ateatro 119

Le Buone Pratiche: è stato un successo!!!
Oltre la vostra più sfrenata immaginazione
di Redazione ateatro (foto di Luisa Supino)

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro119.htm#119and1
 
Il fotoromanzo delle Buone Pratiche: le relazioni, gli interventi, le immagini
Il teatro ai tempi del grande CRAC
di Lucia Maroni (testo) e Luisa Supino (foto)

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro119.htm#119and2
 
L'ottimismo di un pessimista nato
Un intervento per BP05
di Renato Palazzi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro119.htm#119and4
 



L'ultimo nastro di Harold Pinter

La scomparsa del Nobel britannico
di Redazione ateatro


 


Teatro e sport: un'anteprima dalla Garzantina

In libreria l'enciclopedia dei record
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro119.htm#119and10
 
Tre parole per un sogno
Ronconi porta in scena Sogno di una notte di mezza estate
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro119.htm#119and12
 
Per una grammatica del gesto
Maria Luisa Catoni, La comunicazione non verbale nella Grecia antica, Bollati Boringhieri, 2008
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro119.htm#119and15
 
FEEL: sentire il festival
The Ulster Bank Dublin Theatre Festival
di Mimma Gallina


 
Teatri contro la Guerra al Living Theatre
La nuova sede a New York
di Renato Sibille

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro119.htm#119and30
 
Per un teatro spazio-suono
Le performance di Hotel Pro Forma
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro119.htm#119and40
 
Teatro e digitale: alcuni punti di partenza
Un'intervista a Ralf Richardt Strøbech
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro119.htm#119and41
 
I Konic THTR in laboratorio a Imperia
Per una danza interattiva
di Anna Maria Monteverdi


 
La scena teatrale tecnologica catalana
Intervista a Konic thtr e Marcel.lì Antunez Roca (con una nota di Carles Canellas-Rocamora teatre)
di Anna Maria Monteverdi


 

 

Le Buone Pratiche: è stato un successo!!!
Oltre la vostra più sfrenata immaginazione
di Redazione ateatro (foto di Luisa Supino)

 

La quinta sessione delle Buone Pratiche è stata un successo.

E' stata un successo dal punto di vista della partecipazione: oltre 130 presenze registrate da tutta Italia (da 36 province in 15 regioni, a voler essere precisi: dunque una manifestazione di respiro nazionale) e anche alcune presenze straniere, oltre ovviamente ai relatori e a diverse decine di partecipanti che non si sono registrati.

E' stata un successo anche per la qualità delle relazioni e degli interventi, con alcuni momenti davvero emozionanti: Ottavia Piccolo che ha interpretato Il sindaco di Massini, la testimonianza di un maestro come Carlo Cecchi, la passione di Marco Martinelli, la lucidità di Claudio Meldolesi...

C'è stata anche l'attenzione dei media: l'articolo di Sara Chiappori sulla "Repubblica", i collegamenti in diretta con Piazza Verdi (Radiotre)...

Altre foto & info nel forum di ateatro.
E naturalmente il Forum di www.ateatro.it è aperto per commenti, repliche, approfondimenti, pettegolezzi...

BP Il fotoromanzo foto di Luisa Supino.



Benvenuti alle Buone Pratiche: l'accoglienza nell’atrio della Civica Scuola d’Arte Drammatica.



Da sinistra, Giulio Stumpo, Andrea Di Stefano, Oliviero Ponte di Pino, Francesco De Biase, Andrea Maulini, Mimmo Sorrentino e Giangilberto Monti.



L'affollatissima e attentissima platea delle Buone Pratiche 2008 alla Civica Scuola d'Arte Drammatica: al centro Ottavia Piccolo.




Lucia Maroni verbalizza: metteremo online al più presto.



Ottavia Piccolo, Il sindaco.



Da sinistra, Claudio Ascoli, Gigi Gherzi, Oliviero Ponte di Pino, Manuel Ferreira, Giulio Cavalli.



Carlo Cecchi si racconta



Da sinistra, Daniela Gusmano, Lisa Bellini e Elisa Noci, Mimma Gallina, Elena Lamberti, Daniele Milani, Sara Panattoni e Roberto Biselli.



Marco Martinelli, Fare luogo.



Il banchetto delle firme, con le petizioni per Villa Piccolomini e per valorizzare la produzione teatrale di genere.



Le conclusioni: Mimma Gallina, Oliviero Ponte di Pino, Claudio Meldolesi. Sullo schermo, il Teatro Petruzzelli da "Immagini per Elogio dell’incendio di Eugenio Barba".



Gran finale: spumante e panettone per tutti: se non c'eravate, vi siete persi pure questo!


 


 

Il fotoromanzo delle Buone Pratiche: le relazioni, gli interventi, le immagini
Il teatro ai tempi del grande CRAC
di Lucia Maroni (testo) e Luisa Supino (foto)

 

Premessa
Sintetizzare gli interventi di BP è un compito ingrato, perché sono stati tutti preziosi e ricchi di contenuti; riassumerli a volte è stato impossibile, ma spero di aver colto i concetti e i dati essenziali e non aver frainteso le intenzioni dei relatori.
 
La mattinata: Lo spettacolo dal vivo ai tempi del grande crac
 
Introduzione
Dopo il saluto iniziale di Maurizio Schmidt, direttore della Civica Scuola d’Arte Drammatica che ospita la giornata, ha aperto i lavori Oliviero Ponte di Pino, riassumendo gli obiettivi alle origini di BP (valorizzare progetti interessanti che possono essere replicati altrove e le reti; fare il punto, anno dopo anno, sull’evoluzione del teatro italiano) e ha sottolineato come fosse in dubbio questa quinta edizione, perché sembrava ci fosse un calo di tensione generale. Per mettere in discussione il senso di BP e tracciare un’analisi della situazione, aveva pubblicato su ateatro l’articolo La fine del (nuovo) teatro?/, che ha suscitato un dibattito effervescente. Viste le reazioni e considerata l’esplosione della crisi economica, Oliviero e Mimma hanno ritenuto opportuno rilanciare BP, tenendo conto da un lato dell’usura dei modelli tradizionali di interpretazione degli eventi teatrali e dall’altro delle difficoltà che dovrà affrontare l’intero sistema, come diretta conseguenza del crollo delle Borse e della prevedibile contrazione del sostegno pubblico alla cultura.
 



L'affollatissima e attentissima platea delle Buone Pratiche 2008 alla Civica Scuola d'Arte Drammatica: al centro Ottavia Piccolo.


Andrea Di Stefano - Valore economico della cultura e creatività nell’era della Grande Crisi
L’intervento parte dalla considerazione di quanto sia complesso analizzare l’economia della cultura per la difficoltà di ottenere dati certi e comparabili (per esempio l’Istat nei dati sul terzo settore italiano accomuna cultura, sport e ricreazione in una classificazione che non valorizza l’elemento culturale e falsa la percezione dell’analisi). La crisi che stiamo vivendo viene solo accelerata dalla finanza ma è più profonda ed è una ristrutturazione di sistema.
Di Stefano trae considerazioni da alcuni dati (riportati sul forum):
- la spesa delle famiglie in ricreazione e cultura (Ricerca Ocse 2008) in Italia è del 4% in rapporto al prodotto interno lordo (dato 2005), un dato che ci allontana molto dai principali paesi industrializzati e persino da alcuni fra quelli appena entrati nella CEE;
- la spesa governativa in cultura e ricreazione in rapporto al prodotto interno lordo (un dato particolarmente negativo: siamo intorno allo 0,8 %).
- per quanto riguarda l’esportazione di prodotti creativi, tuttavia, la ricerca di Federculture, riportando rilevazioni delle Nazioni Unite, indica che saremmo il secondo paese al mondo per esportazione di prodotti creativi: in termine di volume economico, di 28 miliardi di dollari complessivi (dato 2005);
- un altro dato interessante riguarda la spesa familiare per cultura (dato Eurostat), che è del di 6,8% sul totale (della spesa delle famiglie), contro una media europea pari a circa il 9,4%.
Di fronte alla pesante crisi economica, una fase che implica una ristrutturazioni di sistema, bisogna chiedersi come stimolare la fruizione della cultura, considerando che proprio la cultura può favorire lo sviluppo e la crescita dei territori. Bisogna contrastare la tendenza a investimenti pubblici sulla cultura non sufficienti alle esigenze del paese e smettere di considerare che la spesa per la cultura è inutile.

Giulio Stumpo - Lo spettacolo come elemento di competitività internazionale
Anche Stumpo parte da una riflessione sul ruolo della cultura nel nostro paese. Rileva come gli stessi operatori non abbiano la consapevolezza necessaria per individuare il loro stesso ruolo nella società italiana e nello scenario internazionale. Siamo fin troppo attenti ai dati economici, ai tagli del Fus, ma non ci chiediamo mai se il nostro teatro sia competitivo a livello internazionale. Stumpo porta l’esempio di un progetto realizzato per la Regione Sardegna per valorizzare i beni culturali e l’identità della regione anche a livello internazionale per favorire il turismo fuori stagione, un progetto ha cambiato la percezione della regione nel contesto internazionale. La base del progetto era valorizzare gli eventi identitari, culturali della regione per promuoverla all’estero (al Music Expo di Siviglia era l’unico ente pubblico italiano rappresentato).
Ritornando al problema della competitività, se gli stessi operatori dello spettacolo non hanno consapevolezza del loro ruolo a livello nazionale e internazionale, è difficile che le imprese che dovrebbero essere “volano” dello sviluppo in questo momento di crisi trovino nello spettacolo un interlocutore credibile che possa dare un valore aggiunto.
Le crisi, si sa, sono cicliche. Quello che è preoccupa oggi è però la reazione a una crisi che quest’anno non ha ancora fatto avvertire tutti i suoi effetti. In questo momento il mondo dello spettacolo non ha energia di reazione e gli strumenti che i politici mettono a disposizione per la crescita del settore sono irrilevanti.
Stumpo riflette inoltre sulla crisi di rappresentanza della democrazia: è cambiato il nostro sistema di rappresentatività politica, andiamo a votare senza sentirci rappresentati da chi votiamo. Questa crisi della democrazia rappresentativa fa sì che non sentendoci rappresentati abbiamo un’energia maggiore da spendere nel campo della politica, anche al di fuori delle tradizionali forma di rappresentanza attraverso i partiti. Se ci rendessimo conto di questo cambiamento di percezione, potremmo trasformare il nostro approccio alla politica e avere qualche strumento in più.
 
Francesco De Biase e Andrea Maulini - L’arte dello spettatore: il pubblico tra bisogni, consumi e tendenze
De Biase e Maulini si interrogano sulla questione del pubblico, che è centrale in questa fase e lo diventerà sempre di più.
Partono dai dati emersi lo scorso anno, che segnalavano un numero maggiore di spettatori allo spettacolo dal vivo rispetto agli eventi sportivi e un incremento dei visitatori di siti archeologici e musei. Sembravano dati molto positivi, ma vanno letti nello specifico e interpretati (a partire per esempio dal fatto che un limitato numero di italiani assiste più volte a uno spettacolo teatrale nel corso dell’anno, e che in queste percentuali sono compresi anche i turisti).




L’arte dello spettatore. Il pubblico della cultura tra bisogni, consumi e tendenze a cura di Francesco De Biase.


In questo periodo di crisi, se riduciamo i finanziamenti e l’offerta avremo un inevitabile calo dei consumi. Perché ciò non accada, è necessario capire com’è composto il pubblico e chiedersi com’è cambiato. Infatti sono cambiate anche le modalità di fruizione: le tecnologie hanno reso gli spettatori produttori di contenuti. Dovremmo anche chiederci, per esempio, quali siano i consumi della popolazione migrante che cresce nelle nostre città. Quindi per affrontare la crisi bisognerà agire sui costi di produzione e sui prezzi dei biglietti, ma anche sulle modalità di partecipazione e sulla comunicazione (anche se Maulini fa notare che in questi anni la comunicazione è migliorata, e si è fatta più capillare e scientifica).
Si segnala il libro a cura di Francesco De Biase L’arte dello spettatore. Il pubblico della cultura tra bisogni, consumi e tendenze, Franco Angeli 2008.

Mimmo Sorrentino - L’osservazione partecipata e le ragioni del richiedente
Alcuni spunti dalle considerazioni di Mimmo Sorrentino: “La mia pratica teatrale si ispira all’osservazione partecipata. Il ricercatore si fa carico delle decisioni di chi partecipa alla ricerca. C’è un richiedente che fa un’offerta e definisce l’utenza (stranieri, scuole...), si valuta l’offerta, si studia il contesto e da lì parte il progetto. Si incontra un gruppo di persone che non hanno mai fatto mai teatro, che vanno motivate (spiegando cosa significa per me teatro: che le persone imparino a dare il meglio di sé stessi), poi ascolto le loro storie o li faccio scrivere. Partendo da questo materiale, scrivo il testo. E’un processo di trasduzione: non mi interessa la storia, ma come viene raccontata. Poi chiedo al gruppo se vogliono metterlo in scena e magari chiedi aiuto ad alcuni attori professionisti. Quando i “non attori” devono mettersi in scena, vedi il loro inconscio, perché hanno paura di sbagliare. Come affrontare il problema? Applico teorie comportamentali come la teoria sistemica utilizzata nella terapia familiare: sostituzione paradossale per far sì che le persone portino in scena l’inconscio del personaggio e non il loro; identificazione dell’inconscio del personaggio con quello dell’attore. Poi c’è la verifica. Le istituzioni però tendono a restare immutabili, a osteggiare le trasformazioni, per cui laddove l’attività teatrale porta il cambiamento a cui si puntava c’è il rischio che tutto si blocchi. Dunque bisogna intervenire con proposte che non spaventino e produrre il cambiamento senza spaventare le persone. La società italiana è ferma, noi la vediamo cattiva, ingiusta, ma è solo malata: il compito del teatro è dunque quello di formulare dei controparadossi, senza mettere paura alle istituzioni ma innestando il cambiamento.”




Da sinistra, Giulio Stumpo, Andrea Di Stefano, Oliviero Ponte di Pino, Francesco De Biase, Andrea Maulini, Mimmo Sorrentino e Giangilberto Monti.


Giangilberto Monti - La satira politica ai tempi di Silvio III
Monti fa una panoramica sulla situazione della satira in televisione, illustrando come gli spazi riservati ai comici siano estremamente risicati. Se Mediaset mantiene due programmi contenitore interamente dedicati ai comici (Colorado Cafè e Zelig), la Rai inserisce ormai gli interventi comici per lo più in altri programmi di diverso genere (vedi Annozero); paradossalmente gli esempi più interessanti di satira in tv si allontanano dalla nostra idea originale di comicità perché vengono dall’informazione (come Le iene) o dal giornalismo (Gianantonio Stella o Marco Travaglio). Oltretutto per un giovane comico che spera di affermarsi i televisione, la tendenza è quella di evitare la satira politica, ma anche le forme più “volgari” ed eccessive di comicità, proprio per venire incontro alle esigenze delle nostre tv. Anche a teatro La satira ha poco spazio, dato che ormai si tende a privilegiare comici che hanno grande potere di chiamata perché sono passati della televisione.




Il Dizionario dei comici e del cabaret di Giangilberto Monti.


Oltretutto i giovani comici (necessari anche semplicemente per un ricambio generazionale) hanno poche occasioni per emergere e il tempo a loro dedicato per presentarsi ai programmi tv non è sufficiente. Monti propone quindi che il teatro si faccia promotore per sviluppare la potenzialità delle nuove leve, attraverso rassegne e spazi dedicati.

Monica Gattini - Associazionismo d’impresa
Monica Gattini è stata chiamata a ragionare sull’associazionismo d’impresa, in particolare sulla funzione dell’Agis in questo particolare momento.
C’è la sottile e diffusa sensazione che l’Agis sia una lobby la cui principale funzione sia quella di “assegnare” i contributi. Non è più così da anni, ma si tratta comunque di un “sindacato d’impresa”, la cui principale funzione è tutelare e rappresentare gli aderenti in diversi ambiti.
Un elemento interessante è la recente apertura nel mondo teatrale, che non è più una casta ristretta, anche se all’Agis si entra per cooptazione. Questo ed altri potrebbero essere elementi di critica, ma non bisogna dimenticare che l’Agis si occupa di imprese in un settore che difficilmente riesce a essere impresa (a entrare in una logica di impresa). Combatte battaglie su temi quali il contratto collettivo (a volte con apertura e visioni di prospettiva superiori a quelle dei sindacati), o le vertenze Siae o sull’equità dei tagli (che rischiava di paralizzare il settore), ha la funzione di stimolare l’adozione di leggi e regolamenti che presentino norme certe. Si occupa certo anche del finanziamento pubblico: a livello statale e locale, le istituzioni spesso non hanno voglia di scegliere, il contributo rischia di rimanere una forma discrezionale. L’Agis ha quindi un ruolo di tutela complessiva a cui non può abdicare, altrimenti saremmo in balia del singolo assessore o sindaco; e questa tutela diventa anche “artistica”, perché è la condizione necessaria  per costruire prospettive.
Gattini sottolinea come - oltre a tutto ciò - sia necessaria la tutela di imprese “fragili” attraverso regole condivise.
 
