[ateatro]
[Associazione Culturale Ateatro]
[ate@tropedia]
[l'archivio]
[cerca nel sito]
[contatti]
 
 
Gli speciali di www.ateatro.it
[Le Buone Pratiche 2012]
[Un teatrino dell'Io]

ISSN 2279-9184

LO SPECIALE DI ATEATRO SULLO SCIOGLIMENTO DELL'ETI

Lo scioglimento dell’ETI
Uno speciale di www.ateatro.it
di Redazione ateatro


 
C'è ancora bisogno dell'ETI
E che cosa potrebbe fare per il teatro italiano
di Marco Martinelli


 
Ecco perché devo anche difendere l'ETI
Capire e non capire
di Marco Cavalcoli


 
Cosa resterà dell’Eti?
Tra storia e futuro
di Andrea Porcheddu


 
Aree disagiate: la buona pratica di Primavera dei Teatri
All’Osteria della Torre Infame
di Saverio La Ruina


 
Perché?
E cosa succederà ora che 'ETI non c'è più?
di Giovanna Marinelli


 
Il silenzio del teatro italiano
Prima e dopo la dismissione
di Fioravante Cozzaglio


 

 

Lo scioglimento dell’ETI
Uno speciale di www.ateatro.it
di Redazione ateatro

 

L’ETI non c’è più. E sembra che l'abbiano già dimenticato tutti (salvo quelli che continuano a portare avanti i suoi progetti)...
Quando si discuteva della cancellazione dell’ente, e la mobilitazione per difenderlo era al culmine, www.ateatro.it ne aveva parlato in un intervento che – lo sappiamo – è stato assai letto e discusso.
Sono passati alcuni mesi. Dopo le grida sulla vicenda è sceso un silenzio pressoché totale (tra le rare eccezioni, l’intervento di Anna Bandettini nel blog Post Teatro).
Ne frattempo, avevamo cercato di sollecitare una riflessione sulla vicenda, conun breve apputo (che potete leggere qui sotto) e sollecitando alcuni interventi.
I primi li trovate qui sotto, altri li pubblicheremo nei prossimi giorni. E come sempre, lo spazio di www.ateatro.it e la sua pagina Facebook sono a disposizione per altre voci e altre opinioni.



