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ISSN 2279-9184

ateatro 135.45
6/6/2011 
Uno spettacolo infinito in un teatro in fuga
Un’intervista a Luca Ronconi sul teatro di Rafael Spregelburd
di Oliviero Ponte di Pino
 



Rafael Spregelburd (foto di Fernanda Romero).

Il prossimo 24 giugno debutta al Festival dei Due Mondi di Spoleto La Modestia di Rafael Spregelburd con la regia di Luca Ronconi, protagonisti Francesca Ciocchetti, Maria Paiato, Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi. Lo spettacolo poi al Mittelfest e nel gennaio 2012 al Piccolo di Milano.
Il testo è uno dei sette “pannelli” della Eptalogia di Hieronymus Bosch, pubblicata in due volumi a cura di Manuela Cherubini da Ubulibri.
Nel ciclo della Eptalogia il drammaturgo argentino esplora i peccati capitali della post-modernità. Luca Ronconi aveva in animo di portarla in scena nella sua integrità: al regista abbiamo chiesto le ragioni del suo interesse per l’opera di Spregelburd.



Luca Ronconi.

Hai lavorato moltissimo sui classici, ma nella tua carriera non mancano le incursioni nella drammaturgia contemporanea. Anche se poi a volte pare quasi che la drammaturgia contemporanea non ti soddisfi del tutto, visto che spesso senti il bisogno di utilizzare testi non teatrali.

Non è affatto vero che non mi interessa la drammaturgia contemporanea, e non solo in questi ultimissimi anni. Nel 1978, quando ho fatto Calderón, Pasolini era contemporaneissimo...

...Wilcock, di cui nel 1971 hai portato in scena XX, pure...

Anche Infinities era drammaturgia contemporanea. In realtà il termine “drammaturgia” mi pare troppo generico. Ci sono scrittori per il teatro contemporaneo, e ce ne sono sempre stati, che però non chiamerei “autori”: sono piuttosto fornitori di copioni, secondo le regole teatrali vigenti in quel momento. Altri scrittori per il teatro sono invece propriamente “autori”: possiedono un linguaggio particolare, hanno un modo singolare di organizzare i materiali teatrali: sono gli autori che mi interessano di più.

Dunque è in primo luogo un problema di linguaggio.

Certo. Prendi in esame gli “ultimissimi”. Un autore come Jean-Luc Lagarce (di cui ho allestito Giusto la fine del mondo nel 2009) ha il suo linguaggio. Anche Botho Strauss, che ho messo in scena due volte (Besucher, 1989, e Itaca, 2007) ha una sua fisionomia, come Edward Bond, un altro autore che ho messo in scena due volte (Atti di guerra, 2006, e La compagnia degli uomini, 2011). D’altra parte, perché devo dire che non è un autore contemporaneo l’autore di Infinities, John Barrow? O Giorgio Ruffolo, di cui ho portato in scena Lo specchio del diavolo? E’ vero, hanno scritto due saggi, che però hanno avuto una forte resa teatrale...

La forza del linguaggio si coglie già alla lettura, sulla pagina, oppure è necessario aspettare di vederla incarnarsi in scena, nella parola degli attori?

Si vede subito, dalla pagina. Quando ho letto l’epistolario di Vittorio Foa, Miriam Mafai e Alfredo Reichlin, Il silenzio dei comunisti, mi sono detto: “Questo lo posso benissimo fare”, non tanto perché si tratta di testi scritti in prima persona, ma perché sono tre forme di linguaggio molto precise e diverse una dall’altra.

Quando metti in scena un classico sei sempre molto consapevole di tutte le varie messinscene di quel testo. Nel caso di un testo contemporaneo, questo non è possibile.