Antonio Calbi
Sul rapporto con gli enti pubblici è stato invitato a intervenire Antonio Calbi, partendo dal “caso Milano”.
In una fase in cui i partiti hanno perso struttura e pensiero, la governance dipende anche dalle singole persone: la riflessione su quello che il Comune ha fatto in due anni tiene dunque conto delle persone che sono state coinvolte. La sfida è sempre comune: dialettica con le associazioni di categoria e con i singoli operatori: in merito alle arti viventi qualsiasi governo deve attivare una dialettica con questi soggetti. Il comune di Milano “pratica una buona pratica” perché è una delle poche città davvero consapevoli del ruolo sociale del teatro, a partire dal 1947 quando venne fondato il Piccolo Teatro. Le convenzioni tra il Comune e i teatri sono uno degli strumenti del senso civico che parte da lì. Bisogna sostenere il sistema dello spettacolo promuovendolo meglio e auspicando che anche gli altrettanto facciano gli operatori. Il Comune cerca di far dilagare il senso del teatro in città con un’offerta diversificata e con la comunicazione (sono stati pubblicati 600.000 libretti che presentano la programmazione teatrale cittadina, incontri con i protagonisti, festa del teatro, trenta spettacoli per chi non ha possibilità di andare a teatro, i festival Mito, le giornate della danza, “ A Milano con i tuoi” per il pubblico giovane...).
Il Comune ha diverse sedi di proprietà e si aspetta molto dalle nuove sedi del Franco Parenti e dal Teatro Puccini (affidato ai Teatridithalia) che hanno la possibilità di rinnovarsi. E’una condivisione di un progetto con una finalità sociale comune, si istituisce un dialogo tra questi teatri e il Comune. L’istituzione elabora un proprio piano di sviluppo affiancando i teatri, studia l’offerta, individua i vuoti, cercando di ridisegnare il futuro della città. Il nuovo sistema delle convenzioni è più sensibile: si basa meno sulla competizione, parte dallo studio dell’identità e della missione di un teatro, a patto che siano missioni vive, e si sono dunque stipulate convenzioni ad hoc in base alla specificità dei teatri. Sono stati anche inseriti alcuni teatri nuovi. Per il futuro questa città ha molto da dire, ha bisogno di esperimenti, può dare tanto all’Italia. Immaginiamo una Milano meno attenta al centro ma con la diffusione di piccoli luoghi anche più periferici perché la conoscenza possa dilagare.




Ottavia Piccolo, Il sindaco.


Claudio Ascoli
La crisi si articola su tre fronti: il taglio del Fus, il crollo budget enti locali, il crollo degli incassi diretti (non del numero spettatori, solo degli incassi perché i costi sono cresciuti). Le soluzioni che propone Ascoli sono da una parte l’incontro con il pubblico, non per assecondarlo in tutto, ma per incontrarlo invece di perseguire il teatro come nicchia autoreferenziale; il rapporto con lo spettatore non si può risolvere con la politica dei prezzi, ma con percorsi che lo coinvolgano in prima persona.
D’altra parte Ascoli sottolinea che l’Italia ha in molte posizioni di responsabilità una generazione di teatranti sessanta-settantenni e dall’altra molti giovani che non riescono a entrare nel sistema e propone di creare un percorso quotidiano di relazione tra queste due generazioni.

Giulio Cavalli - Teatro ed emergenze sociali
Giulio Cavalli parte dal racconto della sua esperienza dello spettacolo sulla tragedia di Linate. Sulla vicenda la cronaca giornalistica ha taciuto quasi tutto: in questo vuoto di informazione, il teatro è  diventato uno dei luoghi in cui essere intellettualmente onesti per dare informazioni.
Sarebbe opportuno cominciare a fare un teatro in cui si prenda una posizione e uscire da un’oggettività in cui si rischia di raccontare le storie in modo anonimo. Il teatro è informazione e politica. Se certe forme teatrali stanno dando fastidio a grosse realtà politiche vuol dire che il momento è florido. Quando parliamo di eventi di cronaca, creiamo un momento di forte autocritica di una città. Se riusciamo a proporre un teatro dirompente in modalità irrispettose ma oneste, la mia visione rimane ottimistica.
 



Da sinistra, Claudio Ascoli, Gigi Gherzi, Oliviero Ponte di Pino, Manuel Ferreira, Giulio Cavalli.


Gigi Gherzi - La costruzione della comunità teatrale
Anche Gherzi parte da alcune considerazioni sul pubblico e sul suo cambiamento in questi anni. A Milano aveva un pubblico di grande livello e competenza critica, ora il pubblico teatrale somiglia moltissimo a quello dell’entertainment, che ha assorbito il pubblico di altri settori.
E’ proprio alla luce di questo cambiamento che lo spettatore deve trovarsi al centro della nostra riflessione. La scelta delle residenze e degli spazi nasce davvero da una necessità artistica o è solo il bisogno di spazi protetti con un pubblico organizzato più consapevole? Cosa cambia nelle nostre idee di regia, drammaturgia? È possibile pensare a una comunità teatrale, se non cambia la nostra concezione dello spettatore?
Secondo Gherzi dovremmo iniziare a parlare di uno “spettATTore” che possa contribuire alla costruzione drammaturgica: non dev’essere considerato un numero per riempire il teatro, ma l’oggetto di un’indagine antropologica. Il rapporto con la comunità deve diventare regia e drammaturgia, come nei lavori di Sorrentino. Temi come la presenza dei migranti o la sicurezza non devono essere considerati contenuti in più, ma temi che cambiano le forme del teatro e della drammaturgia, che rimettono in gioco l’arte. Gherzi riconosce che questa concezione di teatro può non essere fondamentale per tutti, ma proprio per questo è necessario creare luoghi di dibattito e di incontro per sviluppare un pensiero critico in questa direzione.
 
I temi dell’incontro con il pubblico e dell’importanza di luoghi di confronto e dibattito sono del resto tra i punti cardine di molti interventi della giornata.




Lucia Maroni verbalizza.


Manuel Ferreira - Milano/Buenos Aires
Alma Rosè è una compagnia “fuori dal sistema”, ma forse, a detta dello stesso Ferreira, si tratta di una “buona pratica per sopravvivere”. La compagnia è andata verso la città perché i teatri che tendono a privilegiare nuove produzioni non volevano ospitare il loro spettacolo “già visto”. Questo ha fatto sì che la compagnia potesse incontrare il suo pubblico. Ferreira sottolinea come da anni ci si lamenti della crisi senza produrre fatti artistici più forti della crisi; sostiene che ci siano ancora vuoti in questa città, ci sono temi che non vengono affrontati e quindi molte potenzialità. Anche Ferreira ribadisce il valore per natura “politico” del teatro, spiegando che per esempio in Argentina questo fatto si dà per scontato: non c’è neanche bisogno di parlare di politica perché il teatro diventi politica. Conclude la sua riflessione soffermandosi anche lui sul rapporto con le nuove generazioni e chiedendosi come poter passare il testimone del suo lavoro con il pubblico a quelli che verranno.

VittorioViviani - Associazione per il teatro italiano
Viviani presenta l’Associazione per il teatro italiano(www.perilteatroitaliano.it), creata a Roma nel 2005 come reazione al governo Berlusconi. L’associazione ha come scopo il dialogo con le istituzioni anche attraverso la collaborazione con altre realtà associative italiane.
Una delle loro principali battaglie al momento è la “riconquista” di Villa Piccolomini, donata agli attori italiani nel dopoguerra come casa di riposo e luogo di incontro e sviluppo delle arti performative, e in seguito “espropriata” dalla Regione.
 
A conclusione della mattinata, le risposte di Carlo Cecchi a Oliviero Ponte di Pino.
Cecchi riflette sulla trasformazione riscontrata dall’inizio della sua carriera: cambiamenti antropologici e culturali prima ancora che gestionali e organizzativi, che portano il teatro a dover contrastare la banalizzazione e l’eccesso di “reality” che dilaga con la televisione.




Carlo Cecchi si racconta.


Ponte di Pino chiede poi a Cecchi di parlare della sua idea di regia, del lavoro con gli attori e del rapporto con le nuove generazioni. Cecchi si definisce nemico della regia come istituzione, a favore di un teatro fatto dagli attori, i drammaturghi, gli spettatori insieme. La sua compagnia è un gruppo aperto, fatto di attori di generazioni nuove e vecchie; un gruppo in cui il regista cerca di far capire agli attori quali sono le regole del gioco e li istruisce a giocare il loro gioco. E li aiuta a leggere e scopre il testo insieme a loro in un viaggio di scoperta reciproco.
Quando gli si chiede un consiglio per chi vuole intraprendere una carriera nel teatro, Cecchi risponde che “fare l’attore è bellissimo se veramente uno è costretto a farlo, se c’è una forza quasi che lo precede, se no è una frustrazione”. Il pomeriggio: Come cambia (se cambia) il sistema teatrale (anche con le Buone Pratiche)


Prima di dare spazio all’illustrazione delle Buone Pratiche, Mimma Gallina riprende le fila degli interventi del mattino, integrando e puntualizzando alcuni temi.
Innanzitutto sottolinea che non ci troviamo di fronte a una delle “abituali” contrazioni di risorse, ma allo smantellamento della concezione del teatro come servizio pubblico e a un’inversione di tendenza rispetto a quello che le politiche sia di sinistra sia di destra dichiaravano formalmente (nelle campagne elettorali soprattutto), a proposito del ruolo della cultura e quindi del sostegno pubblico. In una situazione del genere dobbiamo mettere in atto tutte le possibili azioni per bloccare questa tendenza, che si estende alla scuola, all’università, alla ricerca e a tutto il settore della conoscenza.
Qualche “buona pratica” in controtendenza rispetto allo scenario generale di tagli diffusi arriva da regioni come l’Emilia Romagna, che cerca di compensare con un incremento del finanziamento regionale il calo dei contributi statali (anche la Lombardia ha leggermente incrementato le risorse per la cultura); così la Toscana che cerca di ridisegnare il sistema di intervento regionale e di meditare e ridefinire le regole dell’intervento pubblico (vedi la relazione di Ilaria Fabbri nel forum).
Uno dei fili conduttori della mattina è statala riflessione sul pubblico, sulle motivazioni e sulla funzione del teatro. Le Buone Pratiche del pomeriggio pongono l’accento su temi collegati: si tratta di valorizzare e inventare modi di produzione e di gestione che corrispondano a un quadro sociale economico e politico nuovo e in costante evoluzione. Parallelamente - e anche a partire dalle segnalazioni pervenute - si è scelto di privilegiare la prospettiva del “movimento”, delle aggregazioni e le pratiche associative.

Alina Narciso - Reti e patti per valorizzare la produzione
Direttrice artistica della “Scrittura della differenza” (concorso internazionale di drammaturgia delle donne), Alina Narciso rappresenta un gruppo di donne che sta cercando di costituire una rete di attività al femminile. A fianco di azioni più specifiche, il gruppo ha deciso di promuovere un”patto teatrale di genere” che impegni coloro che lo sottoscrivono a mettere in essere azioni positive volte a riequilibrare la presenza femminile nei teatri in Italia.
L’intervento di Narciso rileva la scarsa presenza femminile nel teatro e denuncia un funzionamento omosociale che limita la vitalità del settore. Il problema della presenza delle donne in teatro non è solo una rivendicazione sindacale, ma un modo per reintrodurre in teatro un discorso che metta il teatro in condizione di caricarsi delle disuguaglianze presenti nella società, un compito ancora più importante in questo momento di crisi.
Si riagganciano all’intervento di Narciso anche Serena Grandicelli di Teatro Argot di Roma, attento a dar spazio alle voci femminili; e Bruna Braidotti, che anima da Pordenone una rete di donne che fanno teatro dal punto di vista femminile: sostengono tutte che non si dovrebbe sentire il bisogno di fare rassegne dedicate alle donne (che l’inevitabile rischio della ghettizzazione), ma che la drammaturgia delle donne dovrebbe essere meglio rappresentata nelle programmazioni. Del resto esiste una specificità femminile, un punto di vista sul mondo, cui va dato adeguato spazio.
Fra le prima firmatarie del patto, riportato sul sito con le indicazioni per l’adesione, Ottavia Piccolo, presente al mattino con la lettura del Il sindaco di Stefano Massini.




Il banchetto delle firme, con le petizioni per Villa Piccolomini e per il patto teatrale di genere (potete firmare anche ora).


Roberto Biselli - Teatro glocale: una risorsa tra cultura e impresa
Roberto Biselli (fondatore del Teatro di Sacco) parte da un’analisi della situazione umbra, denunciando una Regione immobile, che attribuisce finanziamenti solo su parametri discrezionali, dove la cultura è gestita per lo più da “cattive pratiche” istituzionali. Biselli ha ritenuto quindi necessario trovare altri interlocutori al di fuori della cerchia pubblica. La pratica che riferisce riguarda la Individuazione e valorizzazione delle collaborazioni private e il rapporto col mondo delle imprese: Confindustria ha accettato di finanziare un festival che parte dalle ricchezze e dalle eccellenze locali e Nestlè è stata coinvolta in un progetto sulla storia della Perugina.
 
Anche Daniele Milani racconta un esempio di unione tra “teatro e impresa”.

Con la compagnia “A bocca aperta” ha creato uno spettacolo in collaborazione con una società che si occupa di formazione aziendale e che ha garantito repliche per un anno. Questa esperienza sembra aprire la strada per un teatro “in azienda “fatto da attori professionisti e non più formatori o psicologi. La sfida è quella fare esperimenti artistici usando capitali privati e mantenendo la propria etica e libertà, senza diventare “teatro al servizio di un’impresa”.
 
Lisa Bellini e Elisa Noci - Cambio palco: una rete distributiva per compagnie di recente formazione
Il progetto toscano dell’associazione Amnio (www.amnioteatro.it) è nato come ipotesi di rete distributiva basata sullo scambio di spazi tra compagnie. Dopo un primo incontro e una successiva rassegna di frammenti, sono stati individuati come valore centrale di questa esperienza la curiosità, l’attenzione reciproca e la solidarietà nata fra i gruppi; si sono colti i limiti di un progetto di pura distribuzione, che penalizzava gravemente le compagnie senza un proprio spazio, per trasformare l’idea iniziale in un “progetto produttivo”. L’intenzione è quella di realizzare uno spettacolo corale, che esprima l’originalità di ogni singola compagnia e serva da “vetrina” per tutti gli aderenti.
 
Daniela Gusumano - Progetto Vicaria
Gusumano presenta il “Progetto Vicaria” - nuovo spazio a Palermo gestito da Emma Dante e la compagnia Sud Costa Occidentale: si tratta di uno spazio privato, autofinanziato e autogestito che convive con l’indifferenza delle istituzioni. L’obiettivo è creare uno spazio che accolga il teatro a 360 gradi (produzione, formazione, ospitalità), che soprattutto dia visibilità anche a giovani compagnie.
Mimma Gallina fa notare da una parte la “buona pratica” di una compagnia già assai nota, che mette la propria esigenza di disporre di uno spazio al servizio anche di altri gruppi emergenti; dall’altra il paradosso di Palermo che non riesce o non vuole valorizzare i propri talenti, a cominciare proprio da Emma Dante (che sarà fra l’altro la regista dell’apertura della Scala nel 2009), priva di sostegni sul territorio.
 
Elena Lamberti - ZTL Zone Teatrali Libere: una proposta di produzione per compagnie non finanziate?
Ztl è una rete informale di quattro spazi teatrali romani che sostengono la ricerca e la cultura indipendente. Con la Provincia di Roma ha dato origine a Ztl-Pro: il progetto di sostegno alla produzione per giovani compagnie indipendenti realizzato anche in collaborazione con Romaeuropa che ha fra l’altro messo a disposizione il Teatro Palladium che gestisce.
Fra i punti più rilevanti di questa pratica, le modalità di scelta, la funzione di direzione artistico-organizzativa e promozionale dei gruppi promotori a favore di realtà emergenti e il fatto che l’esperienza si ripeterà.
Lamberti riferisce anche del progetto di sostegno e promozione di nuove produzioni di Kilowatt festival (cfr documento di Luca Ricci).




