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ISSN 2279-9184

ateatro 135.58
Frammenti di critica della ragion comica
da Forme del pensiero che ride a cura di Margherita Rubino, Genova, 2011
di Oliviero Ponte di Pino
 



Allor le risa Margutte raddoppia,
e finalmente per la pena scoppia.
Luigi Pulci, Morgante Maggiore


I.

Qualche tempo fa sarebbe stato impensabile.
Clown attivi nei reparti ospedalieri riservati ai bambini, a cominciare da quel Patch Adams che nel 1998 ha ispirato il film omonimo, protagonista Robin Williams. E sulla scia di Patch Adams, in Italia ci si muove da Torino, con i “Clown-Volontari del sorriso”, a Reggio Calabria, con i “Clown in corsia”. Clown come il francese Miloud, che recuperano dall’abbandono e dalla disperazione i bambini di strada di Bucarest e di altre città della Romania.
Il comico invade anche la pedagogia. Da anni Moni Ovadia riempie i teatri con le sue barzellette teologiche. S’impara la filosofia con Thomas Cathcart e Daniel Klein, in volumi come Platone e l’ornitorinco. Le barzellette che spiegano la filosofia (Rizzoli, Milano, 2007), e il sequel Heidegger e l’ippopotamo. Le barzellette sull’aldiqua che spiegano l’aldilà (Rizzoli, Milano, 2009); oppure con Risosofia. Aristotele, Kant, Hegel, Marx, Freud e altri burloni di Pedro González Calero (Ponte alle Grazie, Milano, 2010). Libri come questi, inconcepibili ai tempi di Immanuel Kant o di Benedetto Croce, sono tra i frutti dell’“edutainment”, sintesi di “education” ed “entertainment”, che significa più o meno “educare divertendo”, cioè senza fatica, con leggerezza, in maniera ludica: con una premessa del genere, il passo verso il comico è molto breve. Lo stesso vale per l’“infotainment” che contamina informazione e intrattenimento: ne sono un sintomo le prime pagine di quotidiani come “il manifesto” e “La Voce”, costruite su collage visivi e titoli a volte irresistibilmente comici; di recente sulla loro scia si sono mossi, anche se in maniera meno sistematica, “Libero”, “il Giornale” e “l’Unità”.
Forse non è un caso che sia stato un giornalista, Norman Cousins (1915-1990), a divulgare per primo il concetto che ridere fa bene alla salute, in diversi best seller ispirati alla propria esperienza (tra tutti La volontà di guarire. Anatomia di una malattia, ed. or. 1976, Armando, Roma, 1982). La sua cura consisteva in tre-quattro ore di film comici al giorno (a cominciare dai fratelli Marx) conditi con 15 grammi di vitamina C: questa dieta gli permise di guarire dalla una malattia devastante come la spondilite anchilosante, aumentando le sue difese immunitarie.
Recenti studi della Loma Linda University in California hanno confermato le intuizioni di Cousins. A venti volontari sono stati somministrati ogni giorno, per diverse settimane, venti minuti di spezzoni di film comici. I ricercatori hanno rilevato che ridere riduce la produzione di ormoni come cortisolo ed epifrenina, legati allo stress; riduce nel sangue il livello del colesterolo e di una serie di proteine collegate a uno stato di infiammazione del vasi sanguigni che portano all’arteriosclerosi; abbassa la pressione; stimola l’appetito; genera endorfine, gli ormoni del buon umore e della resistenza al dolore (“la Repubblica”, 28 aprile 2010).
Studi come questo rientrano in un nuovo campo di ricerca, la psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI), che studia “olisticamente” gli effetti degli stati d’animo sulla salute, e più precisamente il rapporto tra attività cerebrale e sistema immunitario. A questa scienza nuova si affianca la “gelotologia” (dal greco ghelos = riso e logos = scienza), la disciplina che studia la risata, il buonumore e il pensiero positivo come rimedio a numerosi disturbi e malattie psicofisiche. Inevitabile, dopo la pubblicazione di libri come quelle di Mario Farné, Guarire dal ridere. La psico-biologia della battuta di spirito (Bollati Boringhieri, Torino, 1995), e di Sonia Fioravanti e Leonardo Spina, La terapia del ridere. Guarire con il buon umore (Red, Como, 1999), l’approdo alla “terapia della risata” e alla “risoterapia”, che viene presentata così:

Attraverso la partecipazione ad esercizi, giochi, improvvisazioni e performance ogni allievo imparerà a liberare il proprio Clown ed a utilizzare la propria creatività umoristica come risorsa per il proprio benessere.
- Occhio Comico, Senso dell’Umorismo e Umorismo
- sblocco condizionamenti e “corazze” caratteriali
- la dimensione del gioco
- la nascita del proprio Clown
- la deformazione comica della realtà
- iperboli e paradossi
- la creatività “anticonformista”
- trasformazione del negativo in positivo
- distacco emotivo dalla problematicità del quotidiano
- allontanamento dello stress
- gestione dei conflitti
- gestione dei rapporti sociali conflittuali
- ironia ed autoironia
- satira e parodia come sublimazione dell’aggressività
- autostima ed equilibrio
- liberare e far vivere il proprio Clown nel quotidiano
(da sito www.morinibros.it, maiuscole nell’originale)

