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ISSN 2279-9184

ateatro 139.29
4/23/2012 
Speciale Premio Scenario: le generazioni del nuovo
Infactory, Due passi sono, L’Italia è il paese che amo, Spic & Span
di Cristina Valenti e Giada Russo
 

In occasione del venticinquesimo anniversario del Premio Scenario, il centro di promozione teatrale “La Soffitta” di Bologna ha dedicato una giornata alla terza edizione di “Interscenario”, il progetto che segue la cadenza biennale del Premio Scenario.
Attorno alla tavola rotonda del 23 marzo, tra il 2 e il 27 marzo sono stati presentati gli spettacoli vincitori e segnalati dell’edizione 2011.
L’iniziativa, curata da Nicola Bonazzi, Stefano Casi e Cristina Valenti è stata ideata e realizzata dai tre soci di Scenario del territorio bolognese (Centro La Soffitta, Compagnia del Teatro dell’Argine e Teatri di Vita), in collaborazione con il Teatro Comunale A. Testoni di Casalecchio di Reno.


25 anni di teatro al presente. Le generazioni del nuovo al Premio Scenario Introduzione alla tavola rotonda
di Cristina Valenti



L’immagine che ha accompagnato l’ultima edizione del premio è quella di una foglia che galleggia in un minuscolo specchio d’acqua. Il fotografo che da anni accompagna Scenario con le sue immagini l’ha chiamata small ship. In questa <>small ship ci è piaciuto vedere la barchetta metaforica sulla quale Scenario ha navigato lungo il percorso del premio (di tutte le edizioni dei suoi premi, forse), tenendosi miracolosamente a galla, grazie all’impegno sostanzialmente volontario e autofinanziato dei suoi soci, e sfidando le secche del paesaggio circostante (teatrale e non solo teatrale): un paesaggio sostanzialmente incapace – è sotto gli occhi di tutti - di aprirsi a nuovi territori e responsabilità generazionali.
Una navigazione difficile, che ancora una volta ci ha permesso, però, di toccare con mano che il teatro consente di vivere un tempo sospeso: in cui i ruoli possono ribaltarsi e chi osserva impara a sentirsi osservato da un mondo giovanile che non si deve dare affatto per scontato, che abbiamo verificato come viaggi parallelo rispetto alla scena televisiva e all’anti-cultura imperante, un mondo giovanile dalle cui proposte emerge una comprensione diversa di accadimenti e vicende umane che sono al centro dei loro progetti teatrali e appartengono alla scena della contemporaneità, ma che sulla scena giovanile acquistano maggiore realtà ed evidenza. E chiamano in causa le responsabilità del teatro.
Oggi il paese è scosso dall’impennata di una crisi che riporta in primo piano il tema della crescita, dell’occupazione, dei giovani.
Nel piccolo bicchiere del teatro è più semplice leggere lo stato delle cose: la tempesta dei tagli che agita la superficie, il ristagnare in profondità degli interessi e dei privilegi consolidati, il generale torpore di un bacino sostanzialmente privo di nuovi affluenti.
Il teatro non è immune da un intreccio di responsabilità condivise e di ipocrisia diffusa. E non ne è immune neanche l’ambito che ne ha rappresentato tradizionalmente le maggiori idealità, ossia il nuovo, la ricerca. Dei giovani si parla evitando rigorosamente di dar loro la parola (dai talk show alle inchieste di ogni tipo), che a teatro significherebbe costruire e offrire opportunità produttive e accesso reale alla circuitazione, in attesa che siano loro – le giovani generazioni – a ricoprire i ruoli cardine di un sistema che in Italia non conosce pressoché ricambio.
Il teatro è stato scosso in passato dal fluire carsico di innovazioni che, nelle loro emersioni, hanno portato il nome dei decenni che di volta in volta hanno investito: gli anni Sessanta, Settanta, Novanta… Poi nessun nuovo movimento riconosciuto da due decenni a questa parte. Eppure tanti artisti hanno espresso e stanno esprimendo con eccellenza i temi, le visioni, i linguaggi delle rispettive nuove ondate generazionali. Ma a riconoscerli come “generazioni del nuovo” si correrebbe il rischio di dover cedere loro il testimone del tempo presente; a riconoscerli come singoli artisti, invece, il controllo del sistema teatrale resta saldamente nelle mani di chi accorda o conferma riconoscimenti, in attesa dei successivi sorpassi. Come dire che il nuovo è faccenda che riguarda i talent scout dell’operatività teatrale, non è questione vitale per la civiltà del teatro nel suo complesso.
E mentre il nuovo non ha modo di consolidarsi, il vecchio continua ad occupare il campo, ossia la programmazione della maggior parte dei teatri e il mercato degli abbonati. Chissà, la prossima rivoluzione teatrale dovrebbe portare il nome di una generazione non di artisti ma di spettatori, stanchi di farsi complici di chi li tiene all’oscuro della pluralità dei teatri, stanchi di subire la fatalità di un teatro fatto di una manciata di autori e di un unico modo produttivo, stanchi di essere trattati da consumatori anziché da cittadini consapevoli e partecipanti, intenzionati ad essere fatti edotti della distribuzione del denaro pubblico e delle competenze di chi lo gestisce.
Cosa c’entra tutto questo con Scenario? C’entra con la solitudine di un progetto che dal 1987 ha dato concretamente la parola ai giovani, a volte scoprendo eccellenze, di certo indicando sempre direzioni, incontrando professionalità, ostinandosi a segnalare talenti non per fornire di nuova linfa i vecchi insediamenti, ma per garantire al teatro la sola vitalità possibile, che deriva dall’inesauribile, imponderabile, a volta incomprensibile e persino scomodo affacciarsi del nuovo. Delle “generazioni del nuovo” come ci ostiniamo a chiamarle. Perché l’immissione di nuovi soggetti generazionali nel panorama teatrale è fattore di trasformazione del teatro stesso, in quanto il dato generazionale significa che i nuovi soggetti, prima di essere attori, registi, teatranti, sono una generazione di giovani, non tanto per il dato anagrafico-biologico che li unisce, ma per essersi formati individualmente in un certo modo, sotto l’influsso di determinati fattori sociali e culturali e di eventi storici specifici che li rende soggetti propulsori di cambiamento.
Ricordiamo la domanda di fondo che Ermanna Montanari ha posto sul teatro, attraverso l’edizione del Festival di Santarcangelo da lei diretta, che ha ospitato la Finale del Premio Scenario: “Cosa ne è di questa arte oggi?”. Una domanda al presente, che interroga prepotentemente il futuro dei giovani artisti.
In questo senso, il titolo del nostro incontro: 25 anni di teatro al presente. Di edizione in edizione Scenario si è sintonizzato col presente, senza sapere in partenza cosa contenesse, rinunciando (quando ci è riuscito) a giudicarlo dal punto di vista delle ascendenze e delle eredità e confrontandosi sempre su un piano di concretezza.