Dopo l’ETI: alcune riflessioni

Le funzioni storiche originarie dell'ETI (la distribuzione e la gestione dei teatri), che hanno fatto dell'ente fino agli anni Settanta inoltrati uno strumento funzionale al complesso del teatro "di giro", si sono trasformate parzialmente con la riforma del '79, che ha imposto collegamenti più stretti con il territorio e introdotto funzioni di coordinamento (mai ben precisate) e promozionali. Con il tempo, il concetto di promozione è stato interpretato e attuato con criteri molto diversi dalle gestioni che si sono succedute, ma indubbiamente -soprattutto nel periodo del commissariamento con Giovanna Marinelli e Renzo Tian - si è inaugurata (e con il tempo precisata) un linea innovativa di intervento a favore del teatro ragazzi e di ricerca, e in parallelo un'attenzione alle aree disagiate, che è stata importante per questi settori, pur mantenendo un peso economico decisamente irrisorio nel complesso del bilancio dell'Ente. Lo hanno confermato i numerosi messaggi di solidarietà pervenuti all'ETI nelle ultime settimane.
Le ultime riforme e gli atti di indirizzo - che non hanno mai modificato, ma a contrario hanno forse accentuato lo stretto collegamento fra l'Ente e il ministero - sembravano valorizzare in particolare la funzione internazionale, il sostegno alla danza e introducevano in statuto la possibilità (che è poi diventata il punto programmatico principale della direzione Cutaia, presidente Ferrazza): dismettere i teatri di proprietà dell’ETI (Quirino, Pergola, Duse, potenzialmente anche il Valle).
L'operazione, andata in porto solo per il Quirino (affidato per bando a gestione privata), si è rivelata più complessa di quanto si potesse prevedere per Pergola e Duse: i problemi del personale, la funzione di questi spazi nei sistemi cittadini, soprattutto i costi... Da canto loro, in questi due anni gli enti locali (a cominciare dalle regioni) non si sono dimostrati entusiasti all'idea di assumersi gli oneri, oltre che gli eventuali onori, di quei gloriosi teatri.
Nel nostro articolo del 1° giugno - profetizzando un salvataggio in extremis - non avevamo forse analizzato a fondo il significato dell’espressione "dismissione dei teatri": ma questa scelta è stata forse il primo atto nella direzione della soppressione dell'ETI. Non è infatti mai stato chiaro come, dove e se si sarebbero spostate le risorse (se non verso una sempre più vaga funzione di promozione). E non si è neppure avviata la costruzione (in teoria e nei fatti) di una funzione alternativa forte, che avrebbe dovuto procedere di pari passo alla dismissione dei teatri ETI. La perdita progressiva della funzione distributiva, e in prospettiva anche dei suoi teatri, ha reso del resto l'ETI progressivamente sempre meno "utile" al teatro "di giro".
In questi termini, la soppressione dell'ENTE è stata in fondo solo un modo per accelerare un processo in corso, non ineluttabile ma già prevedibile.
Questo non sarebbe stato possibile se non si fosse raggiunto il punto più basso di "popolarità" del teatro (e in generale della cultura) presso la classe politica; se il rapporto costi/personale-ricavi non fosse stato discutibile; se sciogliere un ente di stato non fosse una efficace mossa demagogica; e se infine non regnasse al ministero una dirigenza sufficientemente presuntuosa e megalomane da pensare di poter fare tutto da sola: insomma, quello attuale pare un "ministero impresario", che per la prima volta dal dopoguerra pensa di poter fare a meno del suo braccio esecutivo.
Ora ci dicono che - mentre i funzionari gestiscono la rottamazione - il Ministero non solo assorbirà il personale dell’ETI (e cercherà di smistarlo), ma sarà direttamente titolare di contratti, rilascerà fatture eccetera, per portare a termine gli impegni già assunti (vedi il sito www.enteteatrale.it) e per i servizi (nazionali e internazionali) più o meno piccoli che l'ente svolgeva.
Solo per il Duse per ora si prefigura un passaggio di gestione (ERT e Arena), ma c'è da supporre che altri premi o manifestazioni minori potranno essere affidati in gestione a soggetti esterni.
Come www.ateatro.it cercheremo di capire meglio questi aspetti, sul versante sia sindacali, sia gestionali, sia economici. Ma abbiamo una certezza: il "risparmio" sarà irrilevante. Anzi, più che un risparmio si tratterà di uno spostamento di oneri fra Stato ed enti o organismi incaricati: l’ETI continuerà a pesare sul FUS per 7.500,00 €.
Ma oggi dobbiamo porci qualche altra domanda.
Il teatro italiano aveva (e ha ancora) la necessità di elaborare e di attuare a livello nazionale politiche di promozione delle fasce "deboli" del teatro, di formazione del pubblico, di equilibrio e perequazione, di innovazione, di documentazione, di relazione internazionale? Esiste una necessità di coordinamento operativo delle politiche regionali?
Se sì, serve un "nuovo" ETI? Va ridisegnato un organismo nazionale, precisando meglio le sue funzioni? E come?
Il progetto Carlucci, di cui si continua a parlare come della probabile/possibile futura legge, per quanto l'onorevole si sia espressa a favore dello scioglimento, prevede l'ETI.

Leggi gli interventi di

Marco Martinelli

Andrea Porcheddu

Marco Cavalcoli

Saverio La Ruina

Giovanna Marinelli

Fioravante Cozzaglio

Il poderoso dossier ETI di www.ateatro.it.