Si organizzano su questa base week end con corsi di “gestione comica dei conflitti”, che si sperano tanto intensi quanto spassosi.
Non viene risparmiata nemmeno la sfera del lavoro. Nel 1994 la British Airways ha nominato un suo dipendente, Paul Birch, “corporate jester”, ovvero “giullare d’azienda”, con il compito di evidenziare i problemi dell’organizzazione e proporre soluzioni. La pratica si è diffusa ad altre multinazionali. La bibbia dei buffoni aziendali si intitola The Secret Life of the Corporate Jester: A Fresh Perspective on Organizational Leadership, Culture and Behavior (ovvero “La vita segreta del giullare d’azienda: una nuova prospettiva nella leadership, nella cultura e nel comportamento delle organizzazioni”) di David T. Riveness (Jardin Publishing, Santa Clara, CA, 2006). In Italia è attivo il “giullare d’impresa”® Gianni Ferrario, mentre la tecnica manageriale della buffoneria d’azienda viene approfondita all’Università di Torino:

La tecnica del buffone di corte o del buffone sapiente è un recupero in campo aziendale della figura storica del giullare presso le antiche corti (...) Questa tecnica è oggi utilizzata in riunioni particolarmente delicate, per fare emergere i sottintesi e il “non detto” oppure per stimolare – attraverso opportune provocazioni – l’uscita dai cliché consolidati e suscitare l’adozione di un approccio più creativo alla soluzione dei problemi.
(Roberto Micali, Associazione Culturale ArTeMuDa, dal sito www.teatrosocialedicomunita.unito.it dell’Università di Torino)

Anche le arti, che già l’avevano nel codice genetico, sono state sempre più infettate dal virus del comico, nelle sue varie sfumature. Dopo che Flaubert ha cantato le gesta di due immortali “eroi stupidi” come Bouvard e Pécuchet, dopo che Kafka, leggendo le proprie opere, faceva sbellicare dalle risate i suoi ascoltatori, molta della migliore letteratura contemporanea è diventata per sua stessa natura ironica. Le arti visive – con il loro gusto della provocazione – tendono piuttosto al grottesco, più precisamente al “comedic”, per dirla con il sottotitolo di Black Sphinx. On the Comedic in Modern Art (a cura di John C. Welchman, jrp|ringer, Zurigo, 2010, che raccoglie gli atti del quarto simposio del SoCCAS, il consorzio delle scuole d’arte della California Meridionale). In campo musicale, Giangilberto Monti si è inventato il termine “comicanti” per identificare gli artisti che coniugano musica e risata: per esempio Renato Carosone ed Enzo Jannacci, Rino Gaetano ed Elio e le Storie Tese, fino a Flavio Oreglio. “Il design italiano di oggi? Spiritoso, anzi spiritosino” titolava un’intervista ad Alessandro Mendini. Il guru del postmoderno spiegava: “I giovanissimi designer italiani, oggi? Fanno al massimo cose spiritose, anzi spiritosine: ‘allegretti ma non troppo’, li definirei” (“il Venerdì di Repubblica”, 10 marzo 2010).
L’ironia – e persino l’autoironia – hanno superato le resistenze degli inserzionisti pubblicitari, che tendono sempre a prendere i loro prodotti molto sul serio: lo ha notato Annamaria Testa, grazie al successo delle sue campagne (dalla Golia che “sfrizzola il velopendulo” al golfino “nuovo o lavato con Perlana”), e ne ha parlato ampiamente nei suoi libri.
Sono solo alcuni segnali sparsi, raccolti con una rapida indagine. Tuttavia paiono registrare una tendenza più ampia: il comico, nelle sue diverse forme, è tracimato. Invade il terreno del “serio”, dai luoghi di lavoro alle aule scolastiche. Penetra nelle trincee più angosciose del dolore: nei reparti pediatrici e tra i malati terminali di tutto il mondo circolano dottori con il naso da giullare.
Un tempo il riso era regolamentato molto più rigidamente, anche se non sempre in maniera esplicita. Il comico veniva considerato “basso” e volgare, fisico e plebeo, “locale” e deperibile (“Una battuta è come il pesce: dopo tre giorni puzza”). Per alcuni era addirittura demoniaco e sovversivo: se non era possibile eliminarlo del tutto dai rapporti sociali, andava controllato e neutralizzato. Così il comico si è ritrovato a lungo confinato in ambiti spaziali e temporali abbastanza precisi: storicamente l’esempio più tangibile è la stagione teatrale del Carnevale, prima della triste Quaresima in cui gli attori restavano disoccupati.
Anche nella cultura dello spettacolo (quella che avrebbe dovuto essere più sensibile al tema) il comico veniva considerato un’espressione di serie B: basti pensare alla fortuna di Totò, in vita amatissimo dal pubblico e ignorato dagli intellettuali (quasi tutti), salvo poi essere assunto post mortem nell’empireo dei grandi. Nel 1996 il critico d’arte Achille Bonito Oliva gli ha addirittura reso omaggio con un documentario, Totòmodo: l’arte spiegata anche ai bambini, un montaggio di spezzoni in cui il celebre attore fa l’artista o parla d’arte.