Da sinistra, Daniela Gusmano, Lisa Bellini e Elisa Noci, Mimma Gallina, E’ strano che proprio io, pessimista nato, da un po’ di tempo a questa parte sia chiamato a produrmi in spericolati esercizi di ottimismo teatrale. Non ci sono molte alternative: o sto andando completamente fuori strada, o vedo le cose da una prospettiva che forse agli altri sfugge. Ma in fondo non è questo l’importante. L’importante, credo, è rendersi conto che ci troviamo all’interno di una situazione in veloce movimento, e non sottovalutarne i segnali. Sento, ad esempio, lamentazioni sempre più insistenti sui tagli ai finanziamenti, sulle carenze strutturali, sulla mancanza di mezzi e prospettive: ovviamente è tutto vero, e non da oggi. Ma non mi pare che la vita del teatro nel suo complesso ne risenta gravemente. Non c’è bisogno di citare Kantor o Grotowski per ricordare che le difficoltà materiali non incidono sulla qualità dell’invenzione, anzi spesso la favoriscono.
Mi sembra chiaro che i linguaggi della scena si stanno trasformando per far fronte alle mutate condizioni: sempre più spesso si tende a rinunciare all’apparato, a privarsi del superfluo, a sfrondare, a semplificare, a cercare una comunicazione più diretta e immediata. E’ ovvio che oggi sarebbe impensabile produrre certi spettacoli che si vedevano ai tempi di Visconti: ma non è detto che questo sia necessariamente uno svantaggio. In molti casi, la scelta di uno stile più spoglio ed essenziale è compensata da una maggiore apertura all’incrocio fra le discipline, la recitazione, la danza, le arti visive, da un contatto più stretto con la realtà, da un più urgente bisogno di auto-rappresentazione. Sento dire che, tolti un paio di maestri, non si trovano più le grandi personalità dell’epoca d’oro della regia italiana, gli Strehler, gli Squarzina, i Trionfo: è vero anche questo, ma ai pochi talenti di spicco si è innegabilmente sostituita una vitalità diffusa. Oggi non abbiamo più quei cinque o sei artisti carismatici che incantavano le platee (quando le incantavano), ma al loro posto si sono accesi cento piccoli fuochi: il problema è soltanto di verificare se ci sono le condizioni perché essi possano confermarsi e durare nel tempo. Si è attuato, a mio avviso - e di sicuro non è un fatto trascurabile - un significativo processo di democratizzazione dell’accesso al palcoscenico. In passato il monopolio degli strumenti del teatro era saldamente in mano a pochi grandi nomi cresciuti all’interno delle istituzioni: ora le correnti più forti, più innovative vengono da fuori e dal basso, da gruppi nati per impulso spontaneo, del tutto estranei a qualunque idea di formazione tradizionale, attenti solo ad affermare i propri contenuti
Grazie anche ai benefici effetti del Premio Scenario e di altre iniziative ad hoc, assistiamo a un indiscutibile rinnovamento generazionale: oggi i gruppi di punta sono composti da attori e registi poco più che esordienti, che fino a qualche anno fa sarebbero stati condannati alla marginalità e alla ghettizzazione: si può dire, mi sembra, che anche le realtà meno affermate stiano uscendo rapidamente dal circuito ristretto dei festival e delle occasioni “protette”, per conquistare spazi sempre più ampi nella normale programmazione dei teatri.
Parallelamente sta avvenendo un vistoso spostamento degli equilibri artistici dal centro alla periferia, dalle grandi sale metropolitane alle piccole ribalte recuperate e restituite all’uso da comuni con poche migliaia di abitanti. Se le istanze di ricerca più audaci e incisive non vengono ormai da Roma o da Milano, ma da Ravenna, da Cesena, da Forlì, da Messina, da Castiglioncello, da Castrovillari, anche il pubblico più attento e ricettivo lo si incontra oggi a Casalmaggiore, a Fiorenzuola, a Mira, a Schio, insomma in quella che una volta si sarebbe definita la provincia. E per molte realtà della scena contemporanea questo moltiplicarsi di esperienze sul territorio costituisce un indispensabile sbocco, un vero e proprio circuito alternativo.
Infine - ma non da ultimo - vorrei ricordare agli scettici la prepotente ricomparsa della figura dell’autore: in questi ultimi anni, non a caso, è avvenuta sotto i nostri occhi un’autentica fioritura di nuovi drammaturghi, da Letizia Russo a Fausto Paravidino, da Mimmo Borrelli a Sergio Pierattini, da Stefano Massini a Saverio La Ruina, che spesso si sono imposti prima dei trent’anni. E questo ritorno dei giovani alla scrittura non si esaurisce, come per tanti autori anche illustri delle generazioni precedenti, in uno sterile esercizio di frustrante solipsismo: bene o male, i loro copioni vengono puntualmente e adeguatamente rappresentati, gli spettacoli che se ne traggono girano, sono apprezzati, ottengono premi e riconoscimenti.
A mio parere, in conclusione, tutti questi elementi – la penuria di fondi, l’esigenza di operare in uno stato di precarietà, la necessità di rivolgersi a forme di teatro più scarne ed essenziali, l’impetuoso affacciarsi di nuove formazioni, portatrici di un’espressività più frammentata e informale, il loro approdo naturale a spazi più raccolti e appartati, dove si instaura un contatto ravvicinato col pubblico – si intrecciano indissolubilmente, tutti in vario modo concorrono a spostare i confini della creazione teatrale. Non so se daranno luogo a esperienze durature: certo ci consentono di scoprire ogni giorno fenomeni inattesi, che fino a qualche anno fa non ci saremmo neppure sognati. E questo, francamente, non è poco.
12 dicembre 2008


 


 




L'ultimo nastro di Harold Pinter

La scomparsa del Nobel britannico
di Redazione ateatro

 

Nella foto, Harold Pinter, malato e costretto su una sedia a rotelle, interpreta L'ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett. Londra Royal Court Theatre, ottobre 2006.

Harold Pinter, Premio Nobel per la letteratura 2005, è scomparso a Londra all’eta di 78 anni il 25 dicembre 2008.
‘’Ho scritto 29 pièce in 50 anni, non è abbastanza? Certamente lo è per me'’. Harold Pinter amava ripetere questa frase negli ultimi anni, segnati dalla malattia che lo aveva colpito nel 2002.
Per certi versi aveva già consegnato la sua opera al passato, vendendo il suo archivo alla British Library, giusto un anno fa per 1.65 milioni di euro. Centocinquanta scatoloni contenenti lettere, manoscritti, fotografie.

Harold Pinter negli archivi di ateatro

96.81 Harold Pinter alla X Edizione del Premio Europa per il Teatro
A Torino dall'8 al 12 marzo
di Ufficio Stampa

94.75 A Roma una festa per Pinter



In occasione dell'uscita di Harold Pinter. Scena e potere di Roberto Canziani e Gianfranco Capitta di Garzanti Libri

93.70 Il Nobel a Pinter: il discorso di Stoccolma
E la monografia dedicata allo scrittore britannico da Canziani e Capitta
di Redazione ateatro

90.84 Il Nobel ad Harold Pinter
Il grande drammaturgo, l'impegno politico
di Redazione ateatro

26.3 London Calling
People Show e NoMan's Land (Pinter diretto da Pinter)
di Francesca Lamioni


 


 



Teatro e sport: un'anteprima dalla Garzantina

In libreria l'enciclopedia dei record
di Oliviero Ponte di Pino

 

E' in libreria da pochi giorni la nuovissima Garzantina dello Sport a cura di Claudio Ferretti e Augusto Frasca (Garzanti Libri, 45,00 €): in 1680 pagine, 6100 lemmi e 64 tavole fuori testo, questa nuova Garzatina presenta:

Tutte le discipline dall’atletica al wrestling
I campioni, le sfide, le imprese
Atleti, società, squadre, allenatori
Manifestazioni e campionati
Federazioni nazionali e internazionali
Olimpiadi: da Atene 1896 a Pechino 2008
Scienza, tecnica, regole, impianti
Nell'appendice: statistiche, classifiche, record e albi d’oro.

In anteprima dalla Garzantina dello Sport, la scheda dedicata al rapporto con il teatro.


Il teatro e lo sport, lo spirito tragico e quello olimpico, sono due tra le numerose (e preziose) eredità che ci arrivano dall’antica Grecia. Affondano entrambe le radici nel rito, ed entrambe hanno da sempre una funzione civile, rivolte come sono alla città, e addirittura all’insieme delle città greche.
Può essere curioso allora esplorare affinità e differenze tra queste due pratiche per molti versi più vicine di quanto non si pensi.
Tanto per cominciare, teatro e sport vengono praticati in tempi e luoghi particolari, in vario modo differenziati dalla normale vita quotidiana: lo spazio-tempo della finzione e quello del gioco si contrappongono allo spazio-tempo della realtà “feriale”. Vengono inseriti in un tempo “festivo” che ancora mantiene la memoria del rito, restando legato a ritmi stagionali (le scadenze di Campionati e Coppe, la stagione teatrale e quella dei festival) e cicli pluriennali (le Biennali del teatro, il quadriennio olimpico). La durata dell’evento teatrale e sportivo è inoltre separato dalla quotidianità grazie a precisi segnali d’inizio e di fine: nel teatro moderno, per esempio, può essere delimitata dall’aprirsi e chiudersi del sipario o più semplicemente dall’abbassarsi e riaccendersi delle luci in sala; la durata della competizione sportiva può essere scandita all’inizio dal colpo di pistola nell’atletica o dall’apertura del cancelletto nello sci, e dal superamento dalla linea del traguardo o dal filo di lana (un tempo, ora è stato sostituito dal fotofinish), oppure dal fischio d’inizio e di fine gara dell’arbitro.
Anche lo spazio – quello della gara e quello della rappresentazione - tende a essere delimitato, anche se i confini possono essere più o meno fluidi a seconda delle circostanze. Inoltre sia lo spettacolo dal vivo sia lo sport, anche se possono essere praticati senza spettatori, hanno poi come ingrediente essenziale la compresenza del pubblico nel “qui e ora” in cui si svolge l’evento. E’ vero che le nuove tecnologie - cinema, radio, tv, internet eccetera – ci permettono di seguire eventi teatrali e spettacolari “mediati”: la fruizione non avviene cioè dal vivo, ma attraverso un filtro tecnologico, in differita o in diretta; tuttavia la fruizione live continua a mantenere un sapore più autentico, una diversa energia, e pare essenziale alla riuscita della manifestazione anche quando viene fruita attraverso un medium tecnologico: il pubblico è parte integrante dell’evento, una partita di calcio in uno stadio vuoto è assai triste, come si è visto in recenti casi di provvedimenti disciplinari contro tifoserie eccessivamente “calde”. Fin dall’antichità questa compresenza di attori e spettatori ha portato alla necessità di progettare e edificare spazi appositi, che potessero contenere entrambi nelle migliori condizioni. Gli stadi e i teatri sono da sempre parte integrante del tessuto e del paesaggio delle nostre città.
Un ulteriore aspetto che avvicina la scena e lo sport è l’asimmetria tra chi agisce e chi assiste: da un lato gli attori e gli atleti, dall’altro gli spettatori: i primi giungono all’evento dopo un’attenta e lunga preparazione, con una progettualità meditata ed estenuanti esercitazioni (le prove per gli uni, gli allenamenti per gli altri). Ormai il training di molti attori ricorda per moltissimi aspetti l’allenamento degli atleti, non solo per quanto riguarda la preparazione fisica, ma anche nell’adozione di varie tecniche di rilassamento e concentrazione. Da questo punto di vista l’improvvisazione – la gag del grande attore come il colpo imprevedibile del fuoriclasse – non è mai totale, ma scatta sempre all’interno di schemi predisposti in precedenza, che vengono attivati quando se ne presenta l’occasione.
Proprio in questo – l’asimmetria della preparazione – sta la grande differenza tra lo sport e il teatro. L’esito finale di una rappresentazione è in larghissima misura preordinato: salvo nelle forme più estreme di happening, gli attori (e il drammaturgo e il regista) sanno sempre quello che sta per succedere sul palcoscenico e conoscono lo sviluppo dell’evento spettacolare e lo scioglimento della trama. In un evento sportivo – anche se ci sono i favoriti, come sanno benissimo gli allibratori – l’esito è sempre imprevedibile; anzi, nello sport il peccato peggiore, imperdonabile, consiste proprio nel “combinare” il risultato di una competizione: la lotta per la vittoria dev’essere “vera”, non si ammettono combine, biscotti e neppure il doping. Se l’appassionato di teatro può apprezzare l’ennesima messinscena di Edipo Re o di Amleto, anche se conosce già l’esito della vicenda, e apprezzare le varianti della regia e le differenze dell’interpretazione, per qualunque tifoso una gara di cui si conosce già l’esito perde invece quasi tutto il suo fascino. Nello sport deve sempre esistere un margine d’incertezza e d’imprevedibilità: spesso la squadra più debole ha ribaltato il pronostico vincendo la partita perché, si dice, “la palla è rotonda”.
Anche lo stesso spettacolo teatrale è diverso ogni sera, perché cambiano il pubblico, lo stato d’animo degli attori eccetera: tuttavia il margine d’oscillazione è molto ridotto. E’ vero che, come qualunque altro evento, può avere esiti assolutamente imprevisti, che però sono estranei alla logica dello spettacolo: per esempio, nel classico caso dello spettatore “ingenuo” della sceneggiata napoletana che estrae la pistola e uccide “‘o malamente”, il cattivo, perché non è in grado di distinguere la finzione dalla realtà (inutile dire che drammaturghi e attori giocano da sempre sul confine tra realtà e finzione, e dunque sul meccanismo del teatro nel teatro). Alcuni generi spettacolari amano tuttavia giocare con il rischio e dunque con la possibilità dell’errore e addirittura del disastro. Il circo ci affascina anche perché avvertiamo sempre la possibilità che il giocoliere perda il controllo di una delle otto palline che fa vorticare, o che l’acrobata cada dal filo teso a dieci metri da terra...
Vista dunque la vicinanza tra sport e spettacolo, non sorprende scoprire intersezioni tra l’uno e l’altro: così esistono sport più “spettacolari” e forme di spettacolo più “sportive”. E’ sempre possibile osservare qualunque evento sportivo come uno spettacolo, considerando parte dello show anche il pubblico, con i cori e gli inni, la ola, ma anche le esibizioni delle cheerleaders; da sempre le premiazioni obbediscono a precisi rituali: la consegna della medaglia, l’inno e la bandiera, l’ostensione della coppa e il giro d’onore). Le cerimonie inaugurali e conclusive delle grandi manifestazioni sportive sono diventate un vero e proprio genere spettacolare, che tende sempre più al kolossal. Ancora: il gesto sportivo, al di là del risultato numerico, ha spesso una valenza estetica, come dimostrano le “punizioni capolavoro” di Maradona o di Baggio, con le perfette parabole impresse al pallone.
Tuttavia esistono discipline che, sempre prevedendo il superamento di difficoltà tecniche valutate con precisi punteggi, danno grande importanza anche alla qualità estetica del gesto atletico: armonia, coordinamento, ritmo, sincronismo... Basti pensare alla ginnastica artistica e ritmica, ai tuffi, al nuoto sincronizzato, al pattinaggio artistico, e all’importanza che in alcune di queste discipline hanno la scelta delle musiche e dei costumi.
La tendenza alla spettacolarizzazione dell’evento sportivo (che coinvolge anche il pubblico, quasi incitato a diventare attore) è anche determinata dall’invadenza delle telecamere e dei maxischermi, del moltiplicarsi dei punti di vista, dei ripetuti ralenti, dell’attenzione per il dettaglio e dell’insistenza sull’azione individuale (la prodezza, il virtuosismo, ma anche l’errore e la scorrettezza magari ignorata dall’arbitro). Questo filtro tecnologico cambia certamente la valutazione dell’evento sportivo da parte dello spettatore (curiosamente, la trasformazione dello sport in spettacolo interpretato da attori a beneficio delle telecamere era stata profetizzata da Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares nelle Cronache di Bustos Domecq nel 1967: il wrestling conferma che la profezia non era azzardata).
In parallelo la scena ha cercato, soprattutto negli ultimi anni, di contaminarsi con lo sport, con i suoi eroi, con le sue emozioni, con la sua epopea – e anche con la sua retorica. Sono finite al centro di spettacoli memorabili partite di calcio: Italia-Germania 4 a 3 di Umberto Marino segue la nottata di un gruppo di amici che guarda in tv il match del Mondiale del ‘70; Italia-Brasile 3-2 (2002), monologo di Davide Enia, racconta in forma di cunto popolare l’incontro dell’82. Hanno trovato eco sulla scena i rigori sbagliati da Evaristo Beccalossi, che nello sketch del tifoso interista Paolo Rossi diventano la metafora di un intero atteggiamento di fronte alla vita. Nella sua Argentina, Maradona è diventato protagonista di un musical. Giuseppe Manfridi ha esplorato il mondo del calcio in testi come Ultrà (1985), la tragedia in versi Teppisti! (1985), La partitella (1995) e La riserva (2002), mentre il mondo del football giovanile è al centro di Incantati di Marco Martinelli. Ma non c’è solo il calcio. La maratona di New York (1993) di Edoardo Erba vede in scena due amici che si allenano per la corsa più celebre. Top of the World. K2 (1982) di Patrick Meyers ha per protagonisti due scalatori vicino alla vetta himalayana: la scenografia ricostruiva una parete di ghiaccio. I danzatori e coreografi francesi Antoine Le Menstrel e Jerome Aussibal lavorano sulla verticalità riprendendo tecniche e attrezzature da arrampicata per spettacoli e performance. Per il musical Il grande campione (2000), Massimo Ranieri si è allenato con Patrizio Oliva, medaglia d’Oro alle Olimpiadi di Mosca, per impersonale Marcel Cerdan, il pugile amato da Edith Piaf.
Lo sport può servire anche da filo rosso per rievocare vicende storiche di grande respiro. In Aprile 74 e 75 (1995 e 2002) Marco Paolini rivive gli anni Settanta seguendo il campionato di una squadra di rugby di Treviso. Il francese Théâtre de la Mezzanine con Shooting star (2001) ripercorre l’intero Novecento attraverso le competizioni ciclistiche e le gare di ballo, trasformando la scena in un velodromo.
Molti spettacoli hanno ripreso e utilizzato gesti dello sport; certa danza contemporanea ha affinato tecniche d’allenamento e gestualità ispirandosi alle arti marziali orientali, in particolare il tai chi; la stessa capoeira brasiliana è insieme arte marziale e danza. Il canadese Cirque du Soleil ha scritturato come interpreti dei suoi spettacoli di nouveau cirque, applauditi in tutto il mondo, numerosi atleti olimpici. La campionessa di ginnastica ritmica Giulia Staccioli ha fondato la compagnia Kataklò Athletic Danse Theatre, coinvolgendo campioni come il pallavolista Andrea Zorzi.
In altri casi, il teatro ha utilizzato lo sport come metafora nella stesura di un testo o nell’impostazione della regia. Bertolt Brecht, appassionato di pugilato e amico del peso massimo Paul Samson-Körner, scandisce Nella giungla delle città (1923) come un incontro di boxe. Sul versante registico, ecco l’Otello ambientato da Danilo Nigrelli su un tavolo da biliardo, mentre nell’adattamento di Paul Schmidt per il Wooster Group, la Fedra di Racine diventa una partita di badminton in To You, The Birdie! (2001). Ma su questo versante l’operazione più ambiziosa resta probabilmente quella di Klaus Michael Grüber che ha allestito Winterreise (1977) dall’Hyperion di Hölderlin all’interno dell’Olympia Stadion (che fu teatro delle Olimpiadi del 1936 alla presenza di Adolf Hitler), obbligando il protagonista Bruno Ganz a una serie di exploit sportivi sulla pista d’atletica.
Infine, proprio all’incrocio tra spettacolo e sport si pongono i match di improvvisazione teatrale, dove due squadre di attori si sfidano su improvvisazioni a tema; le loro esibizioni vengono valutate da una giuria selezionata in genere tra il pubblico. A inventare le regole (che adattano in parte quelle dell’hockey) furono nel 1977 due attori-registi canadesi, Robert Gravel e Yvon Leduc; da allora i match di improvvisazione teatrale si sono diffusi in vari paesi (compresa l’Italia, dove è attiva una Lega di Improvvisazione Teatrale), dove vengono organizzati incontri, tornei oltre che veri e propri campionati.
In qualche modo affini sono i poetry slam nati a Chicago negli anni Ottanta del Novecento, ovvero le serate in cui i poeti interpretano le loro composizioni mettendosi in concorrenza con i colleghi e sottoponendosi al giudizio del pubblico.