 


 

C'è ancora bisogno dell'ETI
E che cosa potrebbe fare per il teatro italiano
di Marco Martinelli

 

Carissimi Mimma e Oliviero
mi prendete in un momento in cui non il tempo di pensare-scrivere un intervento elaborato (mi aspetta il debutto ai primi di ottobre del Detto Molière, versione italiana), e quindi posso rispondervi solo con questa letterina per affermare molto schematicamente che:

1. Dell'ETI penso che ci sia bisogno ancora. Intendo di un ente che abbia soprattutto un ruolo propulsore sul piano internazionale del nostro miglior teatro. Quello che l'ETI soprattutto della gestione Marinelli aveva fatto in sintonia con L'ONDA francese, e che poi (in anni più difficili) anche Cutaia ha continuato con tenacia.

2. Ma anche sul piano nazionale l'ETI ha costruito progetti (si pensi all'ultimo, quello dei Teatri del tesente, raccontato nel bel libro di Andrea Nanni per Editoria e Spettacolo) in cui ha messo in relazione istituzioni e giovani gruppi, quasi "costringendo" le prime ("costringendo" con l'intelligenza della persuasione culturale e dell'appoggio economico) a farsi carico e a investire su alcune realtà nascenti del sempre ricco panorama teatrale italiano. (Che, detto tra parentesi, continua a sorprenderci, perchè non c'è marmellata o fango televiso-mediatico-politico che possano spegnere le nuove ondate, la necessità di teatro delle nuove generazioni). In questo senso ha agito e potrebbe continuare a farlo come un mecenate pubblico, come un principe illuminato.

3. Ancor più potrebbe un nuovo ETI sviluppare importanti momenti di confronto a livello nazionale (chiamando a raccolta non solo teatranti, ma antropologi, filosofi, scrittori), per aiutare la miglior scena italiana a raccontarsi e a trovare sintonie e complicità con altri settori della cultura italiana, malata di separatezze, per cui si conosce solo chi opera all'interno della propria "nicchia" di "addetti ai lavori".

4. Altrettanto chiaro mi pare è ciò che tale nuovo Ente NON dovrebbe più essere: un "carrozzone parastatale (e sprecone)", come l'avete giustamente definito. Un Ente agile, quindi, che potrebbe avere anche un solo teatro in gestione (e mi pare fosse proprio questo il piano di Cutaia). Il Valle sarebbe perfetto, anche sul piano simbolico, pensato come un luogo di eccellenza della cultura teatrale, come punto di incrocio alto tra la scena nazionale e quella internazionale: in questo senso vanno le "monografie" già allestite nelle ultime stagioni, in questo senso si potrebbe lavorare anche in futuro.

5. E per finire un punto che è una domanda, una domanda a cui è difficile dare risposta: chi dovrebbe nominare il direttore di un nuovo ETI? I politici, se l'Ente è di Stato, così vorrebbe la logica "democratica". Ma qui la domanda ne genera un'altra, in un domino che poi è difficile fermare: chi ci garantisce che i politici siano davvero "democratici" e autentici appassionati di teatro?

Un abbraccio e buon lavoro, "buone pratiche"

Marco
 


 

Ecco perché devo anche difendere l'ETI
Capire e non capire
di Marco Cavalcoli

 

