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ISSN 2279-9184

ateatro 124.5
Lo schermo e la città
Continuous City di Marianne Weems
di Anna Maria Monteverdi
 

Marianne Weems, regista teatrale fondatrice della compagnia multidisciplinare The Builders Association, continua con straordinaria coerenza e forza coinvolgente la sua acuta disamina della tecnologia e della comunicazione mediata dal computer con riferimento alla loro influenza nella società e ai loro effetti nelle interazioni sociali. In Jet Lag aveva criticato il sistema dei media e della “costruzione dell’informazione”; in Alladeen aveva denunciato gli effetti dell’economia globalizzata, con i dipendenti di un call center indiano che venivano istruiti a cancellare la loro identità e il loro idioma per prendere a prestito la cultura e l’accento americano.





Supervision.

In Supervision la Weems portava a teatro l’incubo della sorveglianza dopo l’11 settembre: cittadini i cui corpi sono diventati trasparenti, data body in un data space, soggetti all’alienante controllo in una società “post privata” in cui i mezzi di vigilanza sono diventati sempre più invisibili e sono penetrati nei meandri della rete.





Continuous City.

Nell’ultimo spettacolo, Continuous City, la Weems parla della “città ininterrotta”, ovvero della grande rete mondiale che, permettendo di oltrepassare barriere sociali e frontiere politiche, ha cambiato radicalmente il volto del paesaggio e dell’esperienza del vivere una città o l’intero villaggio globale, così come ha ampliato l’orizzonte delle nostre relazioni umane: il paesaggio dell’abitare contemporaneo è diventato un mediascape, luogo dell’”attraversamento nomadico”, smaterializzato come dice Castells, in uno “spazio di flussi”, flussi comunicazionali. La città nelle tre storie raccontate, è vista attraverso schermi di varie dimensioni (smart mob, pc portatili e always-on) che vanno a comporre una scenografia luminosa intermittente, un caleidoscopio colorato; sono frammenti di città che si presentano come un puzzle (con una reminiscenza non casuale a Svoboda di Intolleranza 60) che rilascia residui di ambienti animati e rumorosi appesi al filo di una connessione.





Continuous City.

Il padre che lavora lontano e dialoga via skype con la figlia che è sempre connessa alla rete: le raccontando, attraverso le immagini, le caratteristiche delle città che visita e lei aggiorna quotidianamente un blog in cui racconta e scambia le sue visioni della città. Emozioni condivise a distanza, rete come “agile ambiente connettivo” (De Kerchove), corpi estesi a una dimensione senza frontiere fisiche e geografiche, in un altrove solcato dalla dismisura del web in cui il feedback fra la trasmissione e la ricezione è istantaneo. La compresenza potenziale di corpi, messaggi, immagini nella stessa piattaforma comunicativa inaugura una rete di nuovi rapporti, un nuovo tessuto sociale che a loro volta plasmano una “città ideale” e una nuova dimensione “schermica” dell’abitare e del vivere contemporaneo. Oggi le proiezioni in pixel video su “ipersuperfici”, i grandi schermi addossati alle pareti dei palazzi (urban screens) usati anche come fondali live per concerti (come nel caso del concerto di Christian Fennesz e con i visuals di Giuseppe La Spada: gli artisti in questo caso hanno usato il maxi schermo a led posto sulla facciata del Palazzo dell'Arengario in piazza Duomo a Milano), le insegne digitali a grande formato (digital signage) fanno parte del paesaggio metropolitano raggiungendo formati oceanici (vedi il maxischermo pubblicitario da 24 metri inserito in un dirigibile, visibile a 4 chilometri di distanza). La dimensione esperienziale del public space, della piazza, attraverso schermi multidimensionali, secondo Simone Orcagni (“Il Sole-24 Ore on line”, 11 marzo 2009) si lega a quella più intima, individuale, televisiva: “Media, urbanistica, performance concorrono a realizzare una nuova esperienza spettatoriale, in parte anche cinematografica”.
Quello che è interessante negli spettacoli della Weems è la straordinaria capacità di teatralizzare alcuni concetti finora trattati in saggi di sociologia dei media o al cinema: il nuovo spazio pubblico, il panottico, la soggettività connettiva, la cultura della “virtualità reale” (De Kerchove), la nuova socialità elettronica. Concetti chiave come quello di dislocazione e deterritorializzazione, così come quelli di presenza e ubiquità prendono la forma di una mediaturgia che pone i protagonisti come “vettori” di un contenuto che altro non è, in sintesi, che la grande rete mondiale.
Nel film-video Der Riese (1983) Michael Klier aveva raccontato la città attraverso immagini provenienti da telecamere di sorveglianza addossate ai palazzi in prossimità di banche e aereoporti per “afferrare, spogliare e pietrificare brandelli di spazio” individuando, come ricorda nella puntuale analisi del video Anna Lagorio, “la città generica, spersonalizzata e anonima”. La Weems in Supervision approda a simili conclusioni derivate dalla definitiva sussunzione dell’uomo all’interno di un meccanismo perverso di controllo capillare della sua vita che lo priva della propria identità. L’incubo mediatico descritto da Orwell in 1984 si materializza in un inquietante schermo gigantesco che trattiene, come un badge di identificazione da cui la scenografia prende forma, una traccia elettronica delle azioni e degli spostamenti dei personaggi; perseguitati da un invisibile occhio satellite che li raddoppia, prigionieri tra specchi e pareti trasparenti, in una proliferazione di corpi che contrasta con la loro solitudine, i personaggi incarnano l'incubo psicotico della videosorveglianza, Così la Weems:

