ateatro 121

Il teatro dell'osservazione partecipata
L'intervento alle Buone Pratiche 2009
di Mimmo Sorrentino


 
Manifesto per un nuovo teatro popolare
Comunicato numero 1
di Paolo Rossi, Carolina De La Calle Casanova, Giorgio Finamore e Massimo Canepa


 
Ho fatto un sogno ed era molto “popolare”
Una lettera per Paolo Rossi
di Carolina De La Calle Casanova


 
Stiamo diventando tutti ariani?
L’eredità profetica di Fabio Mauri in un prezioso volume che raccoglie tutta la sua opera
di Andrea Balzola


 
In viaggio con il Teatro de Los Andes
L'Odissea di César Brie
di Erica Magris


 
Progetti, gruppi, giovani Compagnie: la nuova mappatura degli spazi giovani in Toscana
L'incontro di Prato
di Teresa Bettarini


 
Il teatro multimediale alla Festa della Marineria
Oltre la vista del mondo per la regia di Andrea Balzola
di Ufficio Stampa


 

 

Il teatro dell'osservazione partecipata
L'intervento alle Buone Pratiche 2009
di Mimmo Sorrentino

 

La mia pratica teatrale si ispira a una disciplina propria delle scienze sociali, l’“osservazione partecipata”.
Nell’osservazione partecipata il ricercatore prende parte, in misura più o meno intensa e regolare, alle attività di un gruppo, ed è direttamente coinvolto nelle dinamiche decisionali e di cambiamento che la sua ricerca/intervento produce. Nel mio caso, ho coinvolto nella mia ricerca teatrale attori, ma anche studenti, bambini, extracomunitari, tossicodipendenti in recupero, malati terminali, malati di Alzheimer, abitanti di quartieri disagiati, diversamente abili, rom. Persone molto lontane dalle accademie teatrali, come non accademica è la mia formazione. I miei maestri sono stati Norberto Bobbio, Danilo Dolci, Italo Mancini; poi mi sono fatto aiutare nella scrittura di alcuni dei miei testi da altri importanti maestri come Piergiorgio Odifreddi e Vittorino Andreoli. Ma è soprattutto di Danilo Dolci che vi parlerò, anche se in breve, perché Dolci è l’esempio più chiaro di un sociologo, poeta e pedagogo che ha praticato in Italia l’osservazione partecipata.
Sono sicuro che molti di voi già lo conoscono, grazie anche al lavoro teatrale realizzata dal Teatro della Cooperativa, ma mi è indispensabile parlare di Danilo Dolci per spiegare come l’osservazione partecipata possa applicarsi al teatro. Poeta, intellettuale e pedagogo, nato a Trieste nel 1924 e più volte candidato al Premio Nobel per la pace, nel 1952 Dolci si trasferì a Trappeto, uno dei paesi più poveri della Sicilia, con l’obiettivo di emancipare la gente del luogo. Piantò una tenda in un campo e iniziò a lavorare al suo progetto, “senza sapere assolutamente nulla dei problemi del Sud e delle tecniche di lavoro socio economiche”, come dice in Esperienze e riflessioni.
Oltre a denunciare e far pratica di documentazione, si occupò di assistere la parte più bisognosa della popolazione, accogliendo i figli dei tisici e dei carcerati. Il suo sciopero della fame sul letto di un bambino morto per denutrizione scosse la nazione. Fu al fianco dei pescatori che lottavano contro i motopescherecci fuorilegge. Diede vita all’Università Popolare. La prima conversazione culturale fu sul tema “L’educazione per una società libera”. Partecipò tutto il paese. Fu messo in prigione per aver organizzato uno sciopero alla rovescia: portò i contadini a lavorare a una vecchia trazzera che il comune non metteva a posto. Fu il primo a installare una radio libera, in cui diede voce agli abitanti del Belice. Denunciò le collusioni tra politica e mafia.
Ma credo che l’opera più importante che ha realizzato in Sicilia sia stata la diga sul fiume Jato. In una riunione un contadino disse che secondo lui per risolvere il problema dell’acqua ci sarebbe voluto un grande “bacile” che la contenesse: fu così che nacque l’idea di una diga, che Danilo Dolci realizzò con i braccianti della zona, trasformando di fatto l’economia di quella parte della Sicilia orientale. Il ricercatore, l’intellettuale, nel praticare l’osservazione partecipata, traduce in parole le necessità di coloro che non hanno le conoscenze linguistiche per esprimerle: traduce il “bacile” in “diga”. Questo atto è il ponte che permette alla necessità di trasformarsi in progetto.
E’ proprio quello che provo a fare quando incontro i gruppi di persone che vi ho elencato all’inizio: provo a dare voce alle loro necessità e a organizzarle in uno spettacolo teatrale. Lo spettacolo teatrale è la diga che costruisco con loro. Una diga infinitamente più piccola di quella costruita sul fiume Jato da Danilo Dolci, ma comunque una diga, qualcosa che provoca un cambiamento nelle strutture e nelle persone con cui vado ad agire.
A sollecitare il mio intervento di solito sono enti pubblici o privati, che chiedono la mia disponibilità a lavorare con i utenti. Per esempio, un preside di una scuola chiederà che l’offerta teatrale sia rivolta agli studenti, più di rado ai docenti; una fondazione che si occupa di stranieri mi proporrà di lavorare con gli immigrati. Nel primo incontro, cerco di capire se le mie competenze sono adeguate alle esigenze dei comittenti, verifico le strutture che l’ente mette a disposizione e l’offerta economica. Se mi sembra che le condizioni siano accettabili, inizio la fase di preparazione del progetto: studio il contesto; definisco i tempi di realizzazione e gli obiettivi; immagino le ricadute sui partecipanti e sulla struttura; predispongo le modalità con cui il lavoro svolto sarà valutato; verifico i termini economici del contratto. Appena sono pronto, incontro di nuovo il richiedente e discutiamo il progetto: se viene accettato, firmo il contratto.
A quel punto, si parte con il lavoro. La prima fase consiste nel motivare il gruppo: infatti non mi rivolgo a persone che hanno scelto di fare teatro, ma a un gruppo a cui viene proposto di fare teatro da chi si occupa di loro: nel caso di una scuola, a chiamarmi non sono gli studenti ma il dirigente scolastico; nel caso di giovani che frequentano un centro giovanile comunale, sono l’assessore o i dirigenti di settore. Nella fase di motivazione spiego al gruppo perché faccio teatro e che cosa vuol dire per me fare teatro: lo faccio proponendo loro alcuni esercizi teatrali, perché sono convinto che la pratica sia una buona modalità per spiegare qualcosa a qualcuno. In questo modo comunico loro che per me il teatro vuol dire imparare a dare il meglio di sé; inoltre il teatro offre uno strumento che permette di leggere il comportamento umano soprattutto per quel che riguarda il suo modo di comunicare; e permette di imparare a conoscersi meglio. Quindi il teatro è un mezzo attraverso cui le persone scoprono qualcosa che non sanno e che li riguarda.
Una volta motivato e organizzato il gruppo, passo alla seconda fase: faccio scrivere dei testi o intervisto i membri del gruppo. Sia nel primo caso sia nel secondo, a interessarmi non è tanto la storia che mi raccontano, ma il modo in cui viene raccontata. Faccio mia una intuizione di Lacan che, al contrario di Freud, più che al sogno in sé era interessato a come veniva raccontato: mi concentro molto su ciò che le persone dicono o scrivono, ma non sanno di aver detto o scritto. Raccolgo tutto questo materiale e lo trasduco, cioè lo faccio diventare testo. Questa operazione funziona solo se vuoi bene alle persone che hai di fronte, anche se sono delinquenti, spacciatori, studenti insopportabili, persone con cui non usciresti mai a cena. Gli devo voler bene, perché altrimenti non posso scrivere di loro. Io voglio e ho voluto bene anche ai personaggi più orribili che ho portato in scena.
Ritorno dal gruppo e leggo ciò che ho scritto a partire dai loro racconti e scritti. Se il lavoro piace, si passa alla fase successiva: portare il testo redatto a spettacolo. Innanzitutto chiedo al gruppo, ovvero l’utenza, se sono interessati a recitarlo. Se la risposta è positiva, verifico se il numero degli attori è già sufficiente, altrimenti mi rivolgo ad acuni attori. E se il testo scritto mi convince, anche quando il gruppo di lavoro decide di non recitare mi rivolgo a degli attori: è successo con Case popolari, perché le casalinghe che mi avevano raccontato le storie non se la sentivano di salire sul palco; e in Ave Maria per una gattamorta, perché ai ragazzi che mi avevano raccontato le storie non è stato permesso di portarle in scena.
A quel punto, si parte con le prove. Definisco il mio metodo di lavoro “consegna paradossale”: l’ho elaborato a partire dagli studi di Palo Alto, da testi di Gregory Bateson e Paul Wazlawitch, oltre che dalla teoria sistemica applicata alla famiglia a transazione schizofrenica elaborata dalla dottoressa Selvini Palazzoli. Spiegare questo sistema sarebbe in questa occasione troppo lungo e complesso, ma posso dirvi perché lo uso. Lavorando con attori non professionisti, ma in verità anche lavorando con attori professionisti, ho spesso trovato persone che, quando salivano in scena, nel migliore dei casi si preoccupavano di spiegare le parole che dicevano, e nel peggiore di non dimenticarsi le battute. Nel primo caso, quando l’attore è sicuro in scena, ciò che rappresenta è l’ostentazione del suo apparente benessere nello stare sul palco e quindi di trovarsi a suo agio nella prestazione; nell’altro caso porta in scena la paura di sbagliare. Ma a me non interessa il loro inconscio, mi interessa quello dei personaggi. Ecco, con il mio metodo faccio in modo che in scena ci sia l’inconscio dei personaggi e non quello degli attori.
Dopo che abbiamo allestito lo spettacolo, si passa alla verifica. Nel caso di un produttore teatrale, la verifica è semplice: certo, lo spettacolo gli interessa, ma gli interessano di più il numero e il gradimento degli spettatori e il parere della critica: il soggetto a cui si rivolge un produttore è il pubblico. Spesso però il produttore non fa una stima di quanto pubblico si aspetta: invece è importante chiedergli di fare una proiezione ed è possibile farla. Bisogna prendere in esame il numero di spettatori che di solito frequentano il teatro che ti ospita e la tua posizione sul mercato. Se per esempio sei al primo spettacolo e non hai vinto il Premio Scenario, allora è probabile che la quantità di tuo pubblico dipenda essenzialmente dalla quantità di relazioni che ha intessuto il gruppo di lavoro e dal possibile passaparola; da quanto si è investito in pubblicità; e se e quanto il teatro che ti ospita è frequentato dai critici. Così alla fine delle repliche puoi valutare se hai otenuto il risultato che ti aspettavi oppure no. Nel mio, nel nostro caso, ci sono voluti otto anni perché da un pubblico basato su relazioni personali si passasse a un pubblico generico.
Nel caso in cui il richiedente sia un ente pubblico o privato, la verifica più che sul pubblico riguarda la soddisfazione avuta dal gruppo di lavoro e dall’impatto sul contesto di riferimento: nel caso di una scuola, i suoi studenti, i docenti, i familiari; nel caso di un comune o di un quartiere, i suoi abitanti. Si può condurre questa verifica con un questionario che è bene redigere insieme ai responsabili dell’ente richiedente, in modo che la valutazione sia condivisa.
La differenza tra un produttore teatrale e un ente pubblico o privato è che, qualora si siano raggiunti gli obiettivi, con il produttore di solito il lavoro continua, mentre con l’ente pubblico o privato questo non sempre accade. Con il produttore teatrale la relazione si interrompe essenzialmente quando il produttore cambia progetto, e quell’attività non rientra più nei suoi obiettivi. Nel secondo caso invece avero raggiunti i risultati prefissati non implica necessariamente che la collaborazione continui. Per capire perché, basta un esempio. Una scuola ti chiede di motivare gli immotivati, tu li motivi e gi studenti si esprimono; restano tutti meravigliati perché ragazzi che non hanno nessun interesse per la scuola e hanno atteggiamenti al limite del bullismo, ora studiano, collaborano e si prendono delle responsabilità. Allora i docenti, non tutti ma i più sensibili, diciamo, fanno il mea culpa: “Forse è colpa nostra se questi ragazzi non amano la scuola”. A pelle, verrebbe da rispondere che è proprio così, ma sarebbe una risposta superficiale. Studenti e professori sono in relazione tra di loro, sono un sistema ed è ovvio che per produrre un cambiamento bisogna agire su entrambi: tuttavia la richiesta era di motivare gli studenti, non l’intera struttura.
La richiesta è paradossale in origine, perché non si può ottenere un cambiamento reale se non si lavora sull’intera struttura. Quando si presenta un progetto, bisognerebbe spiegare al committente che non è pensabile ottenere un cambiamento di una parte del sistema se non si agisce sull’intero sistema: purtroppo mettere in chiaro questo aspetto vuol dire non arrivare alla firma del contratto, e tuttava secondo me vale la pena non firmare, perché firmare, a giudicare dalla mia esperienza, significa alla fine aggiungere conflitti a conflitti e lavorare crea depressione. Meglio spendere molto tempo prima per dimostrare al committente che da questo cambiamento hanno tutti da guadagnare, perché se ti chiamano significa che c’è malessere nel sistema: nel caso delle scuole, c’è malessere tra gli studenti, ma anche tra i professori, e anche tra i bidelli. E’ proprio per questo che viene fatta un’offerta del genere: per lavorare su questo malessere del sistema. Se non lavori sull’intera struttura, ma solo su una parte, in realtà si fa animazione; e per un’animazione, anche ben fatta, non c’è bisogno di rivolgersi a registi o drammaturghi, è più utile ed economico rivolgersi agli animatori: se ben fatto, il loro lavoro ha una sua utilità, anche se l’obiettivo ha un profilo più basso.
C’è però un altro aspetto per me fondamentale: non è corretto pensare che, solo perché tu sei nel giusto, solo perché hai motivato gli immotivati, allora hai il diritto di continuare il tuo lavoro e che coloro che te lo impediscono sono brutti e cattivi. Perché non basta aver ragione: bisogna anche riuscire a dimostrare al richiedente che gli conviene lavorare con te, e se sei capace di dimostrarglielo perché non dovrebbe farti lavorare? Se riesci a raggiungere gli obiettivi proposti, a quel punto è ovvio che ti fa continuare. Se il progetto finisce è perché non sei stato capace di dimostrare al richiedente che gli conveniva lavorare con te. Solo per questo.
In verità, io faccio fatica a dimostrarglielo, perché quando mi trovo a parlare con presidi, assessori eccetera, non riesco a volergli bene e quindi non riesco a scrivere e a parlare di loro e con loro.