Do you know my chickens?
Una conversazione con Matteo Latino a proposito di Infactory

di Giada Russo



“E c’era una persona che mi diceva: tu non potrai mai capire Deleuze.” (Matteo Latino)

“Non è necessario essere competenti, sapere, bensì apprendere questo o quello in campi differenti.” (Gilles Deleuze)

Matteo Latino con la sua compagnia Teatro Stalla vince il Premio Scenario 2011 con lo spettacolo Infactory. Siamo dentro una fattoria, dove ci sono due vitelli a stabulazione fissa (ossia due povere bestie in gabbia costrette a ingozzarsi di cibo), pronti al macello.

I miei genitori hanno un agriturismo in Puglia. Così ogni volta che andavo al caseificio entravo nelle stalle e vedevo i vitelli. Li alleviamo per darli come carne ai clienti. Accanto alle stalle c’è il macello. Già questo è un teatro dell’assurdo. Volevo dare voce ai loro pensieri, a quelli dei vitelli. È uno spettacolo che nasce da uno studio degli animali dal vivo; ho provato a mettermi nelle loro condizioni ed esercitare quella compassione indispensabile per capire gli altri.

La condizione dei vitelli in attesa della macellazione è ben assimilabile a quella dei giovani italiani, appartenenti a quella generazione ibrida dei trentenni, post-adolescenti incatenati a uno status indefinito: non sono né giovani né vecchi, sembrano entità sfocate in cerca di futuro.
Il senso di claustrofobia è però esistenziale perché colpisce, come una malattia endemica, i nostri e i vecchi tempi, gli uomini tutti. Se tiriamo via il cappuccio, la felpa e le bombolette spray, si perde la connotazione generazionale dello spettacolo e resta il testo. E il testo è per tutti.
Attraverso un’azione scenica priva di un’unità narrativa coerente, i due attori ci raccontano il dramma dell’immobilità, la sensazione tragica di stare appesi a qualcosa e l’incapacità di affrancarsi dal proprio destino. E lo fanno in maniera originale, attraverso un mix di linguaggi differenti: dalla jumpstyle, (una tarantella da discoteca) alla poesia dei monologhi, fino alla street art del murales. Ma i muri non sono fatti di mattoni, sono strati di cellophane sospesi da un lato all’altro dello spazio scenico con i tag di corpi umani riprodotti in serie, icona di un futuro asfittico e omologante.