II.

Ma se davvero la nostra società è preda di questa progressiva deriva verso il comico, che cosa può averla determinata?
In parte – e se n’era accorto Guy Débord – la società contemporanea si è andata sempre più mediatizzando e spettacolarizzando. Lo slittamento verso il comico è una conseguenza di questa trasformazione. Un’altra ragione di questo slittamento, collegata a questa, è la commistione (o la confusione) tra “alto” e “basso” che caratterizza la cultura contemporanea.
Tuttavia il ricorso alla “pratica comica”, e in particolare l’onnipresenza di ironia e autoironia, riflette forse una trasformazione più profonda.
In passato la nostra identità sociale, sessuale, professionale, religiosa, ideologica, generazionale, era determinata in maniera assai rigida e stabile (con una mobilità sociale ridotta). Si esprimeva con segni espliciti, spesso rigidamente codificati: basti pensare al sistema di regole che regolava il vestiario e i suoi colori nelle società medievali; ma anche, in tempi più recenti, all’immediata riconoscibilità delle persone in base al loro abbigliamento, o al loro accento e linguaggio, in un mosaico di diversità cancellato da quella che Pier Paolo Pasolini ha definito “omologazione”.
Il Novecento è stato invece “l’età del sospetto”. Marx, Freud e i maestri dello strutturalismo ci hanno insegnato che la realtà sociale e dunque la nostra identità sono assai più complesse di quanto riusciamo a percepire: l’alienazione marxiana, la scissione freudiana in Io, Es e Super Io, la scoperta di strutture che governano a nostra insaputa i nostri comportamenti (il linguaggio e “le strutture elementari della parentela”), rivelano che siamo attraversati e determinati da fratture e stratificazioni che possono generare conflitti interiori, a volte drammatici, e si riverberano nella società.
Nell’“età del sospetto” era possibile utilizzare complessi strumenti ideologici (il marxismo, la psicoanalisi, lo strutturalismo) per smontare il meccanismo e identificare le linee di faglia che attraversavano la nostra soggettività, e dunque i suoi diversi livelli, quelli espliciti e quelli rimossi, con i loro rapporti reciproci; a quel punto, si potevano trasformare i conflitti nascosti in “discorso”, in “narrazione” ed eventualmente passare all’azione (terapeutica o politica).
Nel corso del Novecento, da questa “età del sospetto” siamo passati, per dirla Zygmunt Bauman, a una “società liquida”. La nostra soggettività si è ulteriormente frammentata, sfrangiata, sciolta, liquefatta. Non abbiamo più un’unica identità, ma siamo un reticolo di possibili identità che attiviamo a seconda delle circostanze e dei contesti.
Alcune identità (o meglio, alcune schegge di identità) ci sono in vario modo imposte da vincoli sociali, ma altre le possiamo scegliere in base alle nostre inclinazioni e ai nostri desideri. Possiamo sempre più spesso smettere una maschera per indossarne un’altra, e a volte lo facciamo più di una volta nel corso della stessa giornata. Sempre più spesso emigriamo, per i motivi più diversi, e cambiamo paese. Ci possiamo convertire a un’altra religione. Scegliamo un hobby o una squadra per cui tifare. “Non sapevo che tu facessi anche questo”: può essere uno sport, una pratica religiosa, una perversione... Ormai il vecchio tormentone “Ci sei o ci fai” ha una risposta obbligata.
Nell’“età del sospetto” si poteva pensare di “aggiustare” la struttura alienata dell’io e ricomporre la struttura sociale divisa in classi, rimettendo in sesto i rapporti tra i diversi piani. Nella “società liquida” si tratta piuttosto di regolare il flusso delle identità e di renderlo per quanto possibile armonico, omogeneo, evitando eccessivi sbalzi di pressione: quelli che creano i gorghi e mulinelli nella corrente turbinosa della soggettività.
Questo meccanismo lo si può subire, lasciandosi trascinare da pulsioni e affinità, per quanto lo consentono i diversi contesti sociali. In alternativa, possiamo diventare dei “fanatici” e “fondamentalisti”: fissarci su un’unica identità-pulsione, sprofondarci un’ossessione che riempia tutto il nostro io. Ma con queste opzioni non si governa certo il flusso della soggettività.
Esiste però un’altra opzione. Cercare di vedersi per quanto possibile dall’esterno, oggettivarsi o meglio – seguendo Bertolt Brecht – “straniarsi”, per diventare consapevoli del nostro gioco di maschere identitarie e cercare in qualche modo tenerle in equilibrio. Lo strumento che promette di reggere questo difficile gioco è l’autoironia: perché ci dà la consapevolezza del mosaico che siamo, e ci permette di scaricare le tensioni
Il segreto del successo dei comici di cultura ebraica, spesso esuli (testimoniato dal saggio di Lawrence J. Epstein, Riso Kosher: Risata per risata, l’ incredibile storia dei comici ebrei americani (prefazione di Moni Ovadia, Sagoma, Vimercate, 2010), è forse questo: perché il cuore della loro comicità è un’autoironia che nasce da un’identità complessa, stratificata. Presuppone la consapevolezza di essere minoranza, radicata in una diversità che rende impossibile ricondurre l’identità personale a un unico denominatore, a una stabilità che sarebbe solo consolatoria.
Le possibili metafore per capire la nostra identità “liquida” non possono più essere quelle dell’archeologia e della geologia (gli strati sommersi da riportare ala luce, le placche che si scontrano e confliggono), e nemmeno quella della geografia e della conquista (“Là dove c’era l’Es, ora deve esserci l’Io”, ovvero la missione che si era data Freud). Siamo più vicini ella dinamica dei fluidi, all’idraulica, ai vasi comunicanti: con correnti che a volte si organizzano il lamelle che scorrono in maniera omogenea e relativamente ordinata, e poi gorghi improvvisi, vortici di carattere caotico. L’autoironia forse ci aiuta a tornare da un flusso turbolento a un flusso stazionario. E’ così che, grazie alla lezione di Lenny Bruce, Woody Allen e soci, siamo (quasi) tutti diventati autoironici.
Questo cambiamento della nostra struttura personale profonda ha conseguenze di carattere generale.
Siamo (almeno in teoria) diventati tutti uguali, e questo ci spinge a cercare di diventare tutti diversi (o almeno a illuderci di esserlo), costruendo la nostra identità pezzo per pezzo, in un collage postmoderno. Siamo una società di uguali che cercano invano di rendersi diversi, speciali per trovare una idenità.