 


 

Manifesto per un nuovo teatro popolare
Comunicato numero 1
di Paolo Rossi, Carolina De La Calle Casanova, Giorgio Finamore e Massimo Canepa

 

Premessa

La COMPAGNIA DEL TEATRO POPOLARE nasce dal Laboratorio “Cantiere per un Nuovo Teatro Popolare” nel 2007 presso il Teatro Verdi di Muggia (Trieste). Il Laboratorio è stato tenuto da Paolo Rossi e la Compagnia BabyGang, assieme alla Compagnia Pupkin Cabarett di Trieste ed altri artisti e cari compagni di viaggio.

La COMPAGNIA DE TEATRO POPOLARE si costituisce nel 2009 a Milano per volere del capocomico e maestro Paolo Rossi e Carolina De La Calle Casanova, Federico Bonaconza e Valentina Scuderi, principali componenti della Compagnia BabyGang di Milano.

Gli altri principali e attuali componenti della COMPAGNIA DEL TEATRO POPOLARE sono (in ordine alfabetico): Renato Avallone, Elisa Bottiglieri, Massimo Canepa, Giorgio Finamore, Paola Galli, Massimiliano Loizzi, Josephine Magliozzi, Ginevra Notarbartolo, Fabrizio Pagella, Silvia Paoli, Marco Ripoldi, Giulia Scudelletti, Guia Tabaz, Vincenzo Zampa, Marta Zoboli e i musicisti Francesco Arcuri, Orazio Attanasio, Marco Casari, Stefano Fascioli e Giovanni Melucci.