La condizione dei vitelli era simile alla mia: loro riempivano il loro corpo per andare liberi al pascolo, una volta maturi; in realtà finivano al macello. Così mi riconoscevo come vitello nel momento in cui consideravo la mia persona un contenitore da riempire di studi, libri, esperienze e competenze, per poi finire, disilluso, di fronte a un macello economico, emotivo e, immancabilmente, lavorativo.

I due performer-vitelli si incontrano sulla scena, vivono uno a fianco all’altro ma non comunicano se non attraverso monologhi paralleli. Dialogano invece con il pubblico, attraverso gli slogan appiccicati alle t-shirt. Lo spettatore è interpellato da domande (per niente retoriche), risvegliato da un po’ di torpore quotidiano al suono di una musica techno e richiamato dall’inizio alla fine alla sua sensibilità di testimone-creatore dello spettacolo, attraverso le immagini e le parole di un testo denso ed essenziale.



Il teatro di Matteo Latino suggerisce un felice ritorno al testo. È un teatro di corpo e di parola. C’è tutta la forza dei due attori sulla scena che parlano attraverso i loro corpi e c’è la presenza forte di una parola poetica.

Teatro del corpo o teatro di parola? Non amo le definizioni. La parola viene prodotta dal corpo e il corpo produce la parola.

Sulla scena il corpo si fa significato e significante. Ci sono i corpi di Matteo Latino e di Fortunato Leccese, e poi ci sono i corpi stanchi dei due vitelli. Gli uni simbolo degli altri.

Esiste un momento in cui l’uomo diviene animale e l’animale diviene uomo, un momento in cui l’animale non è l’uomo, né l’uomo è l’animale. Questo è il momento (per citare Deleuze) della “terza entità”, il momento dell’arte, della poesia, dell’immaginazione.

Questo è il momento di Infactory, un progetto artistico che ha preso vita scena dopo scena, minuto dopo minuto (dai fatidici cinque minuti iniziali ai venti conclusivi) all’interno del Premio Scenario. E con Matteo Latino abbiamo voluto ricordarlo.
Quali sono le tue aspettative dopo la vittoria del Premio Scenario?

Aspettative? Io metto continuamente in discussione me stesso, grazie anche alla meditazione. Se in quanto artista vivrò ancora della necessità che ho adesso è giusto che io esista. Se la necessità dovesse perdersi è giusto che si faccia avanti qualcun’altro. Le aspettative possono creare troppe delusioni.

Il più bel regalo di Scenario (a parte il premio)?

Mi ha insegnato a fare un passo alla volta, a darmi delle scadenze e soprattutto ad ascoltarmi.

Hai in mente nuovi progetti?

Voglio parlare della malattia. Il progetto si chiama Bambi says fuck. Devo migliorare molto il mio inglese, eppure lo uso sempre. Le cose che non so fare le imparo facendole.

Se con una parola dovessi descrivere la tua esperienza a Scenario?

(Dopo cinque minuti) Indispensabile.

Ultimissima, forse un po’ banale, domanda. Che vuoi dire con lo slogan “Do you know your chicken?”

Secondo te?

Ecco la motivazione della giuria:

“La condizione dei trentenni esplorata, allusa, svelata con crudeltà e poesia attraverso la metafora di due vitelli a stabulazione fissa prossimi al macello. Un dialogo che non avviene, che è esposizione frontale, danza riflessa su schermi virtuali, esercizio solitario di una poesia raffinata, di cui i due attori si fanno tramite per scoprire risorse lessicali, metriche, timbriche di una lingua che trova un’inedita cittadinanza sulla scena giovanile. Infactory nasce al teatro per vie originali e impreviste, che rielaborano la biografia e la letteratura, il mondo delle immagini e le nuovissime risorse della comunicazione interattiva per farsi lente di ingrandimento su uno spaccato generazionale sul quale si sospende il giudizio ma si aprono molte domande. A partire dalla questione, implicita eppure lacerante, di come conquistare finalmente l’uscita verso la campagna aperta, ovvero verso un futuro di libertà e realizzazione personale”.