III.

In passato uno dei dispositivi più complessi per regolare il comico nei rapporti sociali era la coppia formata dal re e dal suo buffone, che trova l’espressione più tipica nel rapporto tra il Lear e il Fool nella tragedia di Shakespeare. In questo dispositivo, la critica comica al potere poteva essere esercitata, ma in un quadro ben definito: la satira era prerogativa esclusiva del Fool, l’unico suddito privo di un preciso ruolo – e dunque privo di identità – all’interno del corpo sociale.
Non sorprende che nelle società contemporanee il ruolo della satira politica sia diventato cruciale, sotto la spinta di due processi paralleli che però interagiscono tra loro.
Da un lato il potere è diventato via via più democratico. Non siamo più governati da un sovrano “per grazia divina”, dal quale dipende l’intera struttura sociale. A governarci sono – per fortuna – cittadini come tutti gli altri, cittadini come noi, che noi stessi abbiamo eletto. Insomma, a governarci è un leader, ma uguale in tutto e per tutto ai suoi governati-elettori. E’ un paradosso: il politico da un lato deve sostenere: “Sono come voi”, anche se in realtà non lo è, perché il potere porta sempre con sé qualcosa di sacro e di terribile: un’aura che l’oscena risata del buffone insieme riconosce e nega.
Nell’era dell’autoironia di massa (testimoniata da infiniti post sui social network), il politico ha un grosso handicap. Nel momento in cui smette di essere un “unto del signore” o un “tecnico” che ha imparato l’arte del governo, deve dimostrare di poter indossare tutte le maschere e di essere il più bravo: il più ricco, l’imprenditore di successo internazionale, l’intellettuale in grado di scrivere la prefazione ai capolavori della filosofia, un campione dello sport (o in alternativa il presidente-allenatore di squadre vincenti), un cantante ammaliante (meglio ancora se cantautore), un bravo padre di famiglia ma anche un irresistibile seduttore (con performance erotiche degne di una pornostar), il più giovane (o almeno “giovanile”) e insieme il più saggio (cioè ammaestrato dagli anni), e poi presidente-operaio, presidente-ferroviere, presidente-soldato, presidente-guardia giurata (con tanto di giubbotto e stemma)… Questo trasformismo potrebbe ricordare le esibizioni di Mussolini, con il suo superomismo da Maciste paesano: all’epoca le masse potevano prenderlo sul serio, oggi è meno probabile.
Dall’altro lato, come abbiamo visto, il comico ha allargato il proprio ambito. Divertirsi da morire è l’apocalittico titolo del profeta dell’Avvento Comico, Neil Postman, che già nel 1985 ci avvertiva del pericolo:

La gente sarà felice di essere oppressa e adorerà la tecnologia che libera dalla fatica di pensare. Orwell temeva che i libri sarebbero stati banditi; Huxley, non che i libri fossero vietati, ma che non ci fosse più nessuno desideroso di leggerli. Orwell temeva coloro che ci avrebbero privato delle informazioni; Huxley, quelli che ce ne avrebbero date troppe, fino a ridurci alla passività e all’egoismo. Orwell temeva che la nostra sarebbe stata una civiltà di schiavi; Huxley, che sarebbe stata una cultura cafonesca, ricca solo di sensazioni e bambinate. Nel Ritorno al mondo nuovo, i libertari e i razionalisti – sempre pronti ad opporsi al tiranno – “non tennero conto che gli uomini hanno un appetito pressoché insaziabile di distrazioni”. In 1984, aggiunge Huxley, la gente è tenuta sotto controllo con le punizioni; nel Mondo nuovo, con i piaceri.
(Neil Postman, Divertirsi da morire, ed. or. 1985, Marsilio, Venezia, 2002)

Il riso offre ovviamente la migliore delle distrazioni: il comico ci sorprende, causando un’immediata reazione fisica.

