intersoggettivo», Claudio Meldolesi nota che

«da quesito processo il recluso è normalmente stimolato a "ricollegarsi"; e se pure ne trarrà stimoli negativi - all’esibizionismo e alla falsificazione di sé - il lavoro in comune lo spingerà di volta in volta a porsi ulteriori mete (…) l’attore recluso ha bisogno di cura e di tempo per inventare: la sua invenzione deve essere globale, collettiva oltre che individuale, esistenziale oltre che di gusto, e psichica oltre che espressiva.»

Un analogo percorso può interessare lo spettatore, che può avvicinarsi a uno spettacolo per curiosità morbosa o con un senso di superiorità nei confronti del diverso, per poi approdare a un diverso atteggiamento.


L’incontro di due fragilità

Il percorso di lavoro coinvolge inizialmente due poli, e in genere due gruppi: i destinatari dell’intervento (e dunque in genere persone che vivono una situazione di disagio) e gli operatori che hanno il compito di riattivarli. Chi arriva dal teatro porta con sé una diversità che affonda le proprie radici nell’essenza stessa del teatro, nella sua natura più profonda.
Nelle esperienze di teatro sociale, al pubblico osservante si sostituisce nella prima fase un gruppo di persone che viene «riattivato», e che dunque non si limita più a osservare passivamente ma viene chiamato ad agire. Il percorso comune degli operatori e del gruppo è l’incontro tra due differenze: l’alterità degli operatori, ovvero dei teatranti professionisti; l’alterità dei componenti del gruppo in cui intervengono i mediatori.

«Ci sono delle pratiche o degli spazi in cui si mettono in gioco l’alterità, la diversità sociale, psicologica o simbolica, in cui si affronta il lavoro permanente e rischioso del confronto con l’alterità a tutti i livelli. (…) Il punto fondamentale di queste esperienze non è la specificità della popolazione con cui si lavora ma l’incontro di due fragilità, la nostra e quella delle persone con cui si entra in contatto.» (Marc Klein, «I teatri dell’altro», in Robert Wilson o il teatro del tempo, cit., p. 136)

E’ un incontro di sguardi reciproci, che mette in gioco una pulsione che è al cuore di ogni vocazione teatrale:

«Nel caso del teatro, questa reciprocità degli sguardi è ancora più forte perché possiamo parlare di un doppio desiderio di alterità: la fascinazione dello spettatore, il suo desiderio di incontrare l’altro, l’attore, lo "straniero che danza"; e ancor prima, il desiderio dell’altro che spinge le persone a farsi attori.» (Marco De Marinis, Teatro dell’altro, cit., p. 12)

Il ruolo degli operatori non è neutro o innocente, né nei rapporti con gli utenti né nei rapporti con eventuali committenti.

«La droga circola sempre nelle prigioni, perché quando la gente la consuma rimane più calma. Per questo l’amministrazione carceraria chiude un occhio su questa faccenda. Allora - mi sono detto - forse funziono più o meno come una droga. La risposta mi è venuta dal detenuti. Secondo loro l’importante era il fatto che fossi stato riconosciuto all’interno della prigione. Per una volta ho avuto l’impressione di essere qualcuno, di non essermi limitato a pensare, ma di aver avuto la possibilità di agire.» (Philippe De Moulain, «Esperienze belghe in ambiente carcerario», in Robert Wilson o il teatro del tempo, cit., p. 149)

Il riconoscimento del ruolo degli operatori è un passaggio cruciale: obbliga tutte le parti coinvolte a «mettersi alla prova» nel rapporto reciproco, ridefinendo costantemente aspettative, obiettivi e atteggiamento. Il percorso può essere ricco di sorprese e di sviluppi imprevedibili. Il teatro di Robert Wilson nasce anche dai suoi incontri con un adolescente sordomuto e con un ragazzo autistico, Christopher Knowles.

«Robyn Brentano ricorda che "all’inizio gli schemi gestuali di Christopher Knowles sarebbero stati giudicati bizzarri dal senso comune, ma per chi come noi da anni esplorava il movimento non lo erano affatto. Per quanto ne so, all’epoca nella maggioranza delle scuole comportamenti di quel tipo venivano puniti e penso che un fatto che l’ha molto aiutato ad aprirsi sia stato vedere altre persone che si comportavano come lui. Penso che all’improvviso si sia trovato di fronte quello specchio c
 

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