Bastano appena due piccoli passi
Una conversazione con Cristiana Minasi a proposito di Due passi sono (vincitore Premio Scenario Ustica)

di Giada Russo



Foto di Marco Caselli Nirmal.

Un titolo in cui c’è già tutto: rivela la sicilianità dei due protagonisti, Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi, due artisti messinesi che esplorano con sensibilità e ironia temi universali, come la malattia e l’amore; tradotto in italiano vuol dire che “bastano appena due piccoli passi” per raggiungere la felicità. E la felicità per questa straordinaria coppia (nell’arte e nella vita) è nascosta nelle cose semplici.

Due passi sono. Due: perché siamo una coppia, bisogna essere in due per incontrarsi; passi: è l’azione, il mistero, l’epifania dell’azione; sono: è l’essere, l’esistenza.

Due individui stravaganti rinchiusi dentro una scatola immaginaria di tre metri per tre discutono, si pizzicano e giocano intorno a una quotidianità a tratti soffocante. C’è tanto di Beckett in questa dimensione claustrofobica da cui si cerca di uscire, ma c’è poi un modo del tutto originale di concepire la vita dentro la scatola. Ci specchiamo, noi spettatori, in un’immagine stralunata, che è questo stralcio di linoleum in bianco e nero dove due piccoli individui giocano la loro partita a scacchi. Sono giocatori e pedine al tempo stesso, Pe e Cri. Lei, mentre cerca di controllare la vita di lui, diventa a sua volta pedina della vita, controllata e controllante. Si impara a conoscere il mistero della malattia sul palcoscenico dei Carullo-Minasi: è vero che la paura della morte fa scattare un’incontenibile smania di controllare tutto, come se all’improvviso si potesse diventare onnipotenti. Cri supervisiona Pe, e per paura di perderlo lo schiavizza; lo gestisce perfino nell’alimentazione, negandogli il gusto della vita. Quel blister di pillole sembra l’unica via di salvezza. Ma sarà proprio lui, ammalato, a trovare la guarigione per entrambi. Pe riesce a comprendere una dimensione della vita vera e conduce lei a vedere, per la prima volta.

È in fondo una metafora della realtà contemporanea, dove il controllo del pensiero e delle azioni non ci permette di autodeterminarci. Avviene anche nell’alimentazione questa forma di schiavitù: le pillole rappresentano le medicine, a cui tutti ci affidiamo sperando che ci salvino, e anche gli integratori, un surrogato del cibo.

Basta guardare fuori dalla finestra un paesino con le case che si tuffano sul mare per immaginarsi lì dentro e guardarsi con occhi nuovi. Varcata la soglia del tappetino c’è tutto un mondo straordinario da vivere. E così Pe e Cri, incapaci di abbracciarsi, ingabbiati nelle loro seggioline rosse, riscoprono la ricchezza di una vita semplice e autentica.

La semplicità è la cosa più difficile da raggiungere. Finalmente “si impara a sognare per davvero dopo non aver fatto altro che dormire per finta”.
Nonostante si fosse partiti dal tema della malattia, della quotidianità patologizzata in vista di un’ipotetica salvezza fatta di prescrizioni e negazioni, lo spettacolo è misteriosamente - quasi per opposizione - approdato ai temi dell’amore, della creazione, della libertà, della conoscenza, del potere desiderare nonostante l’apparente impossibilità.
“L’amante, amando, anche se muore lascia al suo posto qualcosa di nuovo e simile a lui”. Prendendo in prestito l’immagine della scala infinita del Simposio di Platone, il testo passa in rassegna - frammento per frammento, scalino per scalino- piccoli, infiniti varchi di luce, molecole di polvere di stelle che messe tutte insieme danno luogo, forma, diritto e giustezza alla creazione. Amore non è vicenda personale tra due, sia pure formalmente appaia come tale, ma è vicenda universale, che deve attenere poeticamente a ciascun uomo.


Il dramma della malattia lascia spazio al trionfo dell’amore e così dal cuscino saltano fuori un velo bianco e un abito da sposa, come nei migliori happy ending. Per fortuna qualche volta le cose finiscono bene a teatro, e anche nella vita.