Postman ci metteva in guardia dai falsi miti offerti dalla tv, dalla priorità data alle immagini piuttosto che ai contenuti, dalla logica dello logica dello spettacolo che ci abbindola e ci trascina nel “mondo del cucù!” (p. 84) che ci viene costruito intorno, un mondo fatto di piccole sorprese che si susseguono a ripetizione, sconnesse e slegate tra di loro, che non riescono ad offrirci nulla di più di un discorso povero, superficiale, frammentario e poco approfondito, ma purtroppo quasi sempre divertente.
(ibid., dalla prefazione di Mauro Bonocore)
Inevitabilmente, il comico ha infettato anche la politica. Nella società dello spettacolo, e della “politica spettacolo”, l’uomo politico diventa anche “entertainer”. Come i bravi intrattenitori, usa le armi del comico in varie maniere. In primo luogo, le usa per sedurre e allietare i suoi spettatori – o meglio, i suoi elettori: deve risultare “simpatico”, evitare a ogni costo di apparire noioso; e deve continuamente sorprendere un pubblico volubile e distratto, che altrimenti rischia di dimenticarlo, attratto da più pimpanti ed estrose soubrettes politiche. La battuta azzeccata serve anche per infilzare gli avversari, e controbattere i loro sarcasmi, appoggiandosi spesso più a caratteristiche fisiche o psicologiche che a idee, programmi, progetti: si creano così duetti, magari protratti nel corso del tempo, degni della Commedia dell’Arte.
In questo scenario, “dettare l’agenda della politica” non significa tanto imporre al dibattito pubblico i temi cruciali, in vista delle decisioni da prendere: è più importante, e anzi è indispensabile per la sopravvivenza politica, occupare la scena mediatica (il che consente tra l’altro di sfuggire alle responsabilità, alla “accountability”, in una girandola di trovate “notiziabili”). Anche per questo la “politica dello scandalo”, con il suo strascico di caricature e barzellette, caratterizza la scena politica contemporanea. La parabola del bunga-bunga è esemplare: all’inizio era una barzelletta vagamente scollacciata da cabaret o da convention aziendale; poi è diventata un rituale iniziatico, con riferimento a precise pratiche sessuali; infine è esplosa come scandalo erotico-politico. Sul piano dell’immagine pubblica, l’indescrivibile bunga-bunga è costato molto più caro delle accuse di collusione con la mafia, di evasione fiscale, di corruzione dei giudici...
Oggi il comico e il politico paiono sempre più vicini, fin quasi a confondersi. Il caso italiano non è certo unico, solo estremo, radicale, e dunque esemplare: apre uno spiraglio sul futuro. Da quasi vent’anni la scena politica del nostro paese è dominata da un imprenditore che conosce alla perfezione i meccanismi dello show business: ha iniziato come intrattenitore sulle navi da crociera e poi ha fondato e gestisce un impero televisivo commerciale, che rospera su indici d’ascolto e introiti pubblicitari. Conosce dunque alla perfezione caratteristiche e desideri dei telespettatori (in pratica di tutti). Non è tutto: “Se avesse le tette, farebbe anche l’annunciatrice”, come diceva Enzo Biagi. Perché ha un gusto istrionico, prova un piacere esibizionistico nel sedurre il suo pubblico e sa come si tiene la scena. Si è costruito un repertorio molto ampio, degno di uno stand up comedian: “Conosco più di duemila barzellette”, si vanta. In Il re che ride. Tutte le barzellette raccontate da Silvio Berlusconi (Marsilio, Venezia, 2010), Simone Barillari ha raccolto 97 storielle raccontate nell’arco di vent’anni.
Molte delle barzellette e delle battute berlusconiane sono “politicamente scorrette”. Oltre agli avversari politici (primariamente “i comunisti”), nel mirino di questo umorismo identitario e aggressivo sono finite varie categorie: le donne (a cominciare da Rosy Bindi), i neri (Obama, il presidente degli USA, e Marysthelle, che con il premier ha “fatto sesso ma senza bunga-bunga”, sono entrambi “abbronzati”), gli ebrei (la terribile battuta sul kapò al parlamento europeo), gli omosessuali (del resto l’interessato tiene a precisare: “Meglio puttaniere che gay”).
“L’Osservatore Romano” giudica uscite di questo tenore “deplorevoli”, ma solo gli ingenui possono pensare che le scorrettezze politiche “gli scappino”. Al contrario, grazie alla facciata comica è possibile tirare il sasso e nascondere la mano (“Era solo una battuta… Scherzavo…”), inviando all’elettorato messaggi precisi, che ne interpretano gli umori e le pulsioni profonde e li fanno emergere, proiettandoli sulle prime pagine. Insomma, riscattano gli pseudo-pensieri vagamente razzisti e discriminatori dalla chiacchiera da bar, per legittimarli e inserirli nell’agenda politica, rinsaldando i meccanismi di riconoscimento e identificazione tra il leader e i suoi fan.
La vena giullaresca del nostro premier ha allietato anche i vertici internazionali, per lo sconcerto dei grandi leader mondiali e della stampa, ma trionfano su Youtube: dalle corna al ministro degli Esteri spagnolo Josep Piqué in occasione di una foto di gruppo (a Caceres nel 2002) al cucù al cancelliere tedesco Angela Merkel (a Trieste nel 2008). Ovviamente l’azione politica di un leader non si esaurisce in questi episodi marginali: tuttavia fanno parte della sua immagine. Chi si esibisce così si differenzia da tutti i suoi predecessori, che della politica interna e internazionale avevano un’idea più seria (o seriosa) e meno “personalistica”.