 


 

Tre parole per un sogno
Ronconi porta in scena Sogno di una notte di mezza estate
di Oliviero Ponte di Pino

 

Nel Sogno di una notte di mezza estate messo in scena da Luca Ronconi al Teatro Strehler si vedono tre lune. La prima è una parola, la seconda un segno, una metafora, la terza un’invenzione poetica.



La prima è una scritta che sembra rubata all’insegna di un negozio o di un locale, con le quattro lettere composte di lampadine gialle, e sovrasta lo spazio scenico, dove in basso si possono leggere nel corso dello spettacolo altre due parole: “Atene”, in un bianco marmoreo e geometrico; e poi, composta di caratteri verdi e giganteschi, “foresta”. Al momento giusto, Titania apparirà calandosi dall’alto, mollemente sdraiata proprio sull’onda di una “s” dai contorni disegnati con il neon.



La seconda luna è quella che usano i comici nella loro sgangherata recita per portare sulla scena l’astro, dopo aver deciso che far vedere la luna attraverso una finestra lasciata aperta in fondo alla scena è troppo rischioso: scelgono così di usare una simbolica lanterna, sventolata da uno dei goffi artigiani (Marco Grossi), mentre i suoi compagni spiegano che quella, per l’appunto, è proprio la luna.



La terza e ultima compare nell’epilogo: c’è Puck che si siede su una sorta di molo, estrae una lunga canna da pesca e getta l’amo. Ed ecco che al posto del pesce la lenza cattura una luna surreale, che sale lentamente nella scena buia.

C’è da sempre nel teatro di Ronconi una forte tensione pedagogica, che affonda le sue radici nella felicità dei suoi anni di allievo dell’Accademia e si è rinnovata negli anni nel lavoro di palcoscenico, e in modo particolare nei corsi, laboratori e seminari che costituiscono il fecondo retroterra del suo lavoro registico.

E’ una vocazione didattica che non si rivolge naturalmente solo a chi sale in scena, ma punta insieme a educare il pubblico (per inciso, quella della formazione dello spettatore è una delle funzioni che dovrebbe svolgere un teatro pubblico).

La didattica ronconiana si esercita anche nella recente messinscena del Sogno di una notte di mezza estate, l’ennesimo sogno della sua teatrografia. La scena firmata da Margherita Palli è un’esplicita provocazione, sopratutto perché fa da sfondo a un testo costruito – almeno in apparenza – sul fiabesco, sul fantastico, su una visionarietà che spesso ha ispirato décor sovraccarichi e lussureggianti. Invece l’ampia scena orizzontale del Teatro Strehler resta nuda e spoglia, se non per quelle tre parole – “Atene”, “luna”, il leit-motiv del testo, e “foresta” - che campeggiano in uno spazio pressoché vuoto, salvo qualche praticabile e rari oggetti.



E’ una scelta apparentemente paradossale, per un regista che ha spesso costruito macchine spettacolari complesse, con scenografie di grande impegno e impatto, a volte accusate di megalomania faraonica. Per un regista che oltretutto ha saputo ridefinire e riarticolare lo spazio teatrale spezzando le convenzioni, e proponendone ogni volta di nuove.

In realtà dietro questa provocazione pedagogica c’è una profonda coerenza, la fedeltà a un atteggiamento di fondo che ha ispirato tutto il suo lavoro. Perché nel lavorare allo spettacolo, Ronconi parte da sempre sul testo, per leggerlo quasi ossessivamente esplorandolo in tutte le sue possibilità di senso, battuta dopo battuta, frase dopo frase, parola dopo parola. Ridurre il Sogno a tre parole è dunque un modo per ribadire, con una nettezza volutamente esagerata, che il teatro nasce in ogni caso dal testo e solo dal testo. Anche, e a maggior ragione, se si tratta di un copione che sembra innescare tutte le sfumature del visionario.

Proprio partendo da questo rispetto del testo che genera l’azione nell’attore, l’accento si sposta dalla rappresentazione (intesa come mondo illusorio, come duplicazione del reale) allo spettacolo, ovvero quello che la parola innesta nei corpi degli attori, nel loro rapporto con lo spazio, nella loro gestualità, nelle loro traiettorie, nella modulazione dello spazio, nelle sonorità che lo innervano. E nel rapporto con il pubblico.

Ronconi rivendica da sempre la natura convenzionale – antirealistica, anti-rappresentativa – del teatro in generale, e la pratica nel suo teatro. Ma questo non implica certo la passiva accettazione delle convenzioni teatrali correnti, quelle che il pubblico ha imparato a decodificare e che si sono inevitabilmente usurate. Anzi, alla radice della sua ricerca c’è una costante insofferenza nei confronti delle convenzioni subite passivamente, e un confronto con la storia della regia che spesso lo spinge a mettere in discussione e contraddire le scelte dei registi che lo hanno preceduto; fermo restando che lo stesso realismo, al di là dell’apparente “naturalezza”, si regge su una serie di convenzioni. Mettere in crisi le regole del gioco, creare e applicare ogni volta convenzioni diverse, verificare la loro tenuta comunicativa ed estetica nel rapporto con il pubblico: questo è stato uno dei filoni della sperimentazione ronconiana; al tempo stesso, così facendo, il regista ha perseguito una costante educazione - e rieducazione - dello spettatore. Di fronte alla crisi delle convenzioni che ci arrivano dalla tradizione, ecco la necessità di trasformarle, di metterle i crisi, di inventarne di nuove. Anche per questo c’è stata, da sempre, una dissonanza tra Ronconi e una certa parte dei teatranti e del pubblico: proprio per questo eccesso di libertà, questa volontà di mettere in crisi le certezze e cambiare le regole.



La messinscena del Sogno ribadisce con rigore puritano un partito preso, evidenziato da quelle lettere che sembrano rubate a un’opera d’arte concettuale: tutto nasce dalla lettura del testo e solo da quella; anche le poetiche, sensuali, fantasiose, ispirate metafore, sono frutto unicamente della materialità del testo. Ronconi lo segue a rischio di tradire e disseccare la lussureggiante inventiva shakespeariana, l’intreccio dei sortilegi, i voli capricciosi delle fate: non a caso anche Puck (Federico Bini) è pericolosamente grottesco e perfido, così lontano dall’eterea e innocente leggerezza del folletto.

Anche a rischio di attutire gli aspetti più oscuri e inquietanti, quelli che innervano il testo oltre le apparenze leggiadre della féerie, degli intrighi sentimentali ed erotici, dello scherzo e dell’equivoco buffonesco. Ecco dunque una lettura tutta razionale che, anche grazie ai costumi dello stilista Antonio Marras, privilegia le simmetrie nel quartetto dei giovani amanti (la Ermia di Silvia Pernrella, l’Elena di Melania Giglio, il Lisandro di Francesco Colella, il Demetrio di Pierluigi Corallo) e mette a nudo i rapporti di potere e la violenza nella doppia coppia Oberon-Titania e Teseo-Ippolita (Raffaele Esposito e Elena Ghiaurov). Siamo ovviamente lontanissimi dal “meraviglioso” che caratterizzava la storica messinscena di Max Reinhardt, ma anche dalla liberatoria e giocosa inventiva dell’allestimento di Peter Brook.

E’ una lucidità forse disperata, di fronte al dilagare di una iper-realtà mediatica, quella che spinge Roconi a ribadire con questa insistenza che nella comunicazione non c’è nulla di naturale, che tra la persona e il personaggio c’è una distanza che deve restare incolmabile (a meno di non rischiare grossi equivoci), che il linguaggio è un sistema basato su un accordo convenzionale – anche sulla scena, dove il confine tra la parola e la cosa, tra il reale e il simbolico sembra più permeabile.

Il rigore ossessivo nella lettura porta le prove – soprattutto con gli allievi - e poi lo spettacolo a diventare per prima cosa un’interpretazione del testo, in tutte le sue sfaccettature: una continua glossa vivente, fatta di interpretazioni e di intenzioni, un commento vivo, fisico, che passa attraverso il gesto e il respiro, come quello dei chassidim che danzavano la parola del signore. E’ anche per questo che il “metodo Ronconi” (ammesso che esista un metodo) ha permesso al regista di affrontare testi di ogni genere, e dunque quelli ritenuti irrappresentabili, e quelli che non sono stati scritti appositamente per la scena, con effetti spesso di deflagrante spettacolarità dall’Orlando furioso agli Ultimi giorni dell’umanità. Anzi, il teatro con la sua materialità, nel suo processo di elaborazione collettiva, diventa uno strumento ideale per l’esegesi testuale, e la spettacolarizzazione un momento di comunicazione e scambio.

Di più. La verifica attraverso la pratica teatrale consente da un lato di esplorare un testo in tutta la sua ricchezza, nella molteplicità e nella stratificazione dei suoi significati, nei suoi echi e rimandi. Dall’altro, però, finisce per far collassare tutte queste interpretazioni (e anche le altre, eventuali, possibili e impossibili) in un’unica attualizzazione, quella dello spettacolo: che diventa così una sorta di “macchina della verità” alla quale sottoporre il testo. La massima libertà nella prima lettura si ribalta così nella necessità determinata da quella “incorporazione” che è lo spettacolo e che può eventualmente anche rilevare contraddizioni, lacune, fratture, del testo.

Salvo poi, alla fine, riabbandonarsi al gioco del teatro, e a quello del teatro nel teatro: così alla fine il momento più godibile resta forse la recita finale dei comici (dove spiccan il Bottom di Fausto Rsso Alesi e il eone di Alessandro Genovesi): stralunata e bizzarra, giustamente irrisa dal gioco di società dei ragazzi belli, ricchi e finalmente felici, e tuttavia più vera proprio nella sua inadeguatezza, in quel goffo bisogno di spiegazioni e avvertimenti.


 


 

Per una grammatica del gesto
Maria Luisa Catoni, La comunicazione non verbale nella Grecia antica, Bollati Boringhieri, 2008
di Oliviero Ponte di Pino

 

La comunicazione non verbale nella Grecia antica di Maria Luisa Catoni (Bollati Boringhieri, Torino, 354 pagine, 20,00 €) è un saggio ricco di suggestioni che vanno in direzioni diverse. Intreccia matematica e geometria, medicina e retorica, filosofia ed estetica, e soprattutto le arti, pittura e scultura, danza e musica – e naturalmente il teatro. Lo fa partendo dall’esplorazione del campo semantico di un termine, schema (σχημα, ovvero naturalmente schema, ma con varie connotazioni: forma e struttura, ma nche figura, oppure gesto, postura, atteggiamento...), nei suoi diversi ambiti di applicazione e nelle sue diverse stratificazioni storiche, al di là delle connotazioni legate al rituale e all’iconografia.



Sono così varie le indicazioni e i rimandi (a cominciare da quello assai suggestivo lanciato nella “Postilla 2008” sul rapporto tra la teoria del piacere mimetico platonico-aristotelica e la recente scoperta dei neuroni specchio) che è quasi impossibile riassumerle.



Per certi aspetti, nelle sue accezioni geometriche lo schema pare quasi evocare la Gestalt, che ci permette di cogliere e definire le forme nel caos della percezione; in questo il concetto di schema ha una serie di implicazioni filosofiche che nell’antichità hanno dato vita a un vivace dibattito. Ma il termine rimanda anche a una semantica sociale, alla postura (oltre che gli attributi, le caratteristiche dell’abbigliamento e gli ornamenti) che caratterizzano non solo le figure divine e i rituali, ma anche le diverse classi sociali, professioni, età, genere, origini.



Il termine schema attraversa così più campi e ambiti. Infatti ispira il comportamento (gli attributi, l’abbigliamento, la gestualità, eccetera) dei greci: perché nelle società antiche molti comportamenti erano rigidamente codificati. Dunque permette di individuare le diverse figure (umane o divine, reali o fittizie, ovvero rappresentate sulla scena o raffigurate in dipinti e sculture) e decodificare i loro stati d’animo: basti pensare agli schemata del lutto o della supplica, immediatamente identificabili nella vita quotidiana, nel rituale, sulla scena o nelle pitture vascolari.



Proprio aprendosi alla possibilità della mimesi, lo schema si collega alle nodo del rapporto tra verità e finzione, cruciali nell’Atene di Platone e dei sofisti, anche in una prospettiva politica: perché si possono incontrare schemata buoni (in grado cioè di suscitare comportamenti virtuosi) e schemata cattivi, ma anche schemata veri e schemata falsi.



In un’altra accezione tecnica, nell’ambito del teatro e della danza (e in particolare della musica, considerata “la conoscenza di ciò che è conveniente nelle espressioni vocali e nei movimenti del corpo”, secondo la definizione di Aristide Quintiliano) gli schemata - ovvero i gesti compiuti dagli attori-danzatori - sono gli elementi costitutivi della coreografia: e offrono anche figurazioni (statiche o dinamiche) immediatamente riconoscibili dal pubblico, perché attinte dal repertorio degli schemata già noti e codificati, in quanto ripresi da forme rituali e dall’iconografia religiosa e mitologica, dall’esperienza sociale o da altre forme d’arte. Dunque, come sottolinea più volte Maria Luisa Catone, gli schemata attraversano diversi media e proprio per questo possono assumere un valore pressoché universale, condiviso e dunque comunicabile.



Già da questi rapidi appunti, si può cogliere l’ampiezza della rete lanciata da La comunicazione non verbale nella Grecia antica, e si possono intuire le possibili ricadute: e sono certamente cruciali le riflessioni conclusive sul rapporto tra etica, estetica e politica in Platone. Ma sono numerose anche le potenziali ricadute sugli studi teatrali.



Gli schemata aiutano a comprendere alcuni momenti dello spettacolo antico: diverse scene tragiche e comiche diventano comprensibili (e teatralmente efficaci) solo se si presuppone la condivisione degli schemata appropriati da parte di autore, corego, attori e pubblico.



Un altro snodo riguarda l’equilibrio tra gesto e parola, e il rapporto tradizione e innovazione. Di Eschilo, Ateneo ricorda che “inventava molti schemata di danza e li distribuiva tra i coreuti” e che “fu il primo ad inventare figure per i cori senza utilizzare gli orchestrodidaskoi (i maestri del coro, n.d.r.), ma facendo da sé gli schemata delle danze per i cori”. Di Frinico, Pausania racconta che “così tanto si preoccupava dell’arte orchestica tragica che a colui che trovasse un nuovo schema, gli dava un triobolo”: insomma, era disposto a pagarlo.



Se si tiene presente la riflessione degli antichi sul valore della mimesi nelle arti - che non è solo imitazione delle realtà, ma ricreazione di ethos e pathos - e sulla capacità del teatro di agire attraverso di essa sull’animo del pubblico, si comprende meglio l’attenzione degli antichi tragediografi sugli aspetti gestuali.



Ovviamente la semantica del gesto è stata da sempre al centro delle preoccupazioni di tutti gli attori e di tutti gli studiosi di teatro, ma anche di pittori, scultori e letterati.