“E se volessimo che questo durasse per sempre? Non per tutta la vita, ma per sempre”.

Chi crede ancora nel “felici e contenti” non può che avere grandi sogni e speranze. Quali sono le tue, le vostre aspettative?

Scenario ha rappresentato una grande possibilità di conoscenza e ci ha aperto un mondo che non avremmo mai visto altrimenti. Ci siamo ritrovati ogni volta, dai 5 ai 20 fino ai 45 minuti, a discutere il nostro percorso con gente molto preparata.

Il più bel regalo di Scenario (a parte il premio)?

Non è il premio in sé, ma è l’incontro, che ti consente di crescere e di farti conoscere. Il premio consente gli incontri. E sei finalmente libero di poterti esprimere.

Dietro la vittoria del Premio Ustica c’è una responsabilità civile: te ne senti portatrice?

Ci sono tutta una serie di responsabilità a cui non ero abituata. Il Premio Ustica per noi è il premio più importante, perché il teatro deve essere civile: il teatro è di tutti e per tutti. Se viene meno l’impegno civile vuol dire che la società ha smesso di essere civile. Pur non essendo uno spettacolo storico, il nostro guarda alla società, prova a spiegare dei temi universali come la malattia, l’amore, la libertà e la dignità.

Se con una parola dovessi descrivere la tua esperienza a Scenario?

Formativa.



Foto di Marco Caselli Nirmal.

Ecco la motivazione della giuria:

“Laddove la quotidianità ha preso le sembianze della patologia, due piccoli giganti combattono una dolce e buffa battaglia per imparare a non fuggire dalla vita, usando le armi della poesia e dell’autoironia. Ma la struggente consapevolezza del limite, anziché spegnere desideri e speranze, diventa per loro il grimaldello con cui forzare la porta del futuro. Libertà è uscire dalla gabbia dorata di bugie protettive che impediscono di spiccare il volo a un’intera generazione.
Due passi sono per varcare quella soglia: si chiamano amore e dignità, guadagnati sul campo da un Romeo e Giulietta in miniatura, che non hanno paura di dormire per finta e sognare per davvero quella vita a lieto fine di chi, suo malgrado, ha assaggiato la morte”.


Igiene e apparenza
Spic & Span del trio foscarini:nardin:dagostin

di Giada Russo



Il trio foscarini:nardin:dagostin ha presentato al Premio Scenario il suo Spic & Span, un lavoro nato dal workshop Accademia Mobile di Emio Greco in cui Francesca Foscarini, Giorgia Nardin e Marco D’Agostin si sono incontrati e riuniti.
Spic & Span è un ironico e colorato spettacolo di danza sul trionfo dell’estetica: tre narcisi, due donne e un uomo, con occhiali da sole neri e sgargianti abiti alla moda, danzano una coreografia rigorosa e formalizzata, che attraverso una simmetria astratta ed essenziale ritrae il mondo di oggi, vuoto ma ben confezionato.
Spic & Span è un detersivo per la casa “lava tutto”: ne abbiamo tre esempi in tre diverse varianti bene in vista sul palco. Unici oggetti di scena insieme ai palloncini spasmodicamente gonfiati tra un passo e l’altro di danza, i tre flaconi da 750 ml diventano metafora di questa nostra società dell’apparenza.
In essi si identificano i tre danzatori mascherati: facce immutabili, serie e parallele, che non accennano mai a incrociarsi, mentre i loro corpi si intrecciano, si inseguono e si imitano ripetutamente. Sono manichini impazziti strappati alle vetrine che, impassibili perfino alla musica, danzano nel silenzio i loro passi precisi e studiati pure nel disfacimento, sempre omologati e omologanti. Dopo aver ingoiato senza sforzo i liquidi colorati di Spic e Span, i tre attori diventano contenitori svuotati. Assimilano se stessi, uomini e donne di oggi, a degli involucri, ripuliti di ogni differenza: si spersonalizzano oggettivandosi nelle cose, facendosi materia senz’anima. Solo alla fine, quando la scena si congeda in un via vai di luce e ombra, i tre “perfomer pop” provano a togliere via i grandi occhiali da sole e in pose da tableau vivant denunciano, sarcastici, l’inevitabile alienazione dei nostri tempi.



Foto di Marco Caselli Nirmal.