Infatti l’approccio è abbastanza diverso. Sui classici gioca molto la memoria che ne hai, le frequentazioni... Il lavoro su un testo contemporaneo mi piace molto e mi è sempre piaciuto, perché è sempre un lavoro di scoperta. Un testo contemporaneo lo puoi fare in vari modi. Per esempio, c’è chi va a vedere una commedia inglese al Festival di Edimburgo, e poi la riproduce più o meno uguale da in Italia, con gli opportuni accorgimenti. Un’operazione del genere non sarei capace di farla, per un motivo molto semplice: per me, a parte il linguaggio del testo, anche la lingua che parlano gli attori non è facilmente trasferibile in un’altra lingua. Ecco, mi interessa lavorare su testi contemporanei dove la scrittura presenta dei problemi. La stessa cosa sarebbe accaduta se fossi nato quarant’anni prima e mi fossi trovato a mettere in scena una commedia di Pirandello.

Quando dici che il linguaggio pone dei problemi, che cosa intendi?

Si tratta ogni volta di capire, non solo dal punto di vista drammaturgico, perché l’autore usa quella cadenza, quel ritmo, quel giro di frase... Insomma, non si tratta di leggere il testo come uno spartito che va in qualche modo ripercorso, e poi alla fine lo spettacolo viene fuori da solo. Si tratta invece di capire le ragioni che stanno dietro alle scelte dell’autore.

Quindi si tratta di andare a vedere quello che c’è aldilà e sotto il testo. Ma questo lo fai anche con Pirandello e con Shakespeare...

Il presupposto è cercare di entrare nella mente di chi ha fatto una cosa, e questo vale sia per i classici sia per i contemporanei...

Arrivando a Rafael Spregelburd, che cosa ti ha interessato quando hai incontrato i suoi testi?

Mi sono subito sentito un suo parente. Una volta mi hanno chiesto: “Qual è il tuo spettacolo ideale?”. Io ho risposto, e risponderei ancora, che è uno spettacolo infinito in un teatro in fuga. Lo sguardo un tantino scettico che mi viene quando si parla di “profondità”, e la curiosità che mi si sveglia immediatamente quando si parla di “estensione”, li ritrovo perfettamente in Spregelburd. E poi, come gli ho detto quando l’ho incontrato, il motivo per cui mi piace il suo teatro è che mi sembra che scriva commedie che si fanno da sole.

In che senso le commedie di Spregelburd “si fanno da sole”?

Sono organismi che proliferano quasi indipendentemente dall’autore. Anche se poi in realtà l’autore c’è, ed è presente in ogni cerniera. Tuttavia i suoi testi ti danno questa impressione: tanto è vero che in parecchie commedie, compresa La modestia, hai l’impressione che l’autore non riesca a trovarne la fine. E non lo considero un difetto o una mancanza.

Infatti Spregelburd è autore di testi molto lunghi, a puntate, che proliferano...

E questo mi piace molto.

Ma secondo te qual è il meccanismo generativo che porta a questa proliferazione infinita?

Le mie sono solo illazioni, ma credo che nel caso di Spregelburd sia il frutto di un senso storico molto preciso, da una forte consapevolezza della contemporaneità – e con questo non voglio certo dire dell’attualità. E’ un senso delle simultaneità contemporanee. In varie occasioni mi sono trovato a fare degli spettacoli in cui c’era una sincronia strutturale, con diverse azioni che accadono simultaneamente. Spregelburd parla addirittura di “struttura frattale”.

Quindi ti ha interessato il lavoro sul tempo, sulla durata e sulla simultaneità...

Nella sua drammaturgia si sentono anche le ascendenze della sua formazione matematica. E possiamo trovarci anche tantissimi antecedenti letterari, anche perché molto spesso la sua drammaturgia si rifà a topoi drammaturgici e narrativi molto riconoscibili.

Ed è argentino come Borges... Tuttavia lo scheletro logico-matematico che sostiene la sua drammaturgia, e questo intreccio di citazioni colte, poi si contaminano con l’aspetto pop, perché c’è una grande capacità di usare i linguaggi contemporanei...

E’ anche molto ludico...