E l’onda lunga degli schemata arriva fino a noi. Per certi aspetti, l’Iconologia di Cesare Ripa offre una ricca galleria di schemata. Così come il Prontuario delle pose sceniche di Alamanno Morelli potrebbe essere letto come un’ottocentesca reinvenzione degli schemata, ridotti a codice comunicativo e spogliati dunque dalle implicazioni etiche che tanto inquietavano Platone. E persino le espressioni stereotipate de personaggi dei fumetti rimandano a un preciso repertorio di espressioni collegate a sentimenti ed emozioni.
E’ affascinante risalire all’indietro, fino al momento in cui questo sapere andò formandosi e codificandosi, per poi incrinarsi quasi immediatamente. Infatti un sistema di segni di questo genere non può essere statico, immobile come i geroglifici attraverso i millenni: in primo luogo l’evoluzione della società porta alla modificazione degli schemata adottati dai diversi soggetti sociali; anche a prescindere da questo, se viene usato troppo di frequente lo schema (come ogni altro modulo estetico) finisce per usurarsi e smette di suscitare emozioni (perché, come sapevano gli antichi, dolore e piacere richiedono qualche misura di novità).
Un’ultima annotazione sul rapporto tra l’immagine pittorica (statica) e la danza (dinamica, fatta di ritmo e gesto): è anche possibile ipotizzare, nel flusso della coreografia, alcuni apici di immobilità, analoghi ai mie del Kabuki giapponese, in cui lo schema – ovvero la postura con tutto la sua evidenza di significati – viene offerta alla contemplazione e alla decodifica dello spettatore



(questo uso degli schemata, suggerisce Maria Luisa Catoni, potrebbe aiutarci a capire i famosi silenzi di Eschilo, messi alla berlina da Aristofane).
Questa è solo un’ulteriore suggestione che nasce da un saggio che prende in considerazione il microgesto dell’attore e lo mette in relazione da un lato con il tessuto sociale e con l’immaginario; e dall’altro lo soppesa con la riflessione di filosofi come Platone e Aristotele, per i quali il teatro e la danza – nella loro capacità di imitare la vita, di suscitare emozioni e educare il pubblico – costituirono un terreno privilegiato di riflessione.


 


 

FEEL: sentire il festival
The Ulster Bank Dublin Theatre Festival
di Mimma Gallina

 

Fra un po' si ricomincerà a parlare dei nostri festival, anzi dell'eterna crisi dei nostri festival, ai tempi della grande crisi. Il confronto con i modelli stranieri in queste discussioni è all'ordine del giorno, qualche volta per esterofilia e per piangere sui nostri budget, qualche volta perchè aiuta davvero a mettere a fuoco limiti, pregi, prospettive, consente di tratte qualche insegnamento



Anche se l'ultima edizione risale allo scorso settembre/ottobre, può essere interessante confrontarsi con The Ulster Bank Dublin Theatre Festival, uno dei più vecchi d'Europa: esiste dal 1957, ma negli ultimi anni ha saputo rilanciarsi e rinnovarsi e ha visto una crescita di popolarità a livello nazionale e internazionale.
Citare il nome completo - così come risulta nel logo - mi sembra possa già offrire un'indicazione interessante: non è così frequente, ma succede anche da noi, che una compagnia privata o una banca sia il principale o un importante promotore di una manifestazione culturale: dare a Cesare quel che è di Cesare (con il nome in ditta) può favorire l'investimento. Succede già con tendoni e manifestazioni musicali, chissà che non possa diventare una "buona pratica" anche per festival in difficoltà.
Del resto Dublin Theatre Festival nasce - come quello di Edimburgo dieci anni prima - da una precisa scelta di "marketing territoriale", cioè dalla convinzione - già allora - che sostenere un'iniziativa culturale ad alto livello qualitativo, con un programma internazionale e nazionale qualificato, potesse promuovere la città e prolungare la stagione turistica. Una politica di cui sono stati sperimentati negli anni - e recentemente misurati - i risultati non irrilevanti, e che le amministrazioni pubbliche e private hanno confermato: tuttora il festival si svolge per due settimane e mezzo a cavallo fra settembre e ottobre e il pubblico proviene per il 37% da fuori città, per la precisione il 17% dall'estero e il 20% del resto dell'Irlanda.

I numeri del festival
Con 3.500.000 € di budget - non poco per una programmazione prevalentemente teatrale con escursioni in altre aree - il festival è estremamente equilibrato: un terzo arriva dagli sponsor, prima fra tutti ma non sola la banca citata, un terzo dalla pubblica amministrazione (Arts Council, città di Dublino e altro), un terzo dal box office: a dispetto dei prezzi contenuti e delle numerose offerte - o forse proprio per questo - l'affluenza di pubblico (circa 80.000 spettatori) e le entrate conseguenti sono notevoli.
Ne parlo a festival quasi concluso con Loughlin Deegan, direttore dal 2007, di formazione organizzatore e drammaturgo, già "producer" (un termine che credo dovremmo introdurre anche nella traduzione - e tradizione - italiana) di una compagnia finanziata ma indipendente, la Rough Magic Theatre Company. Loughlin ha trentott’anni, l'età giusta, e in linea con le medie europee, per ruoli come questo, che richiedono di combinare la capacità di cogliere e interpretare nuove tendenze con una discreta dose di conoscenza e esperienza. Incontrato a Riga da spettatore professionale qualche mese prima, mi era sembrato un ragazzino, qui a Dublino - felice dei risultati ma un po' provato dalla full immersion - i suoi anni li dimostra tutti, ma non posso fare a meno di pensare quanto sarebbe considerato giovane da noi, con un budget di questa entità da gestire. E quanto sia raro - da noi - trovare nella stessa persona sensibilità organizzativa e consapevolezza critica. La prima si rivela soprattutto nell'attenzione per il pubblico, la comunicazione, l'interpetazione dei risultati; la seconda nella lucidità con cui sa motivare le scelte, singolarmente e nell'insieme, entrambe nella interpretazione del proprio ruolo, fra responsabilità culturale e servizio (dirigere un festival - tanto più se esiste da cinquant'anni - è una cosa molto diversa dal "firmarlo" e dall’esporre i propri gusti: consiste - ed è molto più difficile - nell'interpretarne la storia e la funzione, prefigurare e orientare il futuro.
Ancora qualche numero per inquadrare e precisare le caratteristiche di Ulster Bank Dublin Theatre Festival. Gli spettacoli ospitati e coprodotti (solo tre: probabilmente il numero crescerà nelle prossime edizioni) sono 28, di questi 14 sono di produzione (anche) irlandese (è particolarmente diffusa la collaborazione fra gruppi di diversi paesi di lingua inglese). Gli spazi coinvolti nella città sono 18 - fra teatri veri e propri o centri polivalenti, alcuni dei quali hanno più sale, gallerie, club, semplici appartamenti - e la programmazione va da un massimo di 20 a un minimo di 4 repliche. Considerando incontri e manifestazioni collaterali varie, gli appuntamenti sono circa mille. Si tratta di un festival metropolitano e le teniture cercano di conciliare la concentrazione e l'eccezionalità della "forma" festival con il potenziale di pubblico offerto dalla grande città (cittadini e turisti), e con il massimo accesso possibile.

Feel: sentire il pubblico
Il rapporto con il sistema teatrale della città è particolarmente interessante: il festival utilizza/coinvolge nella programmazione gran parte dei teatri cittadini. Le scelte vengono attuate dalla direzione del festival (non è quindi una concertazione), ma tenendo conto delle tipologie e delle vocazioni delle varie sale (che non sono dunque affittacamere), e solo in un paio di casi la programmazione coincide con la proposta produttiva della sala. E' evidente che si punta a un pubblico composito e mobile, ma facendo conto allo stesso tempo sullo specifico pubblico di ciascuna sala, su una mappa di identità cui - almeno i dublinesi - possono far riferimento: a ogni spazio il suo spettacolo insomma, ma anche - penso di poter dedurre - a ogni teatro una ricaduta sostanziale, di immagine ed economica.
Un palinsesto di questo tipo rende complessa o poco opportuna la scelta di temi o tesi da illustrare, che finirebbero col limitare e ingessare le possibilità di programmazione, ma si è ritenuto ugualmente in questi ultimi anni - anche seguendo ricerche e indicazioni precise dei responsabili del marketing - che fosse necessario presentarsi al pubblico con una suggestione diversa di anno in anno, una parola-immagine che esprimesse e comunicasse lo spirito del festival. Nell'edizione 2008 questa parola-chiave è stata FEEL. Il termine (a volte abbinato a pain e love: feel-pain, feel-love) accostato in due immagini distinte e speculari a un volto a piena pagina di un giovane uomo e di una giovane donna dall'espressione concentrata ma neutra, catturava l'attenzione da manifesti e stendardi (e su tutti i mezzi informativi del festival), in una campagna pubblicitaria capillare e martellante.
La scelta di puntare sul sentimento, sulla sensazione, sull'affinità, sul dolore e sull'amore è stata - come dicevo - una scelta di marketing e mi è sembrato che trovasse riscontro nei programmi solo in rapporto alla volontà di limitare il più possibile le chiavi di lettura intellettualistiche (senza tuttavia puntare su suggestioni leggere). Il rapporto fra comunicazione e contenuti in un festival è un altro tema interessante e trascurato di riflessione (soprattutto se ci si pongono obiettivi di allargamento del pubblico).

Scelte e tendenze
Le priorità, alcuni temi di riflessione, le tendenze del programma, più che enunciate e teorizzate, potevano essere colte dall'insieme delle proposte, dall'accostamento di alcuni spettacoli e da alcune occasioni di approfondimento. Quello che interessava soprattutto a Loughlin Deegan, in questa edizione 2008, era mostrare come siano in atto a livello internazionale ricerche sempre più avanzate e mature orientate all'integrazione di linguaggi e tecniche e all'esplorazione di modi non convenzionali di comunicazione col pubblico, capaci di creare forme e relazioni completamente nuove.



Kate Duchene e Liz Kettle in The Waves.

Lo spettacolo che ha indicato questo percorso è Waves, una produzione del National Theatre of Great Britain, un lavoro di Katie Mitchel e della sua Compagnia abituale, dal romanzo Le ondedi Virginia Woolf del 1931. La sperimentazione letteraria di rottura della Woolf si applica con altrettanta radicalità al teatro, "creando una forma totalmente nuova" (“the Guardian”), attraverso tecniche multimediali, l'uso del video live-feed ed effetti speciali.



Black Watch.

Ma la ricerca di nuovi percorsi formali appare necessaria anche per il rilancio di un teatro di forte impegno civile, come è il caso di Black Watch di Gregory Burke, diretto da John Tiffany e prodotto dal National Theatre of Scotland, un pluripremiato spettacolo dedicato alla guerra in Iraq. Anche in questo caso una proposta di forte impatto visivo, ricca anche di suggestioni musicali.
Sulla linea dominante della contaminazione anche Dodgems (Autoscontro), una produzione del festival con la compagnia di danza CoisCeim, di crescente credito internazionale: un mix di danza e circo ambizioso e generoso ma non del tutto riuscito, suggestioni colte e popolari, suoni e odori, musiche per banda e effetti elettronici per una metafora sulla composizione sociale che cambia, nuove convivenze, nuovi scontri.



Il Flauto magico "etnico" secondo Mark Dornford-May.

Se nuove forme possono nascere dall'incontro con la tradizione, ecco la messa in scena "etnica" del Flauto magico, adattamento e regia di Mark Dornford-May (una produzione Isango/Portobello, ovvero Sudafrica-UK): Mozart incontra il musical, lo spirito gospel, l'Africa, in una produzione che strizza l'occhio al mercato, ma non per questo priva di originalità: un arrangiamento tutto per percussioni, grande vitalità, energia, spettacolarità che manda il pubblico (anche anziano) in delirio.



Vanessa Redgrave protagonista di The Year of Magical Thinking.

Un passo indietro: a fianco di Waves (che ha indirizzato altre scelte di programmazione), il festival propone altre due produzioni del Teatro Nazionale inglese: Vanessa Redgrave in The Year of Magical Thinking, testo di Joan Didion, basato sulle memorie della attrice-mito, diretta da David Hare; e Giorni felici con Fiona Shaw diretta di Deborah Warner.





Fiona Shaw è Winnie in Happy Days.

Scelte di questo tipo, all'insegna del massimo tasso di notorietà, possono essere qualificanti in sè, ma sono sempre una buona pre-garanzia per raggiungere i risultati quantitativi che consentono di garantire spazio a forme più radicalmente innovative, in una logica che tende a non porre steccati rigidi fra generazioni e strutture di produzione. Cogliendo l'occasione della significativa presenza inglese e scozzese (e naturalmente irlandese), alla funzione e alle modalità di produzione dei "teatri nazionali" è stato dedicato un convegno breve, cui non ho partecipato, ma interessante proprio per le considerazioni sulla necessità, la possibilità e le modalità di intervento delle grandi istituzioni teatrali a favore della ricerca di nuove forme.
Ho potuto seguire invece la discussione finale fra critici per lo più giovani e operatori nel merito degli spettacoli del festival. Una cosa mi è sembrata interessante: quello che pensavo fosse, e che mi è sembrato di veder confermato, come il punto di forza del teatro irlandese, cioè la drammaturgia, può essere percepito come un freno. Secondo Deegan è prioritaria una ricerca di percorsi formali che vadano oltre il testo e l'esigenza è avvertita anche nella discussione; dagli spettacoli si coglie però come queste ricerche vedano coinvolti spesso in prima persona gli stessi autori.



Delirium.

E' il caso di Delirium che Enda Walsh (noto in Italia per Disco Pigs messo in scena da Walter Malosti), ha scritto e diretto, ispirandosi ai Fratelli Karamazov, o del curioso teatro d’appartamento You are here di Ioanna Anderson, che mostra a un gruppo di 15 spettatori-voyeurs le strane vicende di un appartamento esplorato nella sua vita diurna e notturna.



Tim Crouch e Hannah Ringham in Enlgand.

Ed è un po'anche il caso di England di Tim Crouch, che il festival ha presentato nella versione inglese, in cui l'autore è in gioco anche come attore, sperimenta quindi in prima persona il singolare rapporto spazio/attore/spettatore che il testo propone (ricordo in Italia l'edizione diretta da Carlo Cerciello).
Autore puro e geniale, degno discendente di Samuel Beckett (di cui vorrei almeno segnalare una bella, ironica messa in scema di Primo amore con Conor Lovett), è invece Martin McDonagh, autore anglo-irlandese trentenne, presente al festival con Lo storpio di Inishmaan, nell'edizione di Druid and Atlantic Theater Company (coproduzione Irlanda-Usa), diretta da Garry Hynes. Di McDonagh e di questo testo ha scritto Palazzi in occasione della messa in scena da parte del teatro di Genova: "ha tutta la densità di scrittura e l’articolata capacità di osservazione degli autori della sua terra d’origine. Ma nei suoi testi l’Irlanda non appare oggetto di nostalgie patriottiche o di prevedibili rivendicazioni nazionalistiche: essa gli offre piuttosto un linguaggio, uno stile, una tipologia di personaggi inconfondibili. E’ un luogo franco del sentimento, una sorta di riserva culturale nel cui orizzonte si possono ambientare soprassalti interiori e sviluppi narrativi che in un altro contesto risulterebbero impossibili, o quanto meno privi di verosimiglianza".

La dimensione internazionale
E'ovviamente una scelta linguistica, e anche il frutto di relazioni consolidate che porta a privilegiare nelle ospitalità internazionali Inghilterra, Scozia, USA. Ma fra i paesi ospiti figuravano quest'anno anche Islanda, Belgio, una coproduzione olandese-tedesco-belga, Argentina, Colombia e, nella compressa selezione ragazzi (anticipazione di un festival dedicato), una coproduzione Norvegia-UK-Repubblica Ceca), la Danimarca e anche un'apparizione italiana: Il lupo e la capra della compagnia Rodisio).
Fra gli eventi speciali però (mostre, panels, laboratori) spiccava Stage to screen, il video di Romeo Castellucci sul ciclo della Tragedia Endogonidia della Societas Raffaello Sanzio, due mattine di proiezioni (340 minuti): 80 persone circa all'inizio! La compagnia è molto conosciuta qui e molto amata da Loughlin Deegan: penso rappresenti per lui l'espressione ai massimi livelli della ricerca di forme nuove e totali che cerca di scoprire e di proporre.
La curiosità per altre espressioni del teatro italiano però, da parte di Deegan e del festival, non manca di certo, come sempre ostacolata dalla difficoltà a orientarsi sulla nostra scena. E non mancherebbero neppure i supporti pubblici in Irlanda per costruire ipotesi di scambio, magari a livello meno istituzionale.
Come non manca attrazione per la cultura italiana: devo ancora ricordare Circus di Raymond Keane e della compagnia Barabbas, ispiratro alla Strada di Fellini, metafora e pretesto per una intensa proposta visiva.
E per l'Italia in genere: l'ultimo tassista che incontro, con una coda di cavallo bionda, è orgoglioso di Ryan Air e mi dice che presto farà un salto a Milano, tanto per mettere un piede in Italia. Dal cruscotto occhieggia un'immaginetta di Padre Pio.

per dettagli sul programma del festival, edizione 2008
www.dublintheatrefestival.com
 


 

Teatri contro la Guerra al Living Theatre
La nuova sede a New York
di Renato Sibille

 

The artist must elect to fight for freedom or slavery.
I have made my choice. I had no alternative.
Paul Robeson


Il 20 maggio 2008 c’è aria di revival in Clinton Street, una strada del Louisaida (il Lower East Side di Manhattan) che, nonostante il processo di gentrification [1] dell’era Giuliani, mantiene ancora, fra bassi palazzi fine Ottocento con le immancabili scale antincendio piantate nella facciata, quel fascino della New York degli anni Sessanta e Settanta quando i figli della Beat Generation e gli intellettuali del movimento hippy salivano nelle soffitte della 14a o di Chelsea (nel West Side) per ascoltare le poesie di Ginsberg, i virtuosismi dei musicisti jazz o le canzoni di Dylan, di Seeger e della Baez o, ancora, i testi di drammaturghi contemporanei sconosciuti allora (e in gran parte sconosciuti anche oggi).