Per simmetria, al politico-giullare corrisponde il giullare-politico. Ci sono diversi precedenti di uomini di spettacolo prestati alla politica: dal regista italiano Guglielmo Giannini, che nel 1946 alla guida del Partito dell’Uomo Qualunque ottenne il 5,3% alle elezioni per l’Assemblea Costituente, a Ronald Reagan (da attore di western di serie B a presidente degli USA) e Arnold Schwarzenegger (da campione di culturismo e Terminator cinematografico a governatore della California). Nell’ottobre 2010 il clown brasiliano Tiririca (all’anagrafe Francisco Silva) è stato eletto alla camera bassa con 1.350.000 voti (un record), dopo una campagna centrata sullo slogan: “Cosa fa un deputato federale? Veramente non lo so, ma votami e te lo spiego”.
Dal canto suo l’Italia, oltre a numerosi parlamentari provenienti dallo show business, può vantare la prima pornostar e il primo transgender eletti in Parlamento: per merito di Ilona Staller, in arte Cicciolina, candidata nel 1987 dal Partito Radicale, e di Wladimiro Guadagno, in arte Vladimir Luxuria, candidata nel 2006 da Rifondazione Comunista e vincitrice nel 2008, a furor di tele-popolo, dell’Isola dei famosi, quasi a dimostrare che la trasformazione non è irreversibile, anzi.
E’ inutile ricordare, attingendo alla storia dello spettacolo leggero, i numerosissimi comici censurati per le loro prese di posizioni politiche: dal triestino Angelo Cecchelin (incarcerato prima dall’Italia fascista e poi da quella Repubblicana) a Dario Fo e Franca Rame. Sono numerosi anche i comici italiani che si sono inventati una candidatura o addirittura un partito politico da lanciare nei loro spettacoli e nei loro film. Primo tra tutti l’irresistibile Antonio La Trippa, il candidato del PNR interpretato da Totò in Gli onorevoli (1963). Nel 1995, all’alba della Seconda Repubblica, ci aveva pensato anche Claudio Bisio:

Quando eravamo a Viterbo, sui muri della città c’erano manifesti del mio spettacolo Tersa Repubblica, dove mi si vede in una immagine bella patinata, vestito di tutto punto, sorriso a trentadue denti, lo sguardo rassicurante. Un po’ in stile seconda Repubblica, insomma. Quando il sindaco, credo democristiano, li ha visti si è allarmato: “Bisio? Chi è ‘sto Bisio? Sarà mica il candidato di Forza Italia?”, pare abbia chiesto ai suoi collaboratori. “Che fa? Comincia già ora la campagna elettorale? E’ sleale!”