We are surrounded by subtle and unseen forms of surveillance of the data we create as we move through our daily lives, and at the same time our identities seem increasingly to be constituted of data. What is the relationship between who we are and the cloud of data which surrounds each one of us? In post-9/11 daily life, we have come to accept, allow, and even encourage this new post-visual form of surveillance and its constant incursions into the realm of our "selves.“ What will the results of it be?

Siamo circondati da forme sottili e invisibili di sorveglianza dei dati che noi stessi creiamo come ci muoviamo nelle nostre vite e allo stesso tempo le nostre identità sembrano sempre più costituite di dati informatici. Qual è la relazione tra ciò che siamo e l’alone di dati che ci circonda? Dopo l’11 settembre abbiamo accettato, permesso e persino incoraggiato queste nuove forme di sorveglianza post-visuale e le sistematiche incursioni nel reame del sé”. Quale sarà il risultato di tutto questo?


Se in Supervision la Weems sembrava legarsi al pensiero di Paul Virilio e alla sua visione “catastrofica ma non catastrofista” della modernità tecnologica, in Continuous City sembra approdare a una pars costruens, a un’idea di tecnologia shaped, addomesticata e conformata alle nuove esigenze comunicative e connettive della società, accettando sostanzialmente le ben note tesi di Derrick De Kerchove:

Il corpo, assistito dal computer, esce dai suoi limiti tradizionali, articolati attorno alla pelle. Allora è necessario un corpo a misura delle nuove potenzialità della nostra mente, così che anch'esso, assistito dal computer, possa godere di un accesso istantaneo a qualsiasi punto del globo. La nostra nuova pelle è l'atmosfera terrestre sensibilizzata dai satelliti.

E ancora:

L’intelligenza connettiva implica la possibilità di condividere il pensiero, l’intenzione, l’emozione e i progetti espressi da altri senza né cristallizzarli nel feticcio astratto di un collettivo, né conservarli nella privacy di un individuo.

Non più dunque la big optics di Virilio, che sovvertirebbe innaturalmente la nostra esperienza di distanza fisica e di vastità dello spazio naturale (“the progressive derealization of the terrestrial horizon... resulting in an impending primacy of real time perspective of undulatory optics over real space of the linear geometrical optics of the Quattrocento”), ma una mediatizzazione del mondo che produce come effetto, una “estensione dello spazio dell’immaginazione, delle pulsioni dell’onirico, del ludico e del simbolico a quella che è l’architettura dell’abitare” (De Kerchove).

 
 
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