Il caffè del Living Theatre in Clinton Street.

Quel clima dove si parlava di guerra, di pace, di nucleare, di pari opportunità per gli afro-americani, di diritti dei nativi, ma anche – e tanto – di sesso libero, di emancipazione femminile, di omosessualità, di arte, di India, di “fumo” e dove si progettavano le grandi manifestazioni per la pace, consultando gli I King, tra uno spinello e una scopata. Verso le ore 20.00, in questa serata tiepida di maggio, dopo la sosta in qualcuno di quei piacevoli e non troppo economici ristoranti o caffé alla moda di cui il quartiere è pieno ci si avvia al n. 21 di Clinton Street, tra la Houston e la Stanton Streets. Sulla porta, un’insegna al neon avverte: «The Living Theatre». No, non è un residuo di quegli anni che abbiamo evocato; o almeno non lo è l’insegna.



Hanon Reznikov e Judith Malina.

Qui c’è la nuova sede newyorchese del Living Theatre aperta dopo lo sfratto, nel 2005, del Centro Living Europa dalla sede italiana di Rocchetta Ligure, dove il gruppo ha soggiornato per alcuni anni dal 1999 nell’antico Palazzo Spinola. Ma, ufficialmente il motivo del rimpatrio del Living è dovuto alla consapevolezza, secondo le parole di Hanon Reznikov, di «dover ritornare nella pancia della bestia» per lottare contro l’imperialismo capitalista. Il Living dunque ritorna alla sua necessità primaria, d’altronde quella necessità, nella sua coerenza, non l’ha mai abbandonata se Judith Malina ancora proclama: «Io penso che siamo finalmente pronti per una rivoluzione anarchica pacifista» [2].



Sulla sinistra, la nuova sede del Living Theatre.

Ma questa sera non è di scena il Living, o meglio la scena è per il Living. La serata, infatti, è dedicata proprio alla memoria di Hanon Reznikov, scomparso il 3 maggio, a 57 anni, per una complicazione polmonare seguita ad un infarto cardiaco. Il “folto” pubblico, circa 50 persone [3], scende la stretta scala che porta nel piano interrato e, passando accanto alle toilette, entra nel locale bar. Ovviamente, dopo aver superato la cassa dove il biglietto è acquistabile a un prezzo/contributo consigliato tra i 10 e i 20 dollari, ma – avverte un cartello – «Pagate quel che potete, nessuno verrà spedito via». E, a giudicare dall’apparenza, difficilmente qualcuno avrà chiesto di entrare a meno di 10 dollari, tutti o quasi artisti-intellettuali, tutti o quasi della middle class, tutti o quasi WASP [4], tutti o quasi sostenitori di Obama (quelli che non lo sono, sono anarchici che non votano). Nel bar, dove si possono anche consultare e comprare i testi sulla storia del Living e i saggi o le poesie di Julian Beck e di Judith Malina, si chiacchiera, si beve e si mangia (stuzzichini, panini, pasta, polenta). Tutto compreso nel prezzo!



Il logo di Theaters Against War.

Si tratta, infatti, di una serata benefit organizzata da THAW (Theaters Against War) per raccogliere denaro per il Thaw Scholarship Found 2008 (un concorso a cui possono partecipare artisti, gruppi e associazioni di tutto il mondo che fanno teatro in luoghi in cui sono in atto conflitti, militari, razziali, economici, ecc., o in territori sconvolti dalla guerra).
THAW è un’associazione di volontariato nata nel 2003 e composta da lavoratori del teatro: drammaturghi, attori, registi e designer, impegnati a promuovere una cultura di pace nello «sforzo di fermare la guerra preventiva oltreoceano dell’amministrazione Bush e per la difesa dei diritti civili negli Stati Uniti» [5] contro l’imperante slogan della politica aggressiva statunitense: «War on Terror», come recita il loro manifesto.



Un'attivista di THAW a una manifestazione per la pace.

Sono Theaters Against War circa 650 tra singoli artisti e gruppi, in prevalenza newyorchesi, che vanno dagli storici Living Theater, Medicine Shows, Talking Band e Ontological-Hysteric Theater alle innumerevoli piccole realtà emergenti di teatro afro-americano, ispano-americano, o di gruppi impegnati nelle battaglie per le libertà e i diritti civili.
Al termine del momento conviviale si apre la tenda che divide il bar dalla piccola sala. Poche file di sedie su gradinate addossate ad una parete con lo spazio per la scena a livello del pavimento e, sulla parete di fondo, un palco che sembrerebbe piuttosto una nicchia, un armadio a muro o un incasso per impianti elettrici, dove sono riposti sedie, leggii e qualche strumento musicale. Al centro, un’apertura rettangolare nel pavimento ospita un divano. Strumenti e divano non entreranno, però, a far parte della serata: «E’parte della scenografia di un gruppo ospite delle prossime settimane», spiegano i ragazzi del Living. Pavimento e fondale sono coperti da una moquette beige a fiori azzurri di gusto un po’ retrò e poco adatta ad uno spazio teatrale. Uno schermo scende al centro della sala, pronto per le proiezioni. Dopo il tributo a Hanon tra discorsi e letture di poesie a cura di Brian Pickett e Joanie Fritz Zosike, ecco il vero motivo della serata: la premiazione del Thaw Scholarship Found 2007 [6]. Sally Eberhardt, membro fondatore del THAW, spiega che sono pervenute partecipazioni di gruppi che lavorano con il teatro in numerosi paesi tra cui: Iraq, Afghanistan, Uganda, Salvador, Libano, come pure di associazioni che lavorano con gli immigrati in California o con le donne in quartieri emarginati del Nord Inghilterra; tutti comunque operanti con coraggio e creatività in condizioni di estremo disagio: guerra, occupazione militare, AIDS, campi profughi, immigrazione, arruolamento forzato di bambini, ingiustizie economiche, ecc.
Il premio Thaw Scholarship Found 2007 di 1.000 dollari è stato assegnato al palestinese Al-Harah mentre quello di 500 dollari è andato al ruandese RAPSIDA, due gruppi che operano in situazioni di estrema difficoltà: in un territorio chiuso dal muro israeliano in situazione di perenne conflittualità il primo, e in un territorio martoriato dalla guerra e dall’AIDS il secondo.



Un'azione teatrale di RAPSIDA nei villaggi ruandesi.

Impossibilitata a partecipare alla serata, per difficoltà nell’ottenimento dei visti, la compagnia Al-Harah, con sede a Beit Jala, ha inviato per l’occasione il video The Wall diretto da Kareem Fahmy che narra le vicende dei lavoratori pendolari palestinesi in Israele costretti quotidianamente a lunghe file di attesa presso il checkpoint di Betlemme, a partire dalle ore precedenti la mezzanotte per poi entrare in territorio israeliano, al di là del lungo muro, verso le 7-8 del mattino seguente, tra umiliazioni, insulti e perquisizioni quotidiane. Il nome in arabo del gruppo Al-Harah significa molto eloquentemente, “quartiere, vicinato” e nasce nel 2005 per agire attraverso il teatro, in condizioni di occupazione militare, poiché secondo il gruppo: «esso ha la potenzialità di cambiare la vita delle persone che lo fanno e di quelle che lo guardano» [7] e poiché «con la diffusione delle arti teatrali in Palestina è possibile contribuire a costruire una società civile che tuteli i diritti umani, la democrazia e il pluralismo» [8]. Il gruppo ha l’ambizione di creare la prima vera e propria scuola di teatro in Palestina. La giovane regista americana, Suzana Berger sostenitrice del gruppo, ritiene che «Nonostante le difficoltà causate dallo scompiglio politico, dall’oppressione e dai massacri, gli artisti di Al Harah rimangono generosi, creativi e determinati nel realizzare un teatro che parla direttamente alla loro comunità» [9] e che fornisca un punto di riferimento ai giovani palestinesi che «crescono in condizioni di terribile incertezza» [10].
Il Secondo premio del Thaw Scholarschip Found 2007 è stato, come si è detto, attribuito al gruppo RAPSIDA (Rwandans and Americans in Partnership Contre le SIDA) che ha sede a Kigali (Ruanda). Il nome RAPSIDA deriva dall’unione della parola inglese to rap, “colpire” – ma che nello slang americano indica “fare quattro chiacchiere, parlare di” – con l’acronimo francese SIDA, con cui è conosciuta la sindrome da immunodeficienza acquisita in gran parte dei paesi africani a lingua francofona. Al teatro del Living gli attori ruandesi Okwui Okpokwasili, Candice Fortin e Lorenzo Scott hanno portato in scena Ishuri Ryach, con la regia di Joanie Fritz Zosike. Si tratta di una piece educativa sulla trasmissione del virus da HIV e sulla prevenzione con uso del preservativo, indirizzata alle ragazze delle scuole medie e superiori. La struttura è semplice, in tre atti brevi, con la rappresentazione di una situazione di abuso da parte di un professore sulle studentesse che si concedono in cambio di una promozione e che devono sottostare alla volontà del professore di non utilizzare il preservativo contraendo il virus. La forma utilizzata è quella del teatro forum di Augusto Boal, infatti lo spettacolo viene presentato nelle scuole ed utilizzato per l’apertura di un forum di discussione al fine di rendere consapevoli le ragazze sulle conseguenze delle proprie scelte. Il teatro forum si è dimostrato particolarmente efficace nella lotta all’AIDS e alla discriminazione delle persone sieropositive che RAPSIDA conduce dal 2003, in una terra martoriata dalla guerra civile dove le condizioni igieniche e sociali hanno favorito la recrudescenza dell’espansione del virus.



Il set di una teatro forum di Rapsida.

Il Ruanda è uno dei paesi africani più colpiti da HIV ed è tra quelli meno preparati a contrastare la malattia, data la condizione di estrema povertà. L’idea del progetto RAPSIDA nasce nel dicembre 2002, in seguito al viaggio in Ruanda di Glenn Hawkes, docente in medicina alla Harvard University, e di suo figlio Jesse, attore-cantante, in visita ad un amico sopravvissuto al genocidio del 1996. Nel febbraio successivo RAPSIDA prende forma nel progetto guidato da Jesse Hawkes. [11] Oltre al teatro forum hanno grande successo i 36 musical creati dai 60 “Clubs” [12], un programma radiofonico di sensibilizzazione e prevenzione contro l’AIDS e un radio dramma a puntate molto seguito.
La serata al Living Theatre si conclude con la proiezione del video Angabire, che in lingua kinyarwanda [13] vuol dire “Regalo” e che mostra il lavoro condotto dagli attori e dagli operatori di RAPSIDA oltre all’omonimo musical realizzato all’interno delle scuole con la partecipazione di studenti e insegnanti. Un vero “regalo” questa serata di Theaters Against War che non è revival dell’epoca d’oro della contestazione, ma profondo impegno in un mondo in cui le guerre rappresentano ancora «la bestia da combattere». Un mondo certo cambiato da quegli anni Sessanta e Settanta quando le note di Imagine di John Lennon si alzavano con speranza ad invocare la pace universale e dove oggi i Teatri Contro la Guerra non scendono solo per le strade a manifestare contro l’impegno americano nei nuovi Vietnam, ma conducono la loro azione a tutto campo «nella pancia della bestia», perché la “bestia” è ancora sempre quella di allora.

NOTE

[1] Il processo di “pulizia” e “riordino” urbanistico, di fatto una speculazione edilizia che allontana le classi meno abbienti per costruire quartieri residenziali e commerciali appetibili alla upper e middle class.
[2] Incontro con il Living Theatre all’Università degli Studi di Torino, 2006.
[3] Il teatro ha una capienza di circa 60 posti.
[4] White Anglo-Saxon Protestant (protestante di origine anglosassone e di razza bianca).
[5] http://www.thawaction.org/
[6] Cfr. programma di sala: Thaw. Remembering Hanon Reznikov.
[7] http://www.thawaction.org/
[8] http://www.alharah.org/
[9] http://www.thawaction.org/
[10] Ibidem.
[11] http://www.rapsida.blogspot.com
[12] Gruppi nati dai laboratori teatrali che RAPSIDA conduce all’interno delle scuole secondarie.
[13] Lingua ufficiale del Ruanda, insieme al francese, fa parte del gruppo di lingue bantu ed è parlata indifferentemente dai diversi gruppi etnici.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Per un teatro spazio-suono
Le performance di Hotel Pro Forma
di Anna Maria Monteverdi

 

Hotel Pro Forma è tra le più note compagnie artistiche internazionali che lavorano con le tecnologie; sono danesi e realizzano installazioni, ambientazioni e spazializzazioni audio-visive, concerti di musica operistica o elettronica oltre che spettacoli e performance per spazi non convenzionali, per musei o per black box theatre. L’elemento luministico e visivo dominante, l’attenzione per un’architettura scenica rigorosa e geometrica e un suono 3D espanso nell’ambiente, le immagini video ad alta definizione e le animazioni contraddistinguono i lavori della compagnia creata nel 1985 dall’architetto Kirsten Dehlholm (1945) e attualmente diretta dal giovane Ralf Richardt Strøbech (1973).



Le produzioni di Hotel Pro Forma (il cui motto è “Performance art as an investigation of the world”) sono altamente evocative. Giocano sulla percezione visiva e uditiva grazie a una complessa progettazione che prevede una stretta collaborazione tra le arti e i media digitali con un’attenzione speciale per lo spazio architettonico e il suono. Il risultato esteticamente parlando è per certi aspetti molto simile al mondo teatrale di Robert Wilson dove, come è noto, sono proprio la luce e il suono a creare lo spazio della rappresentazione. Come amano dire, Space is co-player. Every production is a new experiment and contains a double staging: contents and space.



Informazioni sulla ricerca danese nell’ambito delle arti visive, performative, letterarie e musicali, sui Festival e sui teatri sono rintracciabili sul sito dell’Agenzia Internazionale delle Arti Danesi dove è possibile trovare anche un’ampia scheda su Hotel Pro Forma.
Operation: Orfeo (1993). una riproposta del genere operistico con musiche di John Cage, Danish Bo Holten e Willibald Gluck, è una delle produzioni di maggior successo a livello internazionale ancora oggi in repertorio, composta da potenti quadri visivo-sonori. Vedi il video su YouTube.



Theremin (2004) è basata sulla storia del fisico e inventore del primo strumento elettro-acustico, Leon Theremin (1896-1993). Site Seeing Zoom (2001) è realizzato in collaborazione con il collettivo digitale Crosscross. Only Appear To Be Dead (2005) si ispira alla biografia di Hans Christian Andersen (è arrivato anche in Italia, alla Biennale di Venezia), commissionato dal governo danese (come lo spettaclo su Andersen di Lepage) e prevedeva un coro a cappella di 14 voci del Coro Nazionale Danese e immagini video. Algebra of Place (2006) si compone di 11 scene da un immaginario hotel mediorientale.
Ultima creazione in ordine di tempo di Hotel Pro Forma è Relief, spettacolo inaugurato a Copenhagen nel maggio 2008 diretto da Ralf Richardt Strøbech, è basato su un tema suggestivo e su una biografia reale. Si parla del momento della vita in cui ognuno di noi si confronta con le proprie aspirazioni ideali e decide di “spiccare il volo”, come farfalle uscite dal bozzolo; il tutto confrontato narrativamente sia con la biografia di Vladimir Nabokov, scienziato russo (specialista nello studio dell’entomologia: nel 1940 gli fu affidato l'incarico di organizzare la collezione di farfalle al Museo di Zoologia Comparata dell’Università di Harvard) che visse in Crimea dal 1916 al 1919 e poi decise di partire per l’Europa e abbandonare la carriera di scienziato per quella di letterato, sia con la condizione di mutazione geopolitica dell’attuale Ucraina. Questo tema della trasformazione ha così una triplice implicazione: è una trasformazione insieme umana, geografica e scientifica, tutte metaforicamente unite dall’immagine dell’olometabolia degli insetti, dei coleotteri, ovvero dal passaggio metamorfico attraverso i vari stadi larvali. La storia dell’Ucraina è raccontata attraverso interviste degli abitanti dell’area multiculturale di Odessa e da immagini di repertorio. La vicenda biografica di Nabokov è raccontata attraverso passaggi dai suoi famosi diari.
Guarda il video su YouTibe.
Come chiariscono le note di sala, tutto ruota intorno al tema che dà il titolo allo spettacolo, Relief:

“Relief is the moment when the figure breaks free of the flat surface and gains its own independent life. When we decide who we want to be. When geological contours are divided and become countries”.