Le regole, definizioni, condizioni e modalità contenute in questo primo comunicato del Manifesto per un Nuovo Teatro Popolare sono e saranno sempre in divenire, sia perché gli artisti stessi continuano a mettere i discussione le risposte che trovano strada facendo, sia perché questo tipo di teatro si adatta e cresce in base al tempo, le persone e le storie che attraversa.

In pieno possesso delle nostre facoltà mentali e fisiche, consapevoli di ciò che diciamo e facciamo, a nostro rischio e pericolo, declamiamo quanto segue.

Avvertenza per coloro che non hanno mai perso la retta via: questo Manifesto non è da imitare o seguire. Solo facendo propria la regola, essa ha senso di esistere.


MANIFESTO PER UN NUOVO TEATRO POPOLARE – comunicato n. 1

Le persone che compongono la COMPAGNIA DEL TEATRO POPOLARE
sono artisti abbastanza colti da poter / non poter
stare con gli intellettuali
e abbastanza ignoranti da poter / non poter
stare con gli ignoranti.
Quel poco che sanno però lo dicono.


I. COS’E’?

Il Teatro Popolare è fatto da persone-vive-che-fingono per persone-vive-che-credono. Racconta storie credibili e incredibili di tutti i tempi. Si consuma nel buio di una sera, ogni sera in un modo diverso. Capita in teatro, ma anche in piazza, nel deserto, in barca… Fa apparire ora una casa, ora una battaglia, ora un re, ora un fantasma. Parte da quello che c’è e di quello che c’è non manca nulla.

È un mestiere.
È un’arte.
È una continua scoperta.

Non è un teatro commerciale.
Non è un teatro sperimentale.
Non è un teatro intellettuale.
Non cerca un pubblico specifico.

È un teatro colto, ma comprensibile a tutti.

È un teatro d’emergenza, perché l’emergenza porta all’aiuto, all’ascolto, al buon senso.

Gioca sull’equivoco ma non è mai equivoco.
Si basa su situazioni primarie, riconoscibili, universali.
Vuole andare all’essenza d’ogni storia.
Niente orpelli, fronzoli, divagazioni.

È come il jazz: o funziona il gruppo, oppure la musica non viene fuori.

Mescola i generi e gli stili. Sfrutta i cambi di registro, dal comico al tragico e viceversa.
Cerca il rispetto e la leggerezza, ma vuole sempre schierarsi.
Non è mai neutrale. Mostra sempre il suo punto di vista.

Può scegliere di rappresentare situazioni forti, violente, di descrivere personaggi emarginati.

Non si fa prendere dall’abitudine. Tutto deve accadere come se fosse la prima volta.

È sempre qui e ora: rifiuta il concetto di replica, mette tutto in discussione, non accetta niente di prestabilito e imposto.

Nasce nell’improvvisazione e muore nell’improvvisazione.

II. CHI E’?

Il Teatro Popolare è fatto da una compagnia numerosa gestita da un capocomico. I componenti della compagnia – attori, drammaturghi, tecnici, etc. - hanno diversa età ed esperienza, ma insieme seguono un percorso artistico condiviso oltre che discusso.

All’interno della COMPAGNIA DI TEATRO POPOLARE lavorano insieme attori, regista, drammaturghi e musicisti. Il lavoro nasce insieme ed è condiviso da tutti. Ognuno è co-autore di ciò che si vive sul palco, nel rispetto dei singoli ruoli e competenze.

Insieme costruiscono un patrimonio comune di storie, sketch, canovacci, barzellette, esercizi, canzoni che trasmettono a chi arriva per ultimo… dal quale a loro volta rubano tutto ciò che possono. Gli artisti del Teatro Popolare sono prima di tutti ladri molto rispettabili.

I ruoli sono interscambiabili ed insieme costituiscono un coro. Il coro è fatto d’individualità, ognuna al servizio del gruppo: come in una famiglia allargata.

Il Teatro Popolare valorizza il repertorio del singolo per migliorarlo e metterlo al servizio del gruppo: - Cosa sai fare? Lo puoi fare? Fallo subito! Dopo lo trasformiamo…

L’attore deve essere anche autore. Il Teatro Popolare vuole coltivare nell’attore la responsabilità autoriale di ciò che fa, dice e racconta in scena. Questa responsabilità autoriale consente all’attore di creare - assieme all’autore, al drammaturgo di compagnia e al capocomico - il progetto o lo spettacolo durante il corso delle prove o del laboratorio.

Il Teatro Popolare vuole condurre i propri attori verso una consapevolezza improvvisativa: questo significa liberarsi dai vincoli imposti dal particolare personaggio che si va a rappresentare ed essere sempre pronti a reagire a quello che succede in scena. Bisogna essere sempre al servizio della storia che viene raccontata sul palco. Non bisogna permettere mai che il proprio personaggio diventi più importante dell’azione.
L’attore deve sempre tenere a mente l’arcata drammatica: solo così resta al servizio del gruppo e della situazione.

Recitare è sempre e innanzitutto un mestiere: all’inizio si acquisiscono gli strumenti, poi gli strumenti diventano appoggi con cui inventare giochi sempre differenti. Solo quando gli strumenti diventano appoggi si può aggiungere l’anima, il contenuto, la riflessione.

L’attore non deve pensare di recitare. Deve recitare e basta. Altrimenti si giudica, si controlla e finisce che fa sempre la solita parte.

L’attore è sempre serio, crede fino in fondo a quello che fa. In scena bisogna essere sempre credibili. Si può fare una scelta stilistica, ma bisogna portarla fino in fondo. La scelta deve risultare visibile, altrimenti si cade nei cliché.

Il mestiere dell’attore si impara in ogni momento della giornata. Lo spettacolo non finisce mai con lo spettacolo.

L’attore del Teatro Popolare prima di andare in scena non si dice: speriamo che vada tutto bene. Si dice: speriamo che succeda qualcosa.
È a partire da errori e incidenti che nascono le idee migliori. Se c’è un errore in scena, non bisogna fare finta di niente. Bisogna sfruttarlo, ripeterlo, ribaltarlo a proprio favore, mostrando al pubblico che tutto era voluto.

Il drammaturgo deve creare per gli attori e a partire dagli attori: non deve chiudersi nella sua testa ma osservare quello che succede in scena. Deve attingere ai giochi che nascono tra gli attori.

Infine, ma non per ultimo, c’è colui che dubita, elemento fondamentale nella COMPAGNIA DI TEATRO POPOLARE. Perché non bisogna mai andare troppo d’accordo, pur essendo in accordo.

III. COSA FA?

Il Teatro Popolare vuole raccontare storie, vuole creare un metodo di lavoro che faccia sognare, che faccia ridere, piangere e pensare chi lo vede e ascolta. E che dia da mangiare a chi lo fa.

Il Teatro Popolare parla delle cose che ci stanno a cuore. La storia che raccontiamo deve essere comprensibile anche ad un pubblico che non è abituato ad andare a teatro.

Contamina generi diversi, dal più basso al più alto, mettendo lo stile e la bellezza al servizio della storia. E’ pop: mischia le lingue, usa i dialetti, inventa un linguaggio nuovo e diretto.

IV. PER CHI LO FA?

Il Teatro Popolare cerca il modo di rianimare il pubblico in un’epoca in cui gli altri mezzi di comunicazione hanno ridotto l’attività del pubblico a zero e hanno abituato il pensiero all’inerzia. Il Pubblico è diventato passivo, privo di spirito critico.

Il Teatro Popolare NON recita al pubblico ma CON il pubblico: è drammaturgia istantanea.

Bisogna dare tutte le coordinate al pubblico, in modo che entri nella storia dall’inizio e si identifichi con i personaggi. Sul palco non esistono gesti casuali, anonimi, inespressivi. Ogni cosa deve avere un senso, deve assumere un significato che arrivi al pubblico. E se ciò non accade, si deve fare in modo che accada.
Il pubblico capisce chi bluffa e chi è sincero. Un gesto che non nasce da dentro è come una stonatura: si distingue perché resta fuori dal gruppo.

