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ISSN 2279-9184

ateatro 122.37
Elogio della provincia
La Compagnia degli Evasi o del teatro del corpo e del sogno
di Anna Maria Monteverdi
 

In un momento di crisi (di idee e di risorse) del teatro, fa piacere fare delle scoperte in territori geograficamente insospettabili quanto a fenomeni d’arte scenica di un qualche livello. Il territorio è quello della provincia della Spezia, per l’esattezza Castelnuovo Magra, nel cuore della Lunigiana, dove non sono mai emerse realtà aventi forza artistica nazionale.
Gli Evasi nascono nel 2002 dalla volontà di Matteo Ridolfi, Alessandro Vanello, William Cidale, Davide Notarantonio, Elena Mele e Alessandra Carnacina e successivamente Paola Lungo. Autodefinitisi da sempre “non professionisti” (ma non amatori..) misurandosi con registri e repertori diversi (dal cabaret al teatro sociale) con il tempo Gli Evasi hanno raggiunto tutti indistintamente sia pur con caratteristiche interpretative diverse, un notevole livello attoriale, con oltre venti produzioni alle spalle e numerosi premi. Come non riconoscere la verve accattivante di Matteo Ridolfi nelle sue impagabili parodie di family comedy all’italiana, quella esilarante di Notarantonio, quella infaticabile di Alessandro Vanello, serio scrutatore degli animi umani ma anche “comico dell’arte”; e in generale, come non riconoscere il valore dell’impegno della compagnia a educare a una coscienza civile più matura che trapela non solo nella scrittura originale, dalla scelta dei testi ma anche nell’organizzazione di un’eccellente Festival di teatro non professionista come Teatrika di Castelnuovo?
Gli Evasi hanno una storia interessante che si lega a due presenze fisse di rilievo, quelle dell’attore Marco Balma con un background di tutto rispetto (autore/attore/regista pluripremiato) e quella di ventennale esperienza sul campo di Alberto Cariola, che viene da studi con l’Odin di Barba e al terzo teatro, legato quindi a un’idea di teatro come manifestazione della cultura di un popolo, materia viva che penetra nelle relazioni sociali, non separata dal contesto collettivo. Passati per spettacoli che hanno avuto un peso notevole quanto a pubblico e seguito giornalistico, con storie legate rigorosamente alla memoria locale, hanno messo in scena nel 2007 una toccante rappresentazione di un episodio di vita drammatico del territorio con cui sono stati vincitori del festival nazionale di Castelfranco e di San Miniato, ora diventato anche film.



La compagnia degli Evasi si impone così a livello nazionale con quest’opera drammatica Sepolti vivi, una storia vera di protesta nella Lunigiana per le condizioni infami di lavoro in miniera sfociata nel 1953 in una “auto sepoltura dimostrativa nei cunicoli” da parte di un manipolo di coraggiosi, ben scritta e meglio espressa teatralmente, che ha avuto un merito non indifferente, quello di essere accolto e distribuito dalle istituzioni legate al lavoro come l’Inail. Una storia vecchia e dimenticata ma non dai vecchi che non dimenticano. E che raccontano. Così si passa dall’oralità alla scena. Dai fatti alla memoria dei fatti, tramandando ricordi sottili come la carta velina. Una coraggioso e importante prova di teatro civile in cui gli attori hanno restituito la rabbia, lo sconforto, il terrore del lavorare in miniera. Dicono di questo spettacolo:

“Siamo nel ’36, alle porte della seconda Guerra Mondiale. Siamo nell’Italia autarchica di Mussolini dove c’è bisogno di tutto quello che il territorio può dare alla nazione. Siamo nella Piana di Luni. Un luogo che d’improvviso si scopre essere molto prezioso, perchè qui è possibile estrarre la lignite, un parente povero del carbone. C’è la guerra e l’imperativo è produrre! E si produce allo stesso modo in cui si muore: senza ritegno, senza regole. Nei fatti, se l’industria ne trae benefici enormi, i minatori muoiono sfruttati, scavando affogati nel loro stesso sudore, quando non schiacciati dai metri di terra che li separano dal cielo. Questa è la vita nei pozzi: un giorno dopo l’altro, un metro dopo l’altro, chini a raschiare le viscere della terra in cunicoli troppo stretti, troppo caldi e con poca, se non nessuna, osservanza di costose norme di sicurezza, utili “solo” a preservare la vita dei minatori e la longevità della miniera, inutili per una società che guardava al profitto e pagava a metri d’avanzamento: almeno uno al giorno. Incendi, esplosioni, cedimenti e frane erano la normalità, come la morte”.