...e molto ironico: nella Modestia ci sono varie stratificazioni ironiche. Ma questo, forse, per un regista come te pone un ulteriore problema. Hai detto che di fronte a un testo, vai a scavare quello che c’è dietro, o sotto. Di fronte a una scrittura di per sé così stratificata, che cosa puoi trovare?

Devi giocare anche temporalmente, prima una cosa, poi l’altra, poi un’altra ancora, per ricostruire la stratificazione che c’è nel testo.

Come ti poni di fronte ai meccanismi ironici della scrittura di Spregelburd?

Nella Modestia ci sono anche elementi patetici...

Tutta la vicenda russa lavora sul patetico...

E’ straziante!

Come i grandi romanzi russi dell’Ottocento... Ma con tutte queste suggestioni presenti nel testo, come riesci a richiudere il cerchio, a far quadrare l’aspetto logico di cui si parlava prima?

E chi lo sa? Vedremo...

Anche perché, di fronte a un testo di questo genere, il lavoro con gli attori non può certo andare verso l’approfondimento psicologico, lo scavo nell’interiorità dei personaggi...

Non avrebbe senso. L’idea stessa di identità individuale viene messa radicalmente in discussione. C’è un aspetto che mi piace molto della Modestia: questi personaggi – anzi, questi attori, perché c’è la condizione del personaggio e quella dell’attore... Ecco, quello che mi piace è che gli attori non dovrebbero mai sapere con precisione se stanno in una storia o nell’altra. Quella sensazione di essere sempre profughi, di vivere continuamente le vite degli altri, mi pare che sia una caratteristica dei personaggi di Spregelburd. Molte delle sue commedie – penso a Il panico, a La paranoia – sono “bilocate”: si svolgono in più posti, in due luoghi se non in quattro. Dunque emerge la sensazione di essere un po’ i fantasmi di altri: nella Modestia questa sensazione è fortissima, si usano gli attrezzi di altri, i personaggi si siedono dove altri si sono seduti, si sdraiano su letti che appartengono ad altri, perché sono nell’altra storia... E’ una cosa bella e interessante: la riflessione sul rapporto tra l’attore e il personaggio si moltiplica all’ennesima potenza.

Su Spregelburd avevi un piano più ambizioso rispetto alla messinscena di un unico testo.

Sarei partito quest’anno portando in scena io tre testi suoi, e poi in futuro mi sarebbe piaciuto allargare l’esperienza anche ad altri colleghi, per presentare tutti i sette testi della Eptalogia.

Forse ci si riuscirà, con il tempo.

Farò di tutto per riuscirci, perché mi pare che si tratti di un autore che merita di essere conosciuto. Molto teatro contemporaneo prende i suoi temi dal giornalismo, dall’attualità, dalla cronaca: a volte questo dà origine a testi belli, altre volte a testi meno belli, ma sempre un po’ precotti. Spregelburd è invece un autore che si è affidato a una percezione della contemporaneità che corrisponde al nostro tempo ma non è cronachistica, lavora sull’immaginario. Ho sempre pensato che in teatro un tema contemporaneo, se lo cali nelle forme e nelle strutture consuete (il personaggio, il dialogo, la trama, l’intervallo, eccetera), alla fine tanto contemporaneo non risulta. Gira e rigira, quei testi sembrano tutte commedie dell’Ottocento: quelle forme non riescono più a contenerci, non ci stiamo più dentro...

Un altro aspetto che ti ha incuriosito è che questi testi non sono scritti da un letterato, ma da un uomo di teatro.

Lo senti subito! Una battuta di Schiller o di Ibsen può essere recitata bene o recitata male, ma resta, ha una sua autonomia. Invece una battuta di Spregelburd pretende di essere recitata.

Perché non è letteratura?

E’ anche letteratura, e questo è il suo bello. Però va in due direzioni diverse: da una parte c’è un gioco letterario, e infatti il testo, se lo leggi, funziona benissimo; d’altra parte, però, se il gesto e la voce non se ne fanno carico, improvvisamente quel gioco sparisce e rischia di restare solo una lettera piatta. Tenendo presente che il gesto e la voce dell’attore apparentemente possono dare molto, ma possono anche togliere molto.