Bisio aggiungeva di avere già pronte “alcune risposte per l’Italia”, tra cui “Sì”, “No”, “Come no”, “Certamente”, “Neanche da chiederlo”, “Sì al meglio”, “No al peggio”, “Sì al nuovo”, “No al nuovo”. La strategia delle affissioni (con l’aggiunta di gazebo e raccolta firme nelle piazze) l’ha seguita nel gennaio 2011 il marketing del film Qualunquemente, in cui Antonio Albanese interpreta una delle sue fulminanti macchiette televisive, il politico “sudista” Cetto Laqualunque, carismatico leader del Partito du Pilu: al culmine della campagna pubblicitaria per il film, la formazione politica “laqualunquista” secondo i sondaggi aveva raggiunto il 9% delle intenzioni di voto.
Qualcun altro ha provato a lanciare il suo partito direttamente in tv. Per esempio Pierfrancesco Loche a Tunnel (1994), con lo slogan “Per un futuro, un presente e un passato migliori... Salvitalia! Il paese che io amo”. Anche Roberto Benigni, ospite di Enzo Biagi a Il Fatto il 21 febbraio 1995, ha presentato un ticket elettorale: “Io vorrei tanto metter su un partito con lei, Biagi. Ora va di moda gli alberi, si prende per simbolo un bel pero. Slogan: fate una pera, e come va a finire va a finire”.
Anche Beppe Grillo ha pensato per tempo alla “discesa in campo”, almeno dal 30 giugno 1994: “Domani fondo un partito, il partito del ‘Come va? Bene, grazie’, e alle prossime elezioni mi candido. Scommettiamo che batto tutti?”, dichiarava al “Corriere della Sera”.
Beppe Grillo però è l’unico comico italiano che poi un partito l’ha fondato per davvero, e con successo: un partito che ha un progetto e un programma politico, e che ha ottenuto significativi consensi elettorali.
Il suo modello, inarrivabile prototipo dei moderni giullari-politici, è il francese (ma di origine italiana) Coluche, nome d’arte di Michele Colucci (1944-1986), che si candidò nel 1980 alle elezioni presidenziali francesi: raccolse nei sondaggi una percentuale così alta da mettere in allarme l’establishment transalpino, ma si ritirò dopo l’omicidio di un collaboratore e dopo aver ricevuto una serie di minacce (morì pochi anni più tardi in un incidente motociclistico). Una delle sue battute più celebri: “Smetterò di fare politica quando i politici smetteranno di farci ridere!” (La politique, album Coluche: l’intégrale, vol. 3, Carrère, Parigi, 1989).
Beppe Grillo aveva debuttato come cabarettista e intrattenitore televisivo; poi ha inanellato una serie di fortunati monologhi teatrali di controinformazione, centrati soprattutto sui temi dell’ambiente, della difesa dei consumatori e dello sviluppo sostenibile. Cacciato dalle reti nazionali (anche a causa dell’imbarazzo degli investitori pubblicitari di fronte alle sue invettive contro alcune multinazionali), ha continuato a esibirsi dal vivo, nelle piazze e nei palasport. Nel 1995 ha aperto un blog, beppegrillo.it, che è tra i siti più frequentati al mondo. A partire dal 2007 ha iniziato a sostenere una serie di liste civiche (per Comuni “a cinque stelle”, come quelle che segnalano gli spettacoli e i film da non perdere), che hanno conquistato diversi seggi nei consigli comunali. Pur senza candidarsi in prima persona (a differenza di Coluche), nell’ottobre 2009 ha fondato il Movimento Cinque Stelle, che è risultato decisivo nelle elezioni regionali piemontesi del 2010 e ha ottenuto il 6% dei voti in Emilia-Romagna. Un altro attore-politico, Giulio Cavalli, protagonista di spettacoli che attaccano e sbeffeggiano la criminalità organizzata, è stato eletto consigliere regionale in Lombardia, nella lista dell’Italia dei Valori.
La compresenza di un politico-giullare e quella di un giullare-politico alla guida di due partiti di rilievo nazionale segna forse un punto di non ritorno. Per completare il triangolo politica-cabaret-informazione, va aggiunto un altro dato. Un giornalista politico come Marco Travaglio si è rivelato anche un impareggiabile attor comico, in televisione e in scena, con ritmi e toni di assoluta efficacia e precisione. Questi perfetti tempi comici, collaudati in centinaia di presentazioni e incontri pubblici, gli permettono di utilizzare i documenti giudiziari come efficaci copioni: nel suo Promemoria (uno one man show che tiene inchiodati gli spettatori per più di tre ore senza intervallo), il pezzo forte, comicamente irresistibile, è l’interrogatorio in cui il banchiere Giampiero Fiorani racconta la sua visita a Villa Certosa per donare un cactus al premier (sul versante drammatico, il modello del giornalista-entertainer è ovviamente Roberto Saviano).


IV.

Nell’era dei politici-giullari e dei giullari-politici, la censura che colpisce i comici (e chi li ospita) rischia di assumere nuove valenze. Dietro ogni censura c’è ovviamente l’eterna e ottusa arroganza del potente che non sopporta critiche e sberleffi, e cerca di zittire ogni dissenso. Ma c’è anche la sensazione che oggi la vera opposizione non sia più quella tradizionale dell’avversario politico, ma quella del guitto che coglie all’istante, “di pancia”, gli umori degli spettatori-elettori e dunque è in grado di rubare la scena mediatica con un lazzo, una battuta, una gag.
Senza questa premessa, diventa difficile capire l’editto bulgaro dell’aprile 2002 contro un giornalista che aveva ospitato un buffone, e contro un buffone che aveva ospitato un giornalista: ovvero Enzo Biagi (perché aveva ospitato Benigni) e Daniele Luttazzi (perché aveva ospitato Travaglio), e in generale l’ostinazione contro i “satirici”.
L’azione giudiziaria intentata contro Sabina Guzzanti è sintomatica. La sua trasmissione, Raiot. Armi di distrazione di massa, venne bloccata immediatamente dopo la prima puntata (andata in onda il 16 novembre 2003) con l’espediente di una querela, innescata dal presidente di Mediaset Fedele Confalonieri e corredata da una gigantesca richiesta di risarcimento.
La querela redatta dagli avvocati Stefano Previti e Pieremilio Sammanco contiene una pregevole definizione della satira, sulla quale è opportuno riflettere:

E’ noto, in verità, che la satira sorge per l’innato bisogno di irridere personaggi noti e potenti e non risponde, a differenza della cronaca e della critica, a finalità informative. La giurisprudenza più volte sul punto ha infatti espresso che “il diritto di satira a differenza del diritto di cronaca non assume l’informazione come proprio obiettivo (primario o anche solo concorrente)” (Dir. Inform., 1989, 520).
Non può dunque fondamentalmente affermarsi che la satira contribuisca alla formazione della pubblica opinione e questo perché il mezzo espressivo prescelto è intrinsecamente connotato dall’intento dissacratorio. Ragion per cui, se una funzione si deve assegnare alla satira, essa va individuata nell’esercizio di un controllo sociale verso il potere; la satira, in definitiva, attraverso l’arma incruenta del sorriso assolve la funzione di “moderare i potenti”, di smitizzare ed umanizzare i personaggi famosi, di umiliare i protervi, favorendo la diffusione di un clima di tolleranza che attenuerebbe le tensioni sociali.
E’ allora evidente quindi la diversità di funzione rispetto alle altre manifestazioni del pensiero, atteso che la satira non può, per sua natura, perseguire il fine di contribuire alla formazione della pubblica opinione.