Perciò, di seguito, alcuni esempi su come il Teatro Popolare intende rianimare il pubblico in modo che diventi attivo, critico e mutabile:

1. Prima dello spettacolo, gli attori svolgeranno incursioni, azioni, scenette, interazioni con il pubblico in modo da rianimarlo già all’ingresso in teatro e prepararlo alla storia a cui assisterà. Gli attori e la Compagnia creeranno un rapporto intimo e diretto con lo spettatore, in una relazione uno a uno. Queste azioni saranno legate allo spettacolo e permetteranno al pubblico di predisporsi ad uno stato d’attenzione maggiore.
2. Gli attori avranno un doppio ruolo. Oltre al loro personaggio e alla loro presenza in scena in qualità di persone, gli attori assumeranno ciascuno una funzione specifica: il regista in scena, l’“a-parte”, l’animatore, il suggeritore, ecc. Queste funzioni sono volte a mantenere sempre dichiarato il gioco teatrale, mantenendo il rapporto col pubblico come se fosse un gioco a carte scoperte, senza “quarte pareti” o illusionismi ad effetto.
3. Uno o più attori racconteranno l’evoluzione del comportamento del pubblico dal carro di Tespi ad oggi passando per il teatro borghese, il cabaret, il teatro dialettale, il varietà; e si confronterà col pubblico stesso per capire cosa può fare il pubblico oggi per recuperare un ruolo attivo a teatro.
4. Alcune delle regole del Manifesto per un Nuovo Teatro Popolare possono essere inserite all’interno dello spettacolo come parte integrante del racconto teatrale (vedi Goldoni nel Teatro Comico, Moliére nell’Improvvisazione di Versailles, Garcia Lorca ne Il pubblico).
5. Per aiutare a tenere alta l’attenzione del pubblico, si può spezzare la trama con esercizi, giochi, flash, momenti onirici, antefatti, sub-plot, giochi temporali, dibattiti aperti tra la scena e la platea.
6. Gli artisti del Teatro Popolare giocano a comportarsi come se fossero gli attori/autori di una riforma teatrale. Giocano perché non prendono mai se stessi troppo sul serio, ma sul serio prendono quello che fanno. E non potrebbe essere altrimenti, dato che questa riforma nascerà da un gioco. Si gioca a creare/fare e rifare una riforma come se fosse uno scherzo che, però, forse, un giorno, improvvisamente diventa vero. E solo quando il gioco sarà da un bel po’ iniziato (non è ancora l’ora) verrà diramato il secondo comunicato del Manifesto per un Nuovo Teatro Popolare.

Quale spazio è rimasto al linguaggio popolare, stretto tra nazionalpopolare/populistico e volgare? In questo spazio dovrebbe aprirsi la piazza per allestire le scene del teatro popolare. In questo senso, se l’illusione mediatica è collusione delle coscienze, al teatro non resta che prender coscienza di questa delusione, e cercare una nuova illusione che sia allusione ai giochi bastardi del potere, dell’economia, delle decisioni di un impersonale destino. Del resto, se illudere, colludere, deludere sono le forme sviate, nell’uso che se ne fa, del ludere (giocare), allora tanto vale prendersi gioco dei giocatori, mettere loro in faccia la verità, come fanno i protagonisti di El nost Milan di Carlo Bertolazzi, le cui vicende ruotano attorno ai giochi di specchi, inganni, finzioni del circo, alle speranze del lotto, alla scelta di concedersi per non cedere alla fame. Quella povera gente non c’è più, ma la piazza virtuale è piena d’imbonitori e ciarlatani, guitti e truffatori. Meno tragici e meno genuini.

 


 

Ho fatto un sogno ed era molto “popolare”
Una lettera per Paolo Rossi
di Carolina De La Calle Casanova

 

“Io so e non so perché faccio il teatro
ma so che devo farlo, che devo e voglio farlo
facendo entrare nel teatro tutto me stesso,
uomo politico e no, civile e no,
ideologo, poeta, musicista,
attore, non attore, pagliaccio, amante, critico,
me insomma, con quello che sono e penso di essere
e quello che penso e credo sia vita.
Poco so, ma quel poco lo dico…”
Giorgio Strehler, Nessuno è incolpevole



Paolo inizia il primo laboratorio chiedendo ai trenta partecipanti che tipo di studi hanno fatto. Siamo al Piccolo e facendo una veloce statistica vengono fuori i soliti nomi importanti: l’Accademia del Piccolo, Paolo Grassi, Galante Garrone, qualche Stabile di Torino.
«Di solito alle scuole quando vedono che un allievo ha un determinato potenziale, sia esso comico o drammatico, glielo fanno dimenticare per insegnarli cose diverse. Normalmente l’opposto. Ora torniamo a quello che sappiamo fare, quello che portiamo nel sangue per svilupparlo e migliorarlo. Perché, diciamocela tutta, dobbiamo arrivare alla fine del mese e pagarci l’affitto. Se c’è una sola cosa che sappiamo e possiamo fare, di questi tempi, è meglio farla subito e bene. Il teatro prima di tutto non è un’arte, ma un mestiere e noi dobbiamo comportarci come i bottegai che fanno i conti alla fine della giornata», dice Paolo mentre mangia il gelato al limone. Tutti ridono.
Ma noi sappiamo che non c’è proprio nulla da ridere.

Dicono che i teatri siano vuoti e per certi versi è vero. Le compagnie giovani fanno fatica, non tanto a produrre uno spettacolo quanto a portarlo in giro e quindi guadagnare (non solo visibilità). Lo Stato taglia qua e là e, senza dare minimamente ascolto a Baricco, forse s’inizia a fare pulizia nella macchina privata e pubblica dell’amministrazione teatrale. I festival estivi – riproduzioni in piccolo delle migliori produzioni invernali – chiudono improvvisamente. I concorsi diventano il tiro a segno delle giostre e le residenze si sostituiscono alle produzioni.
Infatti il mestiere, come lo chiama Paolo, è cambiato e durante il laboratorio, oltre ad imparare i giochi del palcoscenico, i dibattiti s’animano tra un aperitivo e l’altro. No, non c’è nulla da ridere, eppure Paolo sorride e ci comunica che vuole fare una compagnia di teatro popolare.
Sta finendo le repliche del suo spettacolo Sulla strada ancora al Piccolo. Un monologo che racconta dello spettacolo che non andò in scena, Ubu, Re d’Italia. Proprio quello spettacolo dove aveva già perso una compagnia, la nostra.

“Il Teatro Popolare nasce dagli errori! È a partire da errori e incidenti che nascono le idee migliori. Se c’è un errore in scena, non bisogna nasconderlo. Bisogna sfruttarlo, ripeterlo, mostrando al pubblico che tutto era voluto”.

Sorridiamo anche noi, tra i denti, e torniamo a casa pensando che è proprio un bel sogno, questo del teatro popolare: un teatro per tutti, un teatro che torna a vendere i biglietti in edicola, come ai vecchi tempi.
Tutto iniziò a Muggia nel 2007, dove assieme alla giovane Compagnia triestina Pupkin Cabaret avevamo inziato a mettere le fondamenta per un nuovo teatro popolare. Lì era nato il primo manifesto, le prime domande su come cambiare prima di tutto il nostro modo di fare teatro, sul pubblico, sulle storie da raccontare oggi, assieme a compagni di viaggio molto diversi tra loro come Renata Molinari, Giampaolo Spinato e Maria Consagra.

“Il Teatro Popolare non è razzista! Ama la contaminazione! Mescola i generi e gli stili.
Sfrutta i cambi di registro, dal comico al tragico e viceversa”.


A Milano, dopo due anni, le domande sono le stesse e la situazione teatrale, allora, rischia veramente di farci tornare per strada a fare cappello.
La scommessa e il rischio sono all’ordine del giorno, dunque, e la legge di Darwin nel frattempo sceglie chi questo mestiere lo deve fare o lo deve abbandonare
«Chi te lo fa fare?», chiede, il teatrante arrivato al maestro. Paolo risponde senza rispondere: «E’ una questione politica.»
Sappiamo che economicamente per un produttore o un distributore è un poker sicuro mandare in scena l’artista assieme a due musicisti, che raccontano questa o quella bella storia. Soprattutto se sul palcoscenico gioca Paolo Rossi. Se poi al menù aggiungiamo un dvd – libro, il preventivo e il consuntivo vengono da sé.
Eppure, la posta ora, follemente, è sul tavolo da gioco come un buffone in corte, che però, quando racconta le sue barzellette non solo fa divertire il Re, ma forse sa come farlo pensare.
La nostra scommessa è di unire un maestro e una giovane compagnia seguendo un meccanismo produttivo molto vecchio: la famiglia teatrale di repertorio.