Il messaggio è approdato lontano e nel loro carnet hanno messo insieme più repliche di una compagnia professionista nazionale; ovunque fossero in cartellone, lo spettacolo creava il dibattito, risvegliava le coscienze, accendeva gli animi. E ovunque c’era tutto esaurito grazie non alla comunicazione dei social network ma al più efficace rituale di passa parola di chi li ha visti e vuole che altri vedano. A conoscerli c’è in loro qualcosa che nel teatro professionista si è in parte, perso: la volontà coesiva, la curiosità di imparare, il mutuo sostegno, l’ascolto al maestro.



Alberto Cariola è diventato il loro méntore, garantendo un passaggio di saperi tecnici, gesti, intonazioni, fatto non ad Ostelbro ma a Castelnuovo Magra. Una piacevole scoperta dunque questo nuovo lavoro, Fata. Favola per adulti. La storia di un passaggio da giovinetta a donna con i fantasmi e gli incubi che abitano le litanie, le fiabe, le epopee di tutti i tempi. Démoni e angeli custodi, specchi e desideri inconsapevoli che si materializzano diventando le maschere d’Oriente e Occidente. Quelle nere e bianche, di gobbi, guitti e dritti. Un’ora e cinquanta di intensa rappresentazione con il pubblico ammaliato, messo in mezzo a un passaggio continuo di sogni materializzati, di boschi e d’avventure dove avventurarsi, prima fra tutte l’avventura dell’amore. La “Grande Soglia”, il rito di passaggio è suggellato da simboli evidenti (porte, liminar di boschi) e la giovinetta ingenua ma anche ammaliante, Miele, viene adescata e colta in trappola come nelle fiabe: basato su Lo cunto de li cunti ovvero il Pentamerone di Giovanbattista Basile”, il testo è stato la “palestra” per un lavoro intenso sulla voce, sul ritmo, sull’azione fisica. Con la gioia del dire, con i corpi piegati a un’espressione mimica da commedia “all’improvviso” dei tempi che furono, con Cariola e Vanello maschere inquietanti e incombenti, gli Evasi ripropongono il tempo del sogno in cui è facile rintracciare una memoria selvaggia, arcaica.
Dice Alberto Cariola che ha scritto e diretto il lavoro:

Nell’estate del 2006 ci è venuta l’idea di occuparci di favole, proprio di quelle storie dove uno “cammina, cammina”, gli dànno oggetti magici, ammazza draghi e orchi e salva principesse. Ma ci siamo resi conto che, accanto alle fiabe a lieto fine per i bambini, esiste una vasta casistica di racconti fiabeschi, provenienti da popolazioni di tutto il globo, molto più cruda, violenta, carnale, paradossalmente più reale. Abbiamo capito che ci interessava lavorare sul versante scuro della topografia fiabesca, dove il viaggio dell’eroe/eroina prevede l’esperienza del buio, del sangue, della paura, della menzogna, della sofferenza, oltre a quella dell’amicizia, dell’aiuto “magico”, dell’amore.



La vita fiabesca è il luogo del meraviglioso, ma è possibile raccontare la vita reale con il linguaggio fiabesco dentro una struttura fiabesca? Ci abbiamo provato innanzitutto prendendo il linguaggio da Basile, facendoci guidare dai maggiori studiosi del genere, tentando di costruire un testo in cui “la parola può tutto”, ma, come succede quando interviene una fata, cambia di segno a ogni situazione, perché non c’è mai un solo lato della realtà, ma c’è anche il lato opposto, altrettanto necessario. L’Orco non sempre è cattivo, il Principe non sempre è buono, a volte chi ti da consigli, ti prende in giro, chi ti prende in giro, ti vuole bene. La preparazione, per quanto riguarda testo e regia, è partita dalla lettura di oltre 3200 favole di differenti aree geografiche e dall’ideazione dello scenario generale. Così Fata racconta la notte del giorno in cui Miele, un omaggio a Milo Manara, scopre di essere innamorata e sogna; tutto quello che sogna si materializza nella sua camera.


Riavvicinandosi fatalmente con Fata all’Odin, Cariola con gli Evasi propone un teatro irradiante simboli, miti collettivi e un repertorio di muscoli, nervi, ossa e umori. Ritmo frenetico quasi da taranta, un rito primitivo/moderno fatto nella Provincia, crogiuolo in genere di mediocri attività sceniche, con buona pace di chi “somministra” la cultura per il popolo. Ricordo che un critico a proposito dell’arte dell’Odin diceva della capacità degli attori di essere un “corpo che sogna”, duttile materia di forme: non so se gli Evasi, compagnia non professionista, abbiano avuto questo tipo di training, ma il risultato davvero eccellente che ne è conseguito si lascia leggere (anche) così.

 
 
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