Ecco la motivazione della segnalazione speciale al Premio Scenario:

“La rincorsa all’adesione a un astratto modello di bellezza, che azzera ogni differenza e riduce tutti i corpi a macchinette impazzite, porta a una riflessione sulla persistenza e sulla vuotezza dell’immagine. Spic & Span crea la sua struttura drammaturgica su un vocabolario gestuale dotato di ritmo, precisione e forza iconografica, aprendo una dialettica tra costruzione e distruzione dell’immagine. Le scene, organizzate in sequenze paratattiche, si stagliano su un fondo bianco come fossero un fumetto pop e si nutrono di un immaginario non solo contemporaneo nella creazione di figure e pose, scelte musicali e sapienza compositiva”.

E se torna il teatro politico?
L’Italia è il paese che amo di ReSpirale Teatro

di Giada Russo



Era il 1994 quando l’imprenditore politico ex-presidente del consiglio Silvio Berlusconi annunciava il suo ingresso nella politica italiana con la fatale frase “L’Italia è il paese che amo”.
I quattro attori della giovane compagnia ReSpirale Teatro prendono spunto dall’attualità per rivisitare, attraverso veloci sequenze ironiche e travolgenti, gli ultimi decenni della storia contemporanea e rifletterci un po’ su insieme al pubblico. Qualcuno ha parlato di una scelta poco originale, eppure non sembrano essere mai abbastanza le occasioni in cui, con leggerezza e buon gusto, si parla (il che è già una conquista) della nostra storia comune prendendosi in giro, con quel pizzico di amarezza che costringe ognuno a fare i conti con se stesso e con la società intorno.
Questo viaggio nei luoghi della storia recente comincia dalla caduta del muro di Berlino (la prima scena nasconde i corpi degli attori dietro un muro di cuscini, pronti a cadere giù), fino alla caduta delle torri gemelle: si parte e si finisce, guarda caso, con una distruzione. La storia viene filtrata attraverso momenti di vita quotidiana per raccontare il modo in cui i giovani di oggi, proprio come i quattro attori in scena, l’hanno conosciuta. Non ci sono personaggi da interpretare, ma Veronica, Emanuele, Luca e Antonio. Uno di loro si fa presentatore televisivo e li annuncia al grande pubblico declamando la prima riga dei loro curricula. In offerta speciale per le prime dieci telefonate.
Lo spazio è una scatola bianca fatta di cubi multiuso: sono lampade che illuminano la scena, panchine per addominali da scolpire, cubi da discoteca dove esibirsi, tavoli da cucina dove abbuffarsi di latte e corn flakes per scacciare via l’inettitudine di questi tempi e, infine, sepolcri: lo spettacolo si chiude con l’estremo saluto alla bandiera tricolore.
I contrappunti, musicali e non, sono il segno distintivo di questo spettacolo e anche, in alcuni momenti, l’unico limite: le vittorie dei mondiali stridono con il rumore delle bombe, si corre sul tapis-roulant al ritmo delle parole di Giovanni Falcone, la sigla di Beautiful scorre appena prima della cronaca nera, e le frasi di Berlusconi vengono urlate al microfono da un dj esaltato. Tutto questo in scena funziona. È il contrappunto stilistico a rimetterci: il passaggio repentino da un registro all’altro. È certo che il linguaggio della comicità (sempre intelligente) sembra essere cucito addosso ai corpi di questo quartetto scoppiettante; i momenti poetici e dichiaratamente riflessivi forse brillano un po’ meno. Ma, fortuna loro, Veronica, Luca, Stefano e Antonio hanno tutto il tempo di sperimentare.

Ecco la motivazione della giuria:

L’Italia è il paese che amo segna il ritorno a un teatro politico, declinato al presente con audace e scanzonata freschezza. Una riflessione sulla contemporaneità che affronta con coraggio il passato recente attraverso un’originale e serrata sequenza di scene e quadri di vita dell’Italia anni Novanta. Un’indagine teatrale che rivela le radici prossime del nostro presente, dove l’illusione di un movimento vorticoso nasconde un sostanziale e asfittico immobilismo. La genuina capacità di prendere posizione e parola si realizza attraverso un linguaggio teatrale multiforme, che sovrappone e monta stili diversi, generi e ambienti abitati da tipi nazionali di immediata riconoscibilità. L’Italia è il paese che amo segna il ritorno a un teatro politico, declinato al presente con audace e scanzonata freschezza.”

 

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