“Il Teatro Popolare vuole recuperare l’ingenuità. L’ingenuità richiede spessore e semplicità insieme: recitare ogni volta come se fosse la prima”.

Paolo Rossi imparò da Fo, Strehler, Gaber, Cecchi, Jannacci. Maestri d’arte e di vita. Da loro rubò, da loro perse, e con loro fece il salto sul trampolino verso il proprio stile e la propria pazzia. Così, senz’altro, con la stessa generosità fa ora con noi, che da soli facciamo tutt’altro sul palco eppure abbiamo tanti punti in comune.

“Insegnare e tramandare i trucchi del mestiere favorisce il ricambio generazionale. Crea dei figli”.

Una volta il Re metteva alla prova il Buffone di corte dandogli degli argomenti sui quali lui doveva improvvisare sul momento, e spesso se falliva nel tentativo era condannato a morte o peggio ancora esiliato dal paese. Il Buffone doveva dimostrare al Re non solo di essere l’unico e il migliore nel proprio mestiere, ma di saperne una in più di lui sull’argomento proposto. Ugualmente accadeva quando il Re invitava una compagnia di comici in corte durante i festeggiamenti reali. La Compagnia di comici doveva essere pronta a mettere in scena qualsiasi opera proponese il Re.
Il trucco, per i poveri artisti, si nascondeva nella capacità di saper adattare il proprio repertorio, il proprio patrimonio culturale alle richieste inaspettate del Re, che seguiva inconsapevolmente il volere della moda o della corte in quel momento. Questo trucco era alimentato negli artisti dal vizio malsano per l'immaginazione.
Nessuna evoluzione da allora per i comici dell’arte oggi. Il trucco rimane lo stesso, e forse è un po’ più viziato e confuso visto che oggi non è più a rischio la vita, ma la faccia, e in tanti sono disposti a perderla pur di avere un attimo sotto i riflettori, anche in mancanza di un Re che li guardi.

“Il Teatro Popolare è fatto da persone-vive-che-fingono per persone-vive-che-credono, racconta storie credibili e incredibili di tutti i tempi, si consuma nel buio di una sera, ma ogni sera è diverso, capita in teatro, ma anche in piazza o in barca, porta costumi colorati, fa apparire ora una casa ora una battaglia, parte da quello che c’è e di quello che c’è non manca nulla. Non ha una casa, un teatro fisso. Il mondo è il suo palcoscenico. E’ più importante raccontare storie in giro che avere un bel camerino”.

«Dobbiamo arrivare a tutti, dal più piccolo al più anziano, dal più povero al più ricco e per farlo dobbiamo usare tutto quello che abbiamo a nostra disposizione. La magia, unico nostro dovere nei confronti di chi ci vede e ascolta, quella la dobbiamo far avvenire insieme. E per ricrearla basta imparare bene i trucchi. E avere una bella storia. Poi, forse un giorno, arriva da sola, quella troia. Il pubblico va rianimato. La tv lo ha rincoglionito completamente. Bisogna rammentare loro che siamo di carne e ossa e che possono parlarci, ferirci, insultarci o applaudirci mentre siamo sul palco», dice Paolo mentre parla del pubblico.
Quel giorno in pausa mi dice che vuole lavorare sul Nost Milan di Bertolazzi. Bomba! La povera gente, la crisi, la fame, la futura Argentina, l’ intellettuale medio che parla in tv del futuro dell’Italia, lo studente che assieme al pensionato raccoglie la frutta per terra al mercato, le riforme che manifestano in piazza, i manifestanti che ora sono seduti sulle poltrone al Millioner. Certo. Questa è la storia.
«Ma siamo in quindici, Paolo!», gli dico pensando già alla compagnia. «Lo so. Ora dobbiamo trovare i soldi.» Che Paolo Rossi fosse matto lo sapevo già, ma forse era soltanto un trucco.

“Il Teatro Popolare parla delle cose che ci stanno a cuore: se stanno a cuore a noi stanno a cuore anche al pubblico”.

Durante i laboratori gli esercizi e le improvvisazioni mettono ognuno davanti alle proprie incapacità. E nell’emergenza uno si salva provando a fare delle cose che sulla carta non sono scritte. Il salto nel vuoto. Uno degli esercizi preferiti di Paolo è il teatro di soppravvivenza.
Il pubblico - sempre presente in sala anche durante i laboratori – sceglie l’argomento, la storia e gli attori hanno 15 minuti per scegliere la scaletta dell’improvvisazione.
«Voi dovete pensare che fra poco arriva il sindaco che vi ha commissionato questa rappresentazione. Come si faceva una volta nei teatri di provincia. Vi ha promesso, oltre la cena, 3000 euro. E voi, che eravate arrivati pronti con l’Otello, dovete rappresentare un'altra commedia. »
L’artistico, il lavoro in sala, nel teatro popolare, non è distante dalla parte organizzativa e produttiva. Sotto questo tetto l’organizzatore pensa come l’attore sul palco.

“Il Teatro popolare è imprevedibile! Nasce nell’improvvisazione e muore nell’improvvisazione. E questa sera sarà per voi e per noi veramente la prima volta! Infatti il Teatro Popolare rifiuta il concetto di replica. È sempre qui e ora!”.

Siamo all’inizio di questa storia, di questo sogno. Ma quello che si pensa ad occhi chiusi di notte non è diverso da quello che si fa ad occhi aperti il mattino dopo.

marzo, 2009


 


 

Stiamo diventando tutti ariani?
L’eredità profetica di Fabio Mauri in un prezioso volume che raccoglie tutta la sua opera
di Andrea Balzola

 

Fabio Mauri (1926-2009), prima di salutarci ed avviarsi nell’Oltre, ha fatto appena in tempo a vedere pubblicata la sua opera omnia in un corposo volume molto curato e prezioso, che va ben aldilà della monografia per diventare piuttosto un libro d’artista. Quasi tutto in un elegante e contrastato bianco e nero, con una sequenza fotografica di tutte le sue installazioni e performance. Il titolo, sigillo provocatorio di mezzo secolo di attività, è Io sono un ariano, l’editore, estimatore e amico di Mauri, è il gallerista Franco Nucci con i tipi delle Edizioni Volume! – Lampi di Stampa.
Un libro inusuale e importante, che grazie alle immagini, a un intenso testo introduttivo di Achille Bonito Oliva, da sempre attento esegeta del lavoro di Mauri, e alle puntuali schede delle singole opere a cura di Dora Aceto, Tullio Catalano, Giorgio Pressburger e Lara Vinca Masini, consente di ripercorrere per brevi ma significative tracce un’avventura artistica unica nel suo genere. Anzi, unica nel suo libero attraversamento dei generi; infatti Mauri, dopo un esordio pittorico gestuale (negli anni Cinquanta) che già però faceva trasparire la sua vocazione concettuale, subito sfociata nella serie degli “schermi”, cerca l’incrocio dei linguaggi: il cinema, la scenografia e la performance teatrale, la fotografia, l’oggetto dadaista, l’installazione. Non a caso nel 1980 ricostruisce una Gran serata futurista con gli allievi e i docenti dell’Accademia di Belle Arti de L’Aquila (dove ha insegnato per vent’anni), una vera e propria summa di tutte le sperimentazioni futuriste dalle origini all’epilogo del movimento.
Mauri si pone dunque come consapevole continuatore dell’utopia avanguardista che cerca l’opera d’arte totale, la sintesi dei linguaggi, ridisegnandola però all’interno di precisi teoremi concettuali. Tutta l’opera di Mauri può dirsi attraversata da un’ossessione: quella del fascismo. Ma il fascismo non solo inteso come nefasto evento storico di cui è indispensabile mantenere lucida memoria, ma come malefica congiunzione di Menzogna e Ordine, di Assolutezza del Potere e Vacuità del Senso. Non stupisce che Mauri sia stato anche amico e precoce compagno di strada di Pasolini (con lui, nel 1942, fonda la rivista “Il Setaccio”), nei primi anni Settanta, gli stessi anni in cui Pasolini progettava un film su San Paolo ambientato in epoca fascista (non fu mai realizzato ma ci rimane una bellissima sceneggiatura) e poi realizzava il suo film più crudo e spietato: Salò e le 120 giornate di Sodoma, Mauri iniziava la sua stagione di opere e performance politiche ispirate alla tragedia della seconda guerra mondiale, dell’olocausto, dell’ideologia nazi-fascista e della sua iconografia. Se Pasolini, con Salò, denunciava la crudele oscenità dell’ideologia fascista, identificandola con l’ottusità di un potere che copriva la sua impotenza (culturale e civile) con il mito di una virilità violenta, Fabio Mauri fin dalla sua performance Che cos’è il fascismo del 1971, che riproduceva le cerimonie dei giochi della gioventù fascista e hitleriana, intrecciando arte e teatro, faceva emergere l’estetica dell’autoritarismo, quella macchina nullificante dell’identità che dietro l’ordine e l’eleganza delle divise, delle scenografie e dei simboli nascondeva la pianificazione industriale del massacro:

“Qui si sperimenta in poco tempo l’ideologia falsa, l’abisso della Superficialità istituzionalizzata, la Tautologia del Potere assoluto, la malignità intima della Bugia nascosta nell’Ordine, la vergogna della confusione culturale, l’irresponsabilità di chi avoca a sé la libertà di giudizio collettivo, l’inganno della giovinezza che porta grazia e fiducia a fare da preludio ad ogni proprio massacro.”

In questo ciclo di “affreschi” multilinguistici sugli orrori del Novecento, dove si sovrappongono eventi pubblici e memoria personale, c’è la presentazione del corpo nudo e vivo di una donna Ebrea a confronto con oggetti confezionati con la pelle degli ebrei uccisi nei campi, "una profezia" fortunatamente mancata di un mondo in cui i nazisti vincitori hanno trasformato gli ebrei in materia prima, in categoria di consumo (1971); c’è un roseto dedicato al gruppo di studenti cattolici tedeschi della Rosa Bianca (2000), precoci oppositori al nazismo barbaramente trucidati; un doppio rito religioso (cristiano ed ebreo) officiato nel famigerato palazzo delle torture nazifasciste in via Tasso (1993); ma ci sono anche le foto e i filmati degli oppositori del regime cinese (1992), gli studenti di Tien Amen giustiziati dai loro coetanei soldati, perché il fascismo non ha un unico colore e un unico simbolo, è una retorica armata del Nulla Universale, un’ideologia dell’annientamento del diverso, del molteplice, del particolare. E in questo il linguaggio svolge un ruolo primario, perché è dalla sua manipolazione che inizia lo sterminio del Senso, allora Mauri rimanipola creativamente e criticamente, tramite il collage, il fotomontaggio, eccetera, la manipolazione propagandistica del linguaggio autoritario e bellico:

"L'aderenza tra linguaggio ed uomo è così stretta, in condizione di guerra, che sul tavolo analitico se ne ricava una nozione antropologica maligna: il linguaggio è cattivo, o il suo uomo lo è, o l'uno e l'altro lo sono.” (sul libro d’arte Linguaggio è guerra, del 1975)

L'unico antidoto a tale perversione del linguaggio è l'esercizio della critica, ma una critica messa in scena dall’arte, laboratorio ri-generativo dei linguaggi, spazio dove la realtà diventa metafora e dove la metafora può prospettare nuovi orizzonti di realtà. Questo è lo “strabismo” di cui parla Bonito Oliva a proposito di Mauri, il suo essere un intellettuale “obliquo” manipolatore creativo di materie per elaborare concetti e manipolatore critico di concetti per elaborare forme e ambienti espressivi. Artista rigoroso all’estremo, ha avuto come scopo “un accrescimento etico dell’estetica , la conquista di un tempo presente che coniuga la memoria del passato attualizzato dal movimento attivo dello spettatore” (A.B. Oliva). Uno scopo perseguito e raggiunto attraverso una elaborazione concettuale delle innovazioni delle avanguardie artistiche, e in particolare mediante quell’operazione di sintesi che è la teatralizzazione dei linguaggi delle arti, materialmente rimescolati (ad esempio proiettando le sequenze cinematografiche su corpi e oggetti), e riconcepiti per ristabilire una centralità dell’uomo (come osservatore attivo e critico, come regista di azioni ed eventi) rispetto a un modello di sviluppo ideologico, tecnologico ed economico che ha messo al centro il sistema con la sua logica di efficienza e di omologazione, che ha sostituito il dialogo e la riflessione con la propaganda mediatica, che ha sostituito il lavoro con la speculazione finanziaria.
Questa è la vittoria del fascismo, tanto temuta da Mauri e profetizzata da Pasolini, un nuovo fascismo apparentemente meno facinoroso e violento di quello storico, ma molto più penetrante, capace non solo di vestirci di nero e di farci fare il saluto romano (anche se in Italia esso tenta di riprodurre e rivalutare persino gli aspetti esteriori del passato), ma di operare dall’interno quella trasformazione antropologica che ci fa diventare tutti “ariani” (vedi l’installazione Ariano, del 1995, che da il titolo al libro), e paradossalmente più le etnie si rimescolano, i bisogni e la cultura diventano globali, più il fascismo cerca di distinguere e separare le categorie dell’avere da quelle dell’essere, essere ariano oggi è appartenere non a una razza antropologica (sarebbe impossibile, perché le razze non esistono più) ma a una razza sociale, eventualmente a una razza mentale. Ben prima che il Signore delle televisioni divenisse il nostro nuovo monarca, Pasolini scriveva:

“Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza (… ) pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane (…) È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, buttata per sempre.”

Al contrario, Mauri si è ostinatamente cimentato in una originale ricerca identitaria provocando traumatici eventi di consapevolezza con la fulminea intuizione dell’artista e un arsenale linguistico di metafore anti-omologanti. Grazie Fabio, noi non dimenticheremo.


 


 

In viaggio con il Teatro de Los Andes
L'Odissea di César Brie
di Erica Magris

 



Ulisse (Gonzalo Callejas) e Penelope (Mia Fabbri) nell'Odissea di César Brie.

Una tela di Penelope intessuta con tanti fili differenti: così César Brie descrive la sua Odissea, che da due mesi percorre l'Italia raccogliendo un pubblico numeroso, giovane, curioso. Dietro l'immediatezza e l'apparente semplicità, l'ultimo spettacolo del Teatro de Los Andes possiede una struttura complessa, frutto di un lungo lavoro di ricerca. Scrive Brie nelle note di regia:

Partiamo da noi, dalla nostra Odissea. Quali sono i nostri naufragi, le nostre passioni, i nostri mostri? Cosa abbiamo abbandonato? Dove si nasconde la nostra Itaca? Diciamo IO, IO, per dire NOI. Diciamo NOI per dire VOI. Non dobbiamo smarrire questa presenza intima che bussa alla porta e vuole diventare l'universo.