Un altro aspetto che conferma la forza di questo testo è la precisione dei rapporti tra gli attori, tra i personaggi, tra gli spazi, tra i tempi... E’ una consapevolezza che un autore può raggiungere solo se è abituato a fare teatro, a muovere gli attori in scena.

Del resto le didascalie che costellano il testo sono fatte sulla rappresentazione. Le ripropongo tutte, perché fanno parte del testo.

A volte nel caso dei classici sei andato “contro” il testo. Nel caso di un autore contemporaneo si può fare? Ha senso farlo?

E’ un po’ difficile. I classici ormai sono diventati una terra di nessuno. Però con un testo contemporaneo, invece, è possibile in qualche modo sbagliarsi, cadere in qualche equivoco, non capire.

Stai facendo lavorare duramente gli attori. Anche perché non devono sbagliare...

Non è facile. Devono capire bene perché ci sono quelle parole, perché quella parola ne chiama un’altra... La maggior parte degli attori ha sempre la tendenza alla psicologia, alla ricerca della verità. Con questo testo diventa molto difficile.

A quel punto, però, se gli attori non si possono agganciare a questo, che cosa resta?

Devono trovare qualcos’altro a cui agganciarsi. Per esempio, c’è una scena in cui un personaggio – quello che interpreta Fausto Russo Alesi – gioca a carte un gioco che non conosce e contemporaneamente tratta un affare. Potrebbe diventare una specie di cliché comico, ma in realtà viene molto meglio, ed è più divertente, se senti che l’attore si mette in una specie di bilocazione reale: può ascoltare e giocare, controllando contemporaneamente due codici completamente diversi. E’ una facoltà che esiste, c’è qualcosa di reale, di fisiologico. Sono procedimenti mentali e cognitivi che possiamo seguire, una situazione in cui le parole ti vengono da sole e non devi andarle a cercare...

Questo meccanismo è già presente nel testo?

Sì, e l’attore deve eseguirlo. Questo non vuol dire che non ci deve mettere del suo: però può metterci qualcosa di suo solo sopra questa cosa, solo dopo aver restituito quello che c’è nel testo: per l’appunto questo essere perennemente bilocati.

La bilocazione è una qualità che attribuivi in senso generale alla drammaturgia di Spregelburd, e che si riflette anche nel lavoro dell’attore.

La nostra tendenza “italiana” consiste nel recitare sempre per convincere l’altro. L’attore cerca di essere convincente, vuole avere ragione. Invece in questa commedia l’obiettivo è frastornare, deviare...

Tutto questo sullo spettatore che effetto può o deve avere?

Nel migliore dei casi, dovrebbe accadere quello che capita con certi film di Hitchcock, come Marnie o La finestra sul cortile: capisci che tutto quanto ha una regola, però fatichi un po’ a trovarne la chiave.

Il pericolo è che la chiave venga fuori troppo facilmente?

Oppure che non venga fuori affatto...

L’altro aspetto interessante della drammaturgia di Spregelburd, come abbiamo visto, è che offre diversi livelli – e dunque chiavi – di lettura. C’è lo spettatore a livello – diciamo così – di telenovela, che viene catturato dalla trama, dalle vicissitudini dei vari personaggi. C’è lo spettatore in grado di decodificare i riferimenti più o meno colti, teatrali, letterari e cinematografici, e quindi si diverte ironicamente a smontare il meccanismo... Ma sotto c’è ancora qualcos’altro?

Beh, qualche ambizione filosofica c’è. Vuole essere un teatro scientifico, in qualche modo.

L’oggetto di questa scienza?

La perdita d’identità è sicuramente un tema.

(Milano, 16 maggio 2011)


Il sito di Rafael Spregelburd.

 

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