Secondo gli avvocati, Sabina Guzzanti, invece di limitarsi a far satira, aveva tentato di informare i telespettatori. Insomma, aveva provato a dire la verità – o almeno qualche brandello di verità. Secondariamente, se avesse avvero fatto satira, la sua funzione avrebbe dovuto essere, più o meno, quella di “vaselina del potere”. In quest’ottica, la satira può esistere solo e finché non ha alcuna efficacia. Deve limitarsi a intrattenere, e non può “formare la pubblica opinione”. All’inizio del 2004 il procedimento è stato archiviato: per Giuliano Turone, procuratore aggiunto presso la Procura di Milano, le battute sulla legge Gasparri “scritta da qualcuno molto vicino a Confalonieri”, su “Retequattro abusiva”, o sul ministro Gasparri (“Tutte le volte che si critica la sua legge risponde l’ufficio stampa di Mediaset anziché il suo”), “trovano un riscontro nei contenuti delle due sentenze della Corte Costituzionale e nella memoria dell’Antitrust”, oltre che in “fatti, avvenimenti e circostanze” non soltanto “socialmente rilevanti” ma anche “obiettivamente veri nei loro elementi essenziali”. Ma a quel punto la trasmissione della Guzzanti era ormai stata cancellata e dimenticata.
In molte sagre paesane che allietano il Belpaese (ma anche altrove, dalla Spagna al Brasile) sopravvive una antichissima tradizione, quella del Re di Carnevale: è il sovrano della festa e il suo regno dura quanto durano i bagordi. Il suo effimero regno è un “mondo alla rovescia”, fatto di inversioni (a essere incoronato dovrebbe essere lo scemo del villaggio, il Fool), di travestimenti, di eccessi, di godimenti senza freno.
E’ l’ultima traccia di antichi rituali, che in origine si concludevano probabilmente con il sacrificio del “re dei matti”. Ora che siamo civilizzati, ci accontentiamo di bruciare il fantoccio del “re del Carnevale”, con un rogo che viene ancora celebrato in alcune località al termine della festa, quando il “mondo alla rovescia” rientra nella norma.
Oggi la censura ai satirici rischia di assumere una valenza sacrificale, uccidendo l’esistenza mediatica, l’unica che davvero conti, delle presenze “scomode”: perché la censura – l’esercizio del potere nella sua forma più primitiva – resta l’ultimo meccanismo con il quale il potere si può distinguere dal contropotere.
Molta della comicità contemporanea nasce dal seme dell’autoironia. Un atteggiamento che l’uomo politico, nella sua volontà di potenza, non si può permettere: sarebbe già l’ammissione di una sconfitta. I satirici sono da sempre moralisti, perché la molla che li fa scattare è l’indignazione. E devono essere cinici, perché solo così è possibile conquistare e tenere vivo l’affetto del pubblico. Se deve affrontare questo mix di autoironia, moralismo e cinismo, il politico-giullare avverte di avere un arsenale troppo scarso: si sente dunque costretto a ricorrere alla censura, alla prova di forza.
Ma forse questa è solo l’ultima conferma di un altro fenomeno, ancora più inquietante: il potere vero, quello che determina le nostre esistenze, è diventato invisibile. Si è smaterializzato in entità astratte e intoccabili, indiscutibili leggi economiche, tecnologie arcane, sigle misteriose, paradisi fiscali, follie dei grandi numeri, capitali che si muovono alla velocità della luce. Il potere visibile, quello che si manifesta sul piccolo schermo e s’azzuffa nei Parlamenti, è solo una maschera del Nulla, ora buffa ora patetica ora tragica.


V.

Le barzellette politiche sono le stesse da sempre, e vengono riciclate e adattate a seconda dei regimi.
Ce n’è una che era valida ai tempi sia di Mussolini sia di Kruscev, e di molti altri.
“E’ meglio essere calvi o cretini?”
“Cretini, si nota meno.”
Se il potente di turno è dotato di una folta chioma, basta sostituire la calvizie con un’altra caratteristica: “E’ meglio essere bassi, oppure avere le orecchie a sventola, o cretini?”
O magari ladri, coglioni, mafiosi, corruttori, evasori, puttanieri, eccetera eccetera.
Oggi hanno inventato il trapianto dei capelli, il lifting, le scarpe con la zeppa e il tacco…
Parliamo ormai solo di questo. E ridiamo, ridiamo, ridiamo...

 
 
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