Lo spettacolo si compone di tre diversi spazi: la strada (con le interviste in video a studenti e attivisti radunati a Odessa), lo studio di Nabokov, soffocante prigionia-cubo da cui il personaggio Nabokov vuole



evadere, e il palcoscenico, luogo di liberazione. Scenicamente parlando, Relief è l’intersezione tra spazio e immagine. E’ la soglia di percezione. E’ la soglia realtà/finzione, l'ambigua duplicità della realtà di cui parla anche Nabokov nei suoi romanzi (Ada o ardore, 1969). In questo ambiente tecnologico, evocative luci liquide, blu, verdi, gialle, rosa, lilla trasformano la scena fatta solo di uno schermo traslucido che ospita immagini video, animazioni, forme in trasformazione, reportage. Talvolta il film prevale sullo spettacolo: un film di immagini catturate dalla macchina in corsa, paesaggi della terra ucraina, invernali, tempestosi. La liberazione è l’uscita dal cubo, dal bozzolo, dai confini: “Voglio rimuovere i confini. Puoi mettere dei confini all’aria? Puoi dire che questa è aria russa e quella una nuvola tedesca? O quello un cielo ucraino?”.



La condizione di immersività e di suggestione sinestetica (la sinestesia era il disturbo di cui soffriva lo stesso Nabokov, che associava colori particolari a determinate lettere) nel tema proposto è ottenuta grazie al suono dissociato, multidimensionale, distribuito in un campo sonoro binaurale con un mixaggio sapiente di dialoghi, frasi e rumori di strada, restituito allo spettatore da speciali cuffie in-ear. Più che dalla narrazione tradizionale e da una trama, il tema è suggerito da flash visivi e sonori:

“The subconscious registers much more quickly than the conscious. I use the performance to delve beneath the conscious into pure sensation. The body remembers. One spectator said: I did not understand it, but I have never forgotten it. So what is this all about? It’s about the art of knowledge.”
(Kirsten Dehlholm)

E’ ancora in cantiere (e debutterà nell’autunno 2009) lo spettacolo Tomorrow in a year dedicato a Charles Darwin, per celebrare i 150 anni dalla pubblicazione del volume L’origine della specie esplorando ancora le intersezioni tra arte e scienza. In collaborazione con il gruppo svedese The Knife, la performance dovrebbe, nelle intenzioni degli autori diventare una composizione musicale e visuale a descrivere l’evoluzione della specie. Le coreografie saranno di Hiroaki Umeda.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Teatro e digitale: alcuni punti di partenza
Un'intervista a Ralf Richardt Strøbech
di Anna Maria Monteverdi

 



ANNA MARIA MONTEVERDI: Which is your personal artistic background and the theatrical and aesthetic models that influenced you and when you decided to be a part of the group?

RALF RICHARDT STRØBECH. Kirsten Dehlholm founded Hotel Pro Forma in 1985, I have been with HPF since I graduated from the Royal Academy of Fine Arts, School of Architecture, in Copenhagen. That will soon be five years since.
Back in the 90s, I worked briefly as an opera singer, and was in that way connected to the performance Operation: Orfeo, that toured already back then. Some years ago I was appointed artistic director, working closely with Kirsten on conceptualizing and directing the pieces, working also with stage design.
I have always been drawn to aesthetics that relied more on structure, texture and space than on psychological narrative, since I believe that it is better to make room for multiple emotions and comprehensions than to project them specifically. The somewhat abstract narration that exists in architecture is actually also my ideal in theatre.

ANNA MARIA MONTEVERDI: In your productions with Hotel Pro Forma theatre, film, video, light, music, images are conciliated in an ideal unicum dramaturgy; how do you project this type of multimedia performance: beginning from a previous text or mixing all your sources creating a performance text after the rehearsals only?

RALF RICHARDT STRØBECH: Each performance has a different point of departure, or rather points of departure. It could be an existing text or fragment, a social condition, an existing space, a technology, a philosophical theme, or even a person. Sometimes combining two or more seemingly detached points of departure creates a space for navigation that is very productive. In the special case of the Relief-performance it was geopolitical and cultural changes in Eastern Europe that created the point of departure, but this was quickly combined with texts by Vladimir Nabokov and binaural (3D) audio technique to provide the right balance of supporting and contradictory elements to create a multilayered performance.
You are quite right in saying that the actual goal of the performances is to create exactly this unicum dramaturgy of separate elements. The finished piece tries to strike a balance between internal logic and external representation. A sort of world-building with opinions.

ANNA MARIA MONTEVERDI: Could you tell about the steps of a digital creation according to Hotel Pro Forma? And is there a single language which has more importance than the others?

RALF RICHARDT STRØBECH. Creating art in digital media very often is a problem of creating enough information to refer to external reality. Relief works with two kinds of digital creation, audio based and visual. In both cases the goal is to investigate the informational relief between the artificially created and the passively recorded.
Consider being in a street full of urban noise with your eyes closed. There would be a tremendous amount of information, cars, people talking, wind, animals, brooming of fallen leaves and putting up tables outside cafés. There would also be a fundamental acoustic situation that somehow portrayed the configuration of surrounding buildings as well as materials and even the position of the person listening. Normally your perception sorts out this chaos and points you to hear what you need to hear the most, e.g. to avoid being hit by a car or to spot your friend in the crowd. When you record reality to use in a performance, you need to do the cleaning up of reality in order to make the spectator hear something specific/intended. Now, creating this situation digitally from scratch is somehow the reversed situation. How do you get enough information into the rendering to make it reveal something other than its construction? How and what to put into the “image” to make it communicate what you want, perhaps even to approach itself to a “realistic” or multifaceted representation? This is really the subject matter of relief, exploring the gap between the recorded and the created, between too much and too little. In the case of visuals, I try to de-animate video, and to animate still photos, trying to see what happens to representation of reality as they approach.

ANNA MARIA MONTEVERDI: In Italy the digital performance as a genre is considered not so positive, too much “alternative”, nearer to visual arts than the theatre, so that the official theatres schedule very few digital projects. Is it that way also in Denmark?

RALF RICHARDT STRØBECH: It is very unfortunate that the distinction between visual arts and theatre is stressed so much, really it is to the benefit of no one. It would be much better if artists made pieces that drew on the means accessible - in the right way, at the right time, and for the right reasons. Unfortunately production realities, theatre profiles and audience expectations do not support this way of thinking, most people like to have an idea about what they will get before going to see something, also in Denmark. But it would be much better for everyone if we could gradually develop a broader attitude toward experiments and curiosity, going to the theatre to wonder and think together in the meeting between the artists and the audience through the performance.

ANNA MARIA MONTEVERDI: In Denmark does it exist a centre or a place for artistic researches in interactive media applied to the Theatre and doesn’t it exist any festival dedicated to them?

RALF RICHARDT STRØBECH: As far as I know, there is no such place in Denmark. But it is very possible to work in mixed media on more traditional venues, and it is definitely possible on some of the open stages that exist. And it is not looked on as too “alternative” as such, but it definitely isn’t part of the mainstream either.

ANNA MARIA MONTEVERDI: Which are the most important examples of international digital performance group, near to your artistic experience?

RALF RICHARDT STRØBECH: I have really tried to figure out what to answer to this question, and I can’t really make my mind up. Naming any one group or person would somehow point in a direction, indicating the future of digital performance in general. But I really believe that the future lies in individual experiments, not connected with style and tradition or any one practitioner. Around the world, interesting things are going on, this is a field still very much in progress. Still, with this in mind, I could mention the Croatian group BADco whom I have met and seen on various festivals around Europe, and the Italian group Ortographe. I don’t know whether their work can be classified as digital performance as such, but it is certainly extremely interesting and points toward the future even if it does it with and through the past. Another extremely interesting artist is Tony Dove, based in New York, who really does an amazing job pushing the limitations of interaction in narration. But in every work of art, if done with sufficient care, love and brains, there will be something to investigate further and to fertilize your own imagination. Canonical answers just make everybody stare in the same direction, thus missing what is behind them.

ANNA MARIA MONTEVERDI: In a first glance some of your shows are similar as a structure to some of the best theatre pieces by Bob Wilson: as a matter of fact also in your works lights and images (and sounds) make the space and also Wilson began in architecture. Is it correct this parallelism? Which is the relationship between theatre and architecture in your show?

RALF RICHARDT STRØBECH: Architecture is the most important art form. It shapes our entire understanding of the world by giving us a space from which to look back onto the world. It is in this sense that the performances are architectural, they provide a platform for understanding much bigger issues. Understanding theatre as a form of architecture also liberates me from the linear dramaturgy of the progressive narrative, it is no longer a corridor with rooms on the side, but rather a free-flowing movement through inter-connecting spaces of meaning and ambience. Architecture is structured liberty, perhaps Robert Wilson would agree on this.

ANNA MARIA MONTEVERDI: Steve Dixon speaks about Augmented Stage for describing multimedia theatre. Is it correct as definition?

RALF RICHARDT STRØBECH: Unfortunately, I don’t know his theory, but the term Augmented Stage certainly sounds intriguing. The use of other media allows for different connotations altogether, new and old traditions are brought to the table. It means new possibilities for contextualizing, expanding the on stage as well as the off stage, and allows for treating time and space with more freedom and plasticity.

ANNA MARIA MONTEVERDI: How the rules of the director and the function of the actor and of the collaborators (and also of the audience) are changing in this new forms of theatre? Is it right to affirm that in a digital perspective the theatre is becoming more and more a collective creation?

RALF RICHARDT STRØBECH: Actually, I don’t think that the role of the director changes very much. Directing is a very personal matter, so how it is done is not depending on the used media so much as it is defined by the personal style and the subject matter at hand. Since using digital media is very often a very slow process (just think of the painstakingly slow business of frame by frame animation!), it involves “directing” the collaborators more in the pre-production, requiring a more defined idea to begin with, so as to not waste too much time as the deadlines approach. Digital art forms as a rule do not lend themselves easily to improvisation, at least not in my experience. Much effort is put into the technical aspects of the production, to make live feeds have an acceptable resolution, edited material to have the right relationships to the performance as a whole, and so on. The risk is, of course, that the performers slide to the background in this technical mayhem. The fact is, that no matter how much expression new media can bring to the stage, the performer almost inevitably provides the point of entry for the spectator, since identification with a person is so much easier than identification with, say, a vacuum cleaner.
As to the collectiveness of the digital performance, it really depends on how much technology you know yourself. If you know nothing of the possibilities at hand, you are clearly at the mercy / in the good hands of the person actually executing the required task, which can be a bad or a good thing respectively. The amount of collectivity has almost nothing to do with the medias used, it is only connected to the creative process and to how well you know and trust your team.

ANNA MARIA MONTEVERDI: Which is the relationship between your works as installations and the theatre pieces? The spectator is involved in the work in the same way?

RALF RICHARDT STRØBECH: The most fantastic thing the classical theatre has brought the world, is to engage the audience emotionally in an almost unbelievable way, just think of the excruciating agony in Romeo and Juliet, the exuberant joy in The Tempest, the fathomless hopelessness in Uncle Vanya. The best thing brought by installation as an art form is the wonderful sensation of almost, but not quite, grasping the fundamental truths of the world with a side effect of incomprehensible beauty. The first relies on leading the spectator through a successive series of events, the latter on setting the spectator free to form his or her own quasi-narrative. Of course I am nowhere near obtaining those two things at the same time, but it actually is what I am striving for, the artistic drive, that make me want to make the next piece, always. It may sound impossible, beside the point, or pompous even, but I think it is good to have goals that are hard to reach.

ANNA MARIA MONTEVERDI: ”Relief” has three variations inside around a powerful central concept: it could be translated as: a) the human metamorphosis due to a personal choice b) the scientific sense c)the geopolitic sense. In all of these three meanings the figure of Nabokov is like a conjunction, a symbolic metaphora such as Ukraina. Could you express the starting point of the work? Do you consider it a politic work?

RALF RICHARDT STRØBECH: First came the ambition to make a piece about the geopolitical/cultural changes that happen in the active zones around the edges of well-defined entities (Europe/Russia). This was broadened to the abstract concept of the relief that of course has the somewhat disturbing dual meaning of something in-between and something clarified. Nabokov intuitively became a good friend in this field, since he, as you rightly put it, functions as a conjunction, he is an entity that functions well in these overlapping fields of sense, riding comfortably the agitated space between and on the dual concepts of reality/fiction, science/art, east/west, and belonging/annihilation. He seemed to provide a position where these pairs of concepts were no longer mutually exclusive, but rather different aspects of the same preoccupation. It is a political work because it is subjective, trying to develop an attitude on big issues, not because it tries to transmit a fixed message. In the end it is still up to the individual spectator to form his or her own opinion.

ANNA MARIA MONTEVERDI: In Relief you used 3D animation, historical images from the archives and interviews from the street and the actor as human being (the character Nabokov). Is it for making clear the different degrees of reality, the duality between reality/fiction? Do you think, in this case that the meaning is clear enough to the audience?

RALF RICHARDT STRØBECH: We tend to consider Film more real then Drawing. History more real than Anecdote. Passers by in the street more real than Actors, even though this is not necessarily so. Everything is real, you can only argue for a gradual relation to referential objectivity. So what you consider real is a matter of personal opinion. My hope was to make people see the reality of this, if not in an intellectual sense, then hopefully on a more subconscious level. I certainly don’t think that this meaning is clear to the audience, I rather think, that what they previously thought was objectively real is now a little bit more obscure.

ANNA MARIA MONTEVERDI: In the notes you speak about the importance of different levels of perception and during the show you used 3d sound, headphones for audience, and sophisticated audio-video systems. Is the “immersivity” through all the senses the real objective of the show?

RALF RICHARDT STRØBECH: If I drop a glass to the floor in front of you, you see the glass break and hear the breaking sound simultaneously. If you see the same thing on film, I can make the two cognitive inputs break apart, thus clarifying the artificiality of the media. It is difficult, if not impossible, to not think that either the visual or the acoustic input is the true happening and that the other is either too early or too late. Which event you consider true is highly individual. I split up sound and image to play with one of the most basic relief phenomena, that of similarity between visual and acoustic information. As the play moves on, the audience in general hopefully gives up comparing the two information and become immersed in the collected sensory information available. This is a clear objective, give up thinking and start sensing, but it is not the purpose of the piece, just another way to construct it.

ANNA MARIA MONTEVERDI: Hotel Pro Forma made a show about Andersen, also Robert Lepage did it and also Lepage was inspired by a biographical episode not so known, like you. Did you see this Lepage’s work? What is your opinion?

RALF RICHARDT STRØBECH. I did see it, yes, and I also rather liked it, it was very playful and imaginative. Using Andersen is just as much a pretext, for Lepage as well as for us, a kind of giant McGuffin to access other areas of interest such as narration, theatre and imagination in the case of Robert Lepage, and individuality, travel, and imagination in the case of our production.

ANNA MARIA MONTEVERDI: The digital performance will substitute the traditional theatre?

RALF RICHARDT STRØBECH. I hope not! but I guess that the distinction will gradually diminish as traditional theatre will incorporate more and more technology, and, hopefully, digital performance will stop distinguishing itself so much from the classical, as I mentioned before there is merit in both fields. It is important that we learn from each other instead of creating artificial and fruitless wars.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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I Konic THTR in laboratorio a Imperia
Per una danza interattiva
di Anna Maria Monteverdi

 

Da giovedì 20 novembre a sabato 22 il Polo Universitario di Imperia-DAMS (presidente Prof. Roberto Trovato) ha ospitato i laboratori di Digital Coreography di Konic THTR, compagnia catalana di danza interattiva.
I laboratori hanno avuto luogo presso lo spazio teatrale EUTROPIA e sono stati organizzati da Anna Maria Monteverdi, docente di forme dello spettacolo multimediale al Dams che da un anno segue il lavoro di KONIC. Nei loro spettacoli applicano il metodo "The Augmented Stage" che unisce arti, scienza e tecnologia e i cui obiettivi sono: investigare e sviluppare software e dispositivi interattivi da usare per la scena e per la scrittura coreografica.










 



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La scena teatrale tecnologica catalana
Intervista a Konic thtr e Marcel.lì Antunez Roca (con una nota di Carles Canellas-Rocamora teatre)
di Anna Maria Monteverdi

 

La terra catalana ha un fascino particolare: persino l’arte più sperimentale, quella tecnologica, lì sembra esprimersi al meglio. Chi non conosce l’evento mondiale Sonar, dedicato alla musica techno e alla cosiddetta media art, “uno strano incastro”, come mi ricorda Ennio Bertrand degli Otolab, “tra club culture e mondo della sperimentazione radicale”? O le performance “mecatroniche” di Marcel.lì Antunez Roca, o i megalomani spettacoli della Fura dels Baus, compresi quelli realizzati nella loro nave Naumon attraccata al porto di Barcellona?
Ma la Catalunya è davvero la Mecca della ricerca teatrale tecnologica? Abbiamo chiesto a tre artisti residenti a Barcellona (Carles Canellas, Marcel.lì Antunez Roca e Alain Baumann e Rosa Sanchez dei Konic Thtr) di darci una loro personale immagine della città e della Regione e qualche indicazione dei luoghi e dei protagonisti della “nuova scena catalana”, anche quella alternativa e underground. Ne è emerso un quadro meno esaltante, perché le sovvenzioni alla cultura e i recenti contributi economici del Governo della Generalitad non soddisfano completamente le richieste degli artisti di nuovi spazi, residenze e produzioni anche se rappresentano comunque un primo significativo avvio di un processo di apertura alla sperimentazione e di promozione del teatro al quale l’Europa intera guarda con interesse.