La compagnia di Brie, installata in Bolivia e nata dall'esperienza dell'esilio, sostanzia il mito con la propria storia e lo riconduce alle vicende attuali dell'umanità: il viaggio e lo sradicamento uniscono allora l'eroe greco, gli attori di diverse nazionalità, e tutti gli Ulisse di oggi, che lasciano le loro case aspirando ad una vita migliore. Il tema dei migranti sudamericani che tentano di raggiungere gli USA è trattato esplicitamente nel flash-back di Ulisse alla corte di Alcinoo, ma riaffiora costantemente in tutto lo spettacolo, che, pur seguendo l'impianto narrativo del poema omerico, si svolge in una trama densa di slittamenti e di metafore.
Dieci attori si avvicendano sul palco e paiono moltiplicarsi interpretando le figure umane e divine dell'Odissea, dando un volto e un nome alla massa anonima dei tanti esuli sospesi tra un passato perduto e un futuro incerto. Agiscono in una scena essenziale e trasformabile, nella quale sipari mobili di canne di bambù delimitano stanze e paesaggi, definiscono varchi e barriere, accompagnando i continui cambi di scena con il loro rumore caldo e secco. In questa geometria instabile della separazione e della solitudine, il pubblico è il "voi" sempre presente, cui i personaggi si rivolgono ora in monologhi lirici ora in azioni corali, nelle quali, con gesti stilizzati, costruiscono immagini forti che interpellano direttamente la coscienza dello spettatore.
Il testo poetico ed evocativo – scritto dallo stesso Brie a partire dal lavoro scenico degli attori – è incarnato da corpi agili e danzanti, spesso sostenuti dal canto e dalla musica eseguiti dal vivo. Gli elementi scenici sono semplici e concreti, ma compongono una poesia visiva che suscita una meraviglia infantile. L'immaginazione teatrale trasforma il catino in cui Ulisse immerge la testa nel mare infuriato, e vede nei trampoli di Nausicaa la leggerezza della gioventù. Con stupore divertito si accoglie invece l'uso d'accessori contemporanei che irrompono nell'universo mitico, come quando Penelope è tormentata dagli scherzi telefonici dei Proci o uno Zeus un po' attempato non riesce a comporre sul cellulare il numero della ninfa Calipso.
Brie gioca sapientemente con i registri e suscita sentimenti contrapposti. Incessantemente, si passa dal riso alla compassione, dal sorriso amaro all'orrore: disgusta il modo in cui Circe ingozza di cibo le sue vittime, rivoltano le gambe penzolanti delle giovani schiave che Ulisse decide di punire con l'impiccagione. Con quest'ultima, ennesima violenza, la peregrinazione dell'eroe greco si conclude nell'abbraccio della moglie e del padre. Ma le tante altre storie anonime restano aperte: riusciranno mai i nuovi Ulisse a tornare, a ritrovare la loro Itaca e i loro affetti? Su quest'interrogativo la narratrice Atena fa scendere una neve pacificatrice. Allo spettatore, che la compagnia ha condotto attraverso il mitico e il quotidiano, l'antico e il contemporaneo, il comico e il tragico, l'intimo e l'universale, sembra così chiedere di racchiudere queste storie in una valigia per portarle con sé, nel proprio viaggio, serbando lo sguardo umano e quasi ingenuo che lo spettacolo gli ha domandato.


 


 

Progetti, gruppi, giovani Compagnie: la nuova mappatura degli spazi giovani in Toscana
L'incontro di Prato
di Teresa Bettarini

 

31 marzo 2009. Tavola rotonda ai Cantieri Culturali di Officina Giovani a Prato su “Progetti, gruppi, giovani Compagnie. La nuova mappatura degli spazi giovani in Toscana”. Conduce Mimma Gallina.
L’incontro e’ l’appuntamento conclusivo del laboratorio Arcipelago Teatro/III Manuale di navigazione per giovani Compagnia Teatrali, un percorso formativo per giovani Compagnie e nuovi organizzatori. Gli appuntamenti precedenti, condotti da Elena Lamberti, hanno visto alternarsi come relatori compagnie, associazioni, organizzatori, tutti appartenenti alle nuove generazioni, che hanno riportato le loro esperienze in materia di amministrazione, organizzazione, promozione, distribuzione. La tavola rotonda e’ anche un appuntamento per una riflessione sulle “emergenze” toscane, ad un anno e mezzo di distanza dall’incontro che i Cantieri Culturali organizzarono in collaborazione con Ateatro nell’ ottobre 2007 su “Emergenze: i giovani, l’accesso alle professioni dello spettacolo, il ricambio generazionale, il mercato del lavoro”. Cosa e’ cambiato in questo periodo nel panorama regionale? Nuovi spazi si sono aperti, associazioni formate da giovani organizzatori si stanno affermando in ambito organizzativo/promozionale, nuove compagnie si stanno affacciando nel panorama teatrale italiano. Possiamo parlare di un “fenomeno” toscano? Come si e’ modificato il sistema organizzativo e di relazioni? Quali sono le criticita’, le esigenze dei giovani teatranti oggi? Sono tutti puntuali all’appuntamento: le giovani Compagnie (Teatro Sotterraneo, Gogmagog, Gli Omini, Zaches Teatro, Kulturificio 7, Teatrificio Esse, Teatri della Resistenza, Rapsodi, Le Signorine), i giovani organizzatori (Luca Ricci, Francesco Fantauzzi, Simona Mammoli, Lisa Bellini, Gilda Ciao e naturalmente Elena Lamberti), le istituzioni (Franco D’Ippolito per il Teatro Metastasio, Gianna Pazzagli per la Fondazione Toscana Spettacolo, Massimo Paganelli per Armunia, Isabella Valoriani per Fabbrica Europa), i partecipanti al laboratorio. Mimma Gallina introduce con una nota positiva, sottolineando alcuni punti di vantaggio (artistici e organizzativi) del panorama toscano e riportando le osservazioni di Renato Palazzi sulla “vitalita’” del teatro italiano contemporaneo in genere (da www.ateatro.it/ Buone pratiche 2008): “Oggi non abbiamo più quei cinque o sei artisti carismatici che incantavano le platee (quando le incantavano), ma al loro posto si sono accesi cento piccoli fuochi: il problema è soltanto di verificare se ci sono le condizioni perché essi possano confermarsi e durare nel tempo. Si è attuato, a mio avviso - e di sicuro non è un fatto trascurabile - un significativo processo di democratizzazione dell’accesso al palcoscenico. In passato il monopolio degli strumenti del teatro era saldamente in mano a pochi grandi nomi cresciuti all’interno delle istituzioni: ora le correnti più forti, più innovative vengono da fuori e dal basso, da gruppi nati per impulso spontaneo, del tutto estranei a qualunque idea di formazione tradizionale, attenti solo ad affermare i propri contenuti.” Il riferimento rincuora platea: un certo ottimismo sembra possibile, nonostante criticita’ del presente. Iniziano gli interventi. Le Compagnie, gli organizzatori che si sono registrati vengono chiamati uno alla volta al tavolo da Mimma Gallina. Il panorama e’ articolato: ci sono le Compagnie che hanno trovato in questi due anni una visibilita’ nel panorama teatrale italiano (Teatro Sotterraneo, Gli Omini), che ringraziano le istituzioni presenti per le opportunita’ che sono state loro offerte di ospitalita’, di spazi prove, per il sostegno alle produzioni. Ci sono le Compagnie in residenza presso teatri da molti anni (Gogmagog), che lamentano la staticita’ di un rapporto che non riesce a rinnovarsi, c’e’ chi ha gia’ una agenzia di distribuzione che li segue (Rapsodi), che invece svolge tutto il lavoro organizzativo all’interno della Compagnia, senza precise distinzioni di ruoli (Gli Omini). Ci sono gli organizzatori (Simona Mammoli e Gilda Ciao dell’Associazione Drama, Francesco Fantauzzi di Arteriosa), ci sono le Associazioni che stanno portando avanti un progetto di rete (Associazione Amnio), Luca Ricci di Kilowatt Festival. Fra l’ottimismo di alcuni, il pessimismo della maggior parte, le energie di tutti, i punti di criticita’ che ricorrono negli interventi sono quasi sempre gli stessi. Se due anni fa il problema principale era la visibilita’, l’organizzazione interna, adesso il problema si e’ spostato su altri temi: i cachet, la puntualita’ nei pagamenti, il lavorare sul pubblico, la necessita’ di forme di coordinamento fra Compagnie che hanno progettualita’ condivise. Se in questi anni si sono moltiplicati, soprattutto al Centro-Nord, gli spazi di rappresentazione, piu’ o meno grandi, piu’ o meno alternativi, le condizioni economiche che vengono offerte sono diventate per tutti quelle di una percentuale sugli incassi, e il numero degli spettatori e’ talvolta di venti. Per quanto riguarda poi la puntualita’ dei pagamenti (altro punto dolens), questa non viene quasi mai rispettata, e le istituzioni piu’ consolidate sono spesso le meno puntuali. A questo si collegano altre tematiche. Quasi tutti si soffermano sulla centralità del pubblico e sulla necessità di dedicare energie a (ri)costruire un rapporto costitutivo sul piano artistico, sociale ed economico. E’una nota relativamente nuova nell’area del teatro giovane e di ricerca per cui il pubblico e’ stato spesso trascurato e considerato lontano dalle scelte e dalle pratiche artistiche dei gruppi, che hanno tradizionalmente rivolto la propria attenzione più agli addetti ai lavori che agli spettatori. Zaches Teatro solleva anche il problema del pauperismo delle poetiche, spesso dovuto al pauperismo dei mezzi. Teatri della resistenza invece raccontano di essersi imposti un anno di riflessione, senza nuove produzioni, senza distribuzione, senza rincorrere bandi e concorsi, per ripensare un percorso artistico e per attivare contatti con altre realta’ teatrali (…Sicilia) Kulturificio 7 e Teatrificio Esse si soffermano sulla necessita’di un rapporto piu’ stretto con le istituzioni che sono sul territorio, lamentando la difficolta’ di contatti, di occasioni di incontro. Gli organizzatori propongono forme di coordinamento, almeno fra le Compagnie che portano avanti una progettualita’ affine, il ricorso ad associazioni o ad organizzatori esterni che possano curare la promozione e la distribuzione di piu’ Compagnie. La necessita’ di costruire delle reti, evitando la concorrenzialita’ interna, evitando di ripercorrere logiche ormai superate dai tempi. Francesco Fantauzzi mette in evidenza la necessita’ di ricercare fonti di finanziamento fuori dal sistema culturale e teatrale in senso stretto, come possono essere i fondi sulle politiche giovanili, e di azioni concrete, di progetti sul territorio. Solo tre Compagnie (Zaches Teatro, Gogmagog e Teatri della Resistenza) hanno attivato contatti con realta’ all’estero. Per tutti l’incertezza del quotidiano, il riuscire a vivere di questo lavoro. Infine, la parola alle istituzioni. C’e’ chi si sofferma sull’energia espressa dalla platea (Massimo Paganelli), chi sottolinea la crescita complessiva che si registra rispetto a due anni fa, nel senso di una maggiore consapevolezza da parte dei gruppi del contesto teatrale, di una piu’ precisa focalizzazione dei punti di criticita’ (Isabella Valoriani). Chi riporta la discussione ad un quadro piu’ generale: le difficolta’ del teatro italiano, la necessita’ di parametri numerici che non favoriscono le giovani Compagnie(Gianna Pazzagli). Franco D’Ippolito allarga la prospettiva su una visione della contingenza italiana: i tagli della finanziaria agli enti pubblici, la riduzioni di finanziamenti da parte degli enti locali, il taglio del FUS, il disegno di legge sul teatro. E’ un sistema in fase di trasformazione, non ci sono certezze per nessuno, la selezione e’ naturale e inevitabile. E dopo questo pessimismo della ragione, contrapposto all’ottimismo della volonta’ degli interventi precedenti, Mimma Gallina tira le conclusioni, prodighe di consigli: organizzatevi, coordinatevi, fate sistema, esprimete il vostro pensiero sulla proposta di legge, perche’ il futuro si costruisce lavorando sul presente. C’e’ molta attenzione adesso verso le nuove generazioni, ma non si sa per quanto ancora. La societa’ contemporanea e’ famelica di novita’, di mode. Gruppi che sono stati in auge negli Anni Novanta, dopo una crescita vertiginosa sono caduti nell’oblio. Il rinnovamento deve essere continuo, la ricerca costante, non adiagiatevi su posizioni conquistate, non rinchiudetevi in nicchie di sopravvivenza. Forse potremmo concludere citando ancora Renato Palazzi: “La penuria di fondi, l’esigenza di operare in uno stato di precarietà, la necessità di rivolgersi a forme di teatro più scarne ed essenziali, l’impetuoso affacciarsi di nuove formazioni, portatrici di un’espressività più frammentata e informale, il loro approdo naturale a spazi più raccolti e appartati, dove si instaura un contatto ravvicinato col pubblico – si intrecciano indissolubilmente, tutti in vario modo concorrono a spostare i confini della creazione teatrale. Non so se daranno luogo a esperienze durature: certo ci consentono di scoprire ogni giorno fenomeni inattesi, che fino a qualche anno fa non ci saremmo neppure sognati. E questo, francamente, non è poco.”
 