Potete descrivere la “scena catalana” di oggi in riferimento al teatro di ricerca e nello specifico al teatro tecnologico? E’ più vivace che in altri paesi? Esiste davvero un “rinascimento catalano”?

CARLES CANELLAS Personalmente ho i miei dubbi che si possa parlare di un “rinascimento catalano”. A parte alcuni artisti, autori e gruppi molto specifici e ormai noti (dalla Fura dels Baus a Calixte Bieito, da Marcel•lí Antúnez a Sergi Belbel), il settore rimane in una siccità totale di creatività, perché non va solo ripetendo schemi, ma anche rimontando spettacoli vecchi di vent’anni, solo che ora alcune compagnie hanno un appoggio economico pubblico e privato più forte che mai. Con il nuovo governo della Generalitat (governo autonomo catalano) - passato da centro destra a un’unione di tre partiti di sinistra e centro sinistra -, l’ammontare delle sovvenzioni si è moltiplicato per tre in quattro anni (ma erano così basse che non è stato un grande sforzo!). Il lato negativo è che, come era prevedibile, i soldi non sono stati usati per triplicare la quantità di attività e sovvenzionare artisti ma per duplicare le quantità che già recepivano i grandi, i soliti….

KONIC THTR La scena spagnola e in particolare catalana è piuttosto attiva in questo momento nel campo del teatro sperimentale. Noi lavoriamo in un contesto molto specifico che riguarda la creazione collegata con il teatro e le nuove tecnologie. In questo genere di manifestazioni artistiche la Spagna ha però una storia più recente se comparata con altri paesi europei come la Germania, l’Austria, l’Inghilterra o l’Olanda. Al tempo stesso, questa tendenza artistica si è radicata fortemente ed è presente nelle università con la creazione di master che stanno formando ogni anno giovani artisti specializzati in questi linguaggi.

MARCEL.LÌ ANTUNEZ ROCA Tanto Konic come il sottoscritto siamo compagnie con una storia piuttosto lunga che comincia negli anni Novanta a Barcellona. Abbiamo condiviso programmatori, ingegneri e probabilmente abbiamo sperimentato temi simili. Ma non siamo compagnie giovani o nuove, siamo artisti sperimentatori, pionieri con ampio curriculum. Non sono a conoscenza degli sviluppi tecnologici a Barcellona in riferimento ai gruppi ma la mia impressione è che la maggior parte della drammaturgia si interessi delle nuove tecnologie come drammaturgia dell’immagine o drammaturgia del movimento e poco di “sistematurgia” (ndt: “drammaturgia influenzata dai sistemi informatici”). Ma questa è un’opinione che deriva da una mia percezione molto particolare e può darsi che sia sbagliata. Dal punto di vista dell’appoggio istituzionale si è avuto un cambio di parametri che facilitano in un certo modo i modelli di produzione e distribuzione delle opere. Il Dipartimento di Cultura della Generalitat della Catalogna ha avuto infatti un cambio di segno rispetto al modello che avevamo in precedenza, e da appena 3 anni favorisce attraverso aiuti economici, la ricerca, la produzione e la distribuzione delle opere. Ma molto resta ancora da fare.



Quali sono i luoghi della ricerca teatrale e i festival che normalmente ospitano lavori tecnologici?

CARLES CANELLAS A Barcellona a dire il vero in questi ultimi dieci anni sono apparsi nuovi spazi “alternativi” di distinto formato che sempre in grande precarietà accolgono proposte di ogni genere, molte delle quali al di fuori dei circuiti e delle programmazioni dei teatri commerciali, come “L’antic teatre” http://www.lanticteatre.com, “la nau ivanow” http://www.nauivanow.com, “cincomonos” http://www.cincomonos.org, “almazen” http://www.almazen.net, “conservas” http://conservas.tk e altri. Ma anche spazi di creazione, vecchie fabbriche che resistono (alcune con gli artisti dentro) alla demolizione promossa dalla speculazione edilizia in atto, ma che hanno purtroppo i giorni contati eccetto in quelle dove la pressione popolare ha obbligato il Comune a tornare indietro, controllare i permessi concessi e in alcuni casi a comprare la proprietà per salvaguardare il tutto o una parte come patrimonio storico industriale. Qui possiamo trovare “hangar” http://www.hangar.org, “la escocesa” http://www.laescocesa.org.
Ma anche altri fuori Barcellona come “nau côclea” http://www.naucoclea.com
I due grandi teatri pubblici di Barcellona hanno nuovi e “giovani” direttori artistici che provengono dei vecchi circuiti “alternativi”: Sergi Belbel nel Teatre Nacional http://www.tnc.es, Àlex Rigola nel Teatre Lliure http://www.teatrelliure.com.
La grande struttura del “Mercat de les Flors” http://www.mercatflors.org è diventata uno spazio per la danza e le arti del movimento, e lo storico Teatre Romea http://www.teatreromea.com, da alcuni anni gestito da Focus, una delle più grandi produttrici di teatro commerciale e musicale (entertainment) presentava fino poco fa, per una questione d’immagine pubblica, sotto la direzione di Calixte Bieito, opere di gran formato e di avanguardia (adesso sta un po’ cambiando la sua politica artistica e di gestione).
Per quanto riguarda le sale private - sempre con forti contributi pubblici - distribuiscono produzioni di scarso interesse artistico e culturale, interpretate da attori e attrici popolari nella tv catalana. Una cosa simile succede nelle vecchie sale alternative che in realtà sono diventate teatri commerciali di piccolo formato, che come cosa straordinaria al massimo presentano drammaturghi e registi latinoamericani.
Di produzioni internazionali ne arrivano alcune, ma solo all’interno di alcuni grandi festival come il Grec a Barcellona http://www.barcelonafestival.com o il Temporada Alta a Girona http://www.temporada-alta.net.
Poi, nuovi festival ma roba da poco. Solo noterei che il Festival Grec, organizzato dal comune di Barcellona, ha un nuovo direttore artistico, Ricardo Szwarzer, argentino di Buenos Aires residente a Londra, che porta con sé una grande esperienza teatrale (ex Direttore del Teatro Colon di Buenos Aires) e di nuove tendenze sceniche. Dopo un primo anno di transizione staremo a vedere se riuscirà a fare tutti i grandi progetti che ha in mente.
Per le compagnie ogni volta è più difficile lavorare all’estero perché i costi sono saliti molto e i Festival devono misurare molto le spese. Ma questo è un fenomeno internazionale che ci riguarda tutti. È vero però che alcuni artisti hanno l’aiuto dell’Istituto Catalano di Cultura “Ramon Llull” per i loro viaggi all’estero

KONIC THTR A Barcellona ci sono molti festival che mostrano lavori collegati con le tecnologie. I più interessanti sono: Art Futura (www.artfutura.org/v2/) e il Festival IDN (Festival International of Dance and New Media) organizzato da NU2 (www.nu2s.org/idn/).

MARCEL.LÌ ANTUNEZ ROCA La situazione della regione catalana, in particolare della città di Barcellona, contrariamente alla tendenza in atto di fornire supporti economici, oggi è poco dotata di spazi per una drammaturgia diversa, ha buoni teatri per la prosa in catalano e buoni spazi per la danza e la drammaturgia del movimento. Non c’è uno spazio però dove si mostrano regolarmente i lavori delle compagnie. Ci stiamo organizzando per risolvere questo problema. Il festival NEO di Barcellona puntava su questo tipo di drammaturgia ma non è certo che possa proseguire. Qualche festival e alcuni spazi programmano occasionalmente spettacoli tecnologici come Art Futura, talvolta SONAR e l’Escorxador Teatre della città di Lerida, etc. Sonar è un evento chiaramente commerciale legato alla musica techno con una sezione di Media Art, ma con un interesse quasi nullo per la sistematurgia e la drammaturgia tecnologica. Altri spazi di produzione: sono Hangar (www.hangar.org) e CASM (www.centredartsantamonica.net). Lo spazio di creazione l’Animal (www.lanimal.org) a L’Esquena mostra una certa sensibilità al tema. In ogni caso il panorama non è molto positivo.



Avete un luogo stabile a Barcellona per fare sperimentazione e dialogare con altri artisti?

KONIC THTR Noi non abbiamo un posto stabile dove sviluppare i nostri lavori a Barcellona, e questo è un problema serio specie quando lavori con la tecnologia perché significa che dobbiamo portarci in giro materiali e settare equipaggiamenti tecnologici molto delicati tutte le volte che lavoriamo a una nuova opera, a un nuovo allestimento; questo è un problema per la maggior parte degli artisti che lavorano in questa città e che porta ognuno di noi ad andare in giro a cercare residenze in diversi spazi di produzione intorno alla città e anche fuori, in luoghi internazionali. Per noi è un problema in più proprio perché abbiamo deciso di fare ricerca, sviluppo e innovazione come produttori indipendenti quali di fatto siamo, volendo portare nuovi linguaggi sulla scena contemporanea. Questo implica una costante negoziazione con le amministrazioni pubbliche, che non sembrano vedere il contributo culturale che questo tipo di progetti può portare e si assumono ben pochi rischi.
Il nostro progetto di ricerca ‘The Augmented Stage’ (ndt: “tecnologie per il trattamento in tempo reale di informazioni multimediali e per la mediazione tra performer e computer”) ha il supporto della Regione della Catalogna, e ci permette di aprire nuove linee di intervento nella sperimentazione dei linguaggi interattivi, integrando nei lavori vita artificiale e sviluppo di programmi in collaborazione con Spanish Higher Council for Scientific Research, the Research Institute in Artificial Intelligence of the Universidad Autonoma di Barcellona. E’ all’interno di questa ricerca che viene sviluppato il nostro più recente spettacolo Nou_ID sebbene inizialmente fosse legato al progetto di installazione interattiva “multi user” dal titolo e_motive, mostrata come parte del progetto arte e scienza alla Galleria Metronom di Barcellona. Dal 2004 però abbiamo un collegamento diretto con il centro di creazione L’Animal a l’Esquena in Celrá (Catalogna), come artisti in residenza, dove possiamo fare ricerca e laboratori di creazione. In questo momento stiamo partecipando come artisti invitati, al progetto intereuropeo triennale chiamato Absent Interface (2007-2010). Abbiamo poi stabilito relazioni di collaborazione con varie università catalane per sviluppare porzioni di lavoro e processi di ricerca in cui siamo coinvolti.

MARCEL.LÌ ANTUNEZ ROCA Ho la mia famiglia a Barcellona e il mio studio, Barcelona è una easy city per molti aspetti, ma troppo turistica per altri. C’è una tendenza come in tutta Europa del resto a compiacere un pubblico borghese e a difendere il politically correct, la nuova religione della cultura europea. Io ho qua la mia équipe, lavoro nel mio studio e cerco di mostrare il mio lavoro in forma globale, in tutto il mondo. Certamente Barcellona ha una buona comunicazione grazie al turismo e un certo orgoglio di città del popolo (Catalogna), il clima è migliore di Parigi e Londra ma non è affatto la Mecca della tecnologia. D’altra parte, che senso ha enfatizzare gli aspetti locali quando ci sono reti come Internet?



Esiste un network o una piattaforma collaborativa per le produzioni indipendenti?

KONIC THTR La Catalogna è una regione dove l’associazionismo è molto forte e ci sono network emergenti sia a Barcelona che in tutta la Catalogna che stanno cercando di dare maggior spazio a nuove forme artistiche di espressione che riguardino ricerche nelle arti e nelle forme non convenzionali di arte scenica dal vivo. Speriamo di poter fare pressione sui politici per un cambiamento della situazione e per dare condizioni di lavoro migliori agli artisti.

MARCEL.LÌ ANTUNEZ ROCA Da poco è stata creata l’associazione di artisti di scena che dovrebbe riunire tutte le proposte di scena tecnologica, di movimento, dell’immagine, ma è ancora in fase di definizione.

Quali pensate che siano attualmente le esperienze più significative nel campo delle arti elettroniche e del teatro tecnologico?

KONIC THTR Marce.lì Antunez, Sergi Jordà anche se sono pochi i coreografi che hanno sede stabile qua; potrei citarti alcuni artisti: Cesc Gelabert, Toni Mirà, Angels Margarit che svolgono progetti in collaborazione con artisti interattivi; è un cambiamento non così rapido perché il valore del testo nel teatro catalano è molto forte e quindi le convenzioni teatrali impediscono una rapida evoluzione.

MARCEL.LÌ ANTUNEZ ROCA Ecco un elenco: Marcel•lí Antúnez Roca www.marceliantunez.com), Antoni Abat (www.zexe.net), Konic Thtr (http://koniclab.info/), Reac Table/Sergi Jorda (www.iua.upf.es/~sergi/), Alain Wergifosse (www.experimentaclub.com/data/alain_wergifosse). Questi i collettivi di artisti che usano la tecnologia in forma preponderante: Straddle (http://straddle3.net/), Telenoika, (www.telenoika.net), Riereta (http://riereta.net/tiki2007/tiki-index.php). (quadratino nero)

Carles Canellas, nato a Barcellona nel 1954, è considerato dalla critica europea uno dei protagonisti del Teatre de Marionetes i Titelles catalano contemporaneo, ovvero il teatro di marionette e burattini. Nella sua carriera ha partecipato a più di 200 festival e rassegne di teatro distribuite per 12 paesi in 3 continenti. Figlio di un fabbro, allievo di Harry Vernon Tozer, il più famoso marionettista anglo-catalano, Canellas è stato il fondatore del Col.lectiu d’animaciò nel 1978 e dello storico gruppo Els Rocamora, e ha aderito al progetto di fondazione del Circ Cric – che raccoglieva i migliori artisti circensi e di strada di Barcellona. Uno dei più richiesti “virtuosi” delle marionette leggere a filo, oggi insegnante alla Scuola d’arte drammatica, Carles Canellas è stato un rinnovatore del genere: membro attivo del Movimento dei Titellaires indipendentes dalla metà degli anni Settanta ha sostenuto una battaglia - in parte vinta grazie anche alla costituzione di una rete nazionale, l’UNIMA - per il riconoscimento artistico del teatro di animazione. Info: www.rocamorateatre.com

Fondato nel 1985 da Rosa Sanchez e Alain Baumann, Konic Thr si è specializzato in progetti artistici che uniscono tecnologia interattiva, multimedia, musica, danza e teatro. Sono di Barcellona e sono considerati dei pionieri dell’arte interattiva, tra i primi sperimentatori per esempio dei sistemi di motion capture in teatro applicati a elaborate coreografie. Artisti residenti nei maggiori centri di creazione internazionale, hanno presentato i loro lavori all’Ircam e al Centre Pompidou di Parigi, a Madrid, Barcellona, Bilbao, Glasgow, Città del Messico coinvolgendo Università, Politecnici e Centri di ricerca sull’Intelligenza Artificiale. Il loro ultimo spettacolo NOU I_D sui luoghi a margine della cosiddetta “surmodernità” costruito a partire dal software per il riconoscimento vocale e gestuale dei performer di loro concezione Terra I Vida, ha avuto un’unica data italiana, nel novembre scorso a Catania, nell’ambito di Cultania Festival. Lo sviluppo del software Terra I Vida emerge nell’ambito del progetto di ricerca The Augmented Stage che Kònic Thtr ha intrapreso durante il 2006 al medialab di Metrònom a Barcelona in collaborazione con Martí Sánchez Fibla, ricercatore allo Spanish Higher Council for Scientific Research. Info: http://koniclab.info

Nato a Majà in Spagna nel 1959, co-fondatore e coordinatore artistico dal 1979 al 1989 della Fura del Baus, gruppo di teatro di “rianimazione” catalano, con cui ha presentato le macro-performance Accions (1984), Soz/O/Suz (1985) e Tier Mon (1988), Marcel.lì Antunez Roca ha creato installazioni robotiche e performance “mecatroniche” (la mecatronica è “una disciplina integrata che utilizza le tecnologie meccaniche, elettroniche e le tecnologie informatiche”). Il corpo “in-macchinato” è al centro del suo lavoro artistico, da Epizoo a Requiem a Afasia (1998) e Pol fino all’ultimo spettacolo Transspermia (2004) e alla conferenza-dimostrativa Protomembrana (2006). L’interesse per la robotica e la biologia si traduce sia in interfacce corporali (dresskeleton) che permettono al performer di controllare con il movimento suoni e immagini e robot musicali, sia in installazioni interattive che provocano il pubblico ad intervenire sul corpo dell’artista, e infine in biosculture. Ha appena terminato un film sulla sua lunga attività tecnoartistica dal titolo El Dibuixant (Il disegnatore). Info: www.marceliantunez.com


 



SPECIALE ELEZIONI 2011

La cultura e lo spettacolo nei programmi elettorali

LE CITTA'
Milano: il "metodo Pisapia" e le "cose fatte" della Moratti
Torino: Piero contro Michele
Ravenna: Capitale della Cultura 2019?
Cosenza: la differenza tra destra e sinistra
Napoli: (soprav)vivere di cultura?
Bologna: come rilanciare il "marchio Bologna"?
Trieste: marketing territoriale o ambizioni da capitale della cultura?
Cagliari: Massimo contro Massimo
Reggio Calabria: investimenti o fare sistema
Catanzaro: il più giovane candidato sindaco di un capoluogo di provincia
Siena: una capitale per Rozzi e Rinnovati
Varese: tra gruzzolo e patrimonio
Considerazioni finali e provvisorie