 

Il teatro multimediale alla Festa della Marineria
Oltre la vista del mondo per la regia di Andrea Balzola
di Ufficio Stampa

 

Xlabfactory partecipa alla Festa della Marineria il 12 e 14 giugno con un nuova straordinaria produzione teatrale multimediale:

OLTRE LA VISTA DEL MONDO
Message in a Bottle.


Recital multimediale per il Golfo dei poeti

Lo spettacolo ha la regia e la drammaturgia di Andrea Balzola – uno degli artefici del teatro multimediale in Italia-, l’interpretazione di Jole Rosa -protagonista della stagione teatrale d’avanguardia romana- e del vincitore del premio Olimpico del teatro, Massimo Verdastro. Le immagini video sono di uno dei più rinomati videoartisti internazionali, l’anglo-etiope Theo Eshetu, con la collaborazione di Samuele Malfatti. Sound design e musiche di Mauro Lupone e Eddy Mattei, scenografie di Mario Sturlese con Luca Dematheis e light design di Liliana Iadeluca. Con la straordinaria partecipazione di Francesca Della Monica. Direttore di produzione è Anna Maria Monteverdi affiancata da Myriam Cinquepalmi.
La location scelta per questo allestimento è l’officina Carpentieri e Calafati dell’Arsenale Militare che ospita, in restauro, il mitico Leudo Felice Manin, simbolo della Festa della Marineria. Il leudo, classe 1891 la “quarta caravella”, il più antico dei velieri liguri servito per trasportare merci e viveri alle isole dell’Arcipelago toscano ma anche per portare emigranti sfidando l’Oceano, accoglierà questo spettacolo evocativo e tecnologico che unisce il poema La Vista del Mondo dell’autore spezzino futurista Ettore Cozzani alle poesie dei romantici inglesi che hanno abitato il territorio spezzino in una traduzione e riduzione originale di Andrea Balzola. Il poema di Cozzani è una visione contemplativa che trasfigura il paesaggio del Golfo della Spezia trasformandolo in una specie di Aleph borgesiano, un golfo che contiene in sé tutti i più straordinari golfi del mondo. Una contemplazione estetica che diventa estatica, una visione mistica che apre la bellezza del mondo materiale alla luce metafisica del mondo spirituale. In questa dimensione di viaggio multimediale metaforico e poetico dal mare al cielo, appaiono – come benevoli fantasmi, o come angeli del mare – le voci dei grandi poeti inglesi che tanto hanno amato quel mare fino a sfidarne la forza (il naufragio di Shelley, la pericolosa nuotata di Byron tra Lerici e Porto Venere in omaggio all’amico morto) e morirci (Shelley). Le immagini in video del Golfo della Spezia apriranno una finestra visiva sulla voce recitante dell’attrice Jole Rosa e di Massimo Verdastro, immagini simboliche che evocheranno momenti chiave della biografia di Byron e di Shelley nel Golfo. Accompagnati dalle immaginifiche vele delle proiezioni video, dal vento della musica elettronica e dal canto dal vivo, lo spettatore viaggerà in un mare onirico, notturno, pieno di incantesimi e misteri, di contrastanti sentimenti, di avventure dell’anima e di aspirazioni alla libertà dei popoli oppressi.
www.xlabfactory.org

 



SPECIALE ELEZIONI 2011

La cultura e lo spettacolo nei programmi elettorali

LE CITTA'
Milano: il "metodo Pisapia" e le "cose fatte" della Moratti
Torino: Piero contro Michele
Ravenna: Capitale della Cultura 2019?
Cosenza: la differenza tra destra e sinistra
Napoli: (soprav)vivere di cultura?
Bologna: come rilanciare il "marchio Bologna"?
Trieste: marketing territoriale o ambizioni da capitale della cultura?
Cagliari: Massimo contro Massimo
Reggio Calabria: investimenti o fare sistema
Catanzaro: il più giovane candidato sindaco di un capoluogo di provincia
Siena: una capitale per Rozzi e Rinnovati
Varese: tra gruzzolo e patrimonio
Considerazioni finali e provvisorie