Alcuni anni fa, durante una chiacchierata milanese sui problemi nostri e di tutto il teatro italiano, Oliviero Ponte di Pino affermò che una parte preponderante di responsabilità per ciò che stava accadendo era da imputarsi agli assessori alla cultura provenienti dai quadri del vecchio PCI.
Mi sembrò un'affermazione un po' esagerata, non capivo come questo elemento potesse venire considerato un nocciolo del problema e ho continuato a non capirlo per molti anni. All'indomani della larga vittoria della coalizione di centrodestra nelle elezioni del 2001 si era prodotto un effetto di diffuso e immediato panico tra gli operatori teatrali italiani, ancora non era stato nominato il Ministro della Cultura che già si notava un cambiamento sostanziale nelle risposte alle telefonate promozionali che si facevano, pareva che tutti avessero improvvisamente tirato il freno a mano.
I tagli veri sarebbero arrivati solo dopo una decina d'anni, cioè oggi, le cattive politiche invece cominciarono subito, balzò agli occhi in particolare la trasformazione dell'ETI in una scatola opaca (c'era materia su cui appoggiarsi, va detto) di cui non solo non si capivano, ma nemmeno si vedevano le scelte e gli indirizzi. Ricordo un anno in cui si parlava pubblicamente della impossibilità di esaminare i conti dell'ETI, perché l'Ente non produceva il bilancio. In quel 2001 Fanny & Alexander aveva concluso una fortunata tournée italiana, resa possibile soprattutto dal sostegno, guarda un po', dell'ETI. Ma cominciarono i guai dall'anno dopo, una paralisi talmente seria da spingerci a scrivere una lettera aperta al teatro italiano in cui denunciavamo l'ipocrisia culturale con cui si imputavano sempre e solo al “governo ladro” scelte che escludevano dalla programmazione una fetta importante del teatro contemporaneo. Cominciavamo, insieme agli altri gruppi rivelatisi negli anni '90, ad apparire sui giornali e nelle conversazioni in qualche modo come esempi negativi.
Cosa stava succedendo? In quegli anni si stava affacciando una generazione di artisti che portava una rinnovata attenzione al teatro di regia e alla narrazione, misurandosi con la categoria del realismo, in uno di quei benefici ricambi che la vitalità del nostro teatro ciclicamente produce. Accade anche adesso che un'ondata di giovani stia indicando le forme possibili di un teatro dell'oggi, con la stessa immediatezza che tutte le nuove ondate sono capaci di incarnare, ce ne si può fare un'idea leggendo quanto ha scritto Ponte di Pino sul teatro 2.0 visto quest'estate a Santarcangelo, o nei diversi interventi che Renato Palazzi ha dedicato ultimamente ai nuovi gruppi. Ma una costante generale dei rinnovamenti negli ultimi trent'anni è stata l'attenuazione progressiva della rivendicazione polemica contro il teatro esistente, sempre più lontano dal vecchio “teatro borghese”, a favore di una dialettica rivitalizzante interna allo sviluppo della scena contemporanea, senza mostrare ostilità verso i padri o i fratelli. L'inter-generazionalità è anzi diventata l'emblema e la prova tangibile del successo culturale delle avanguardie, sfuggite al destino della sola testimonianza storica e oggi additabili come fautrici di una rivoluzione artistica che ha seminato tracce durature. Invece in quei primi anni duemila è sembrata venire alla luce, contemporaneamente ad una nuova schiera di artisti, anche l'esigenza di mettere polemicamente da parte un pezzo di teatro esistente, che veniva spesso definito estetizzante e autoreferenziale, avulso in generale dalla società.
Non so se questa tentata riedizione di una prova di egemonia culturale neorealista abbia incontrato le aspettative dei quadri dirigenti o eterodiretti che l'hanno promossa e cavalcata, a giudicarne l'influenza nella società attuale sembrerebbe di no. Ma ha avuto perlomeno il pregio di illustrare plasticamente una realtà italiana ampiamente nota, seppur sovente rimossa, ovvero la dipendenza del sistema culturale dalla politica e dagli assessori, ne ha evidenziato un aspetto più profondo dell'abituale dialogo tra garanti e garantiti: il legame organico depositato nella coscienza del nostro Paese tra aree culturali e aree politiche. Un legame che negli altri Paesi europei, anche quelli per certi versi molto simili all'Italia come il Belgio, anche nelle parole di persone politicamente ben schierate, è semplicemente una bestemmia. Questo riflesso automatico che si è prodotto nel teatro italiano di fronte alla minaccia di un governo ostile è stato ai miei occhi una straordinaria manifestazione di debolezza, ampiamente esibita e promossa dagli “assessori alla cultura provenienti dai quadri del vecchio PCI”.
Sempre in quegli anni vi furono diversi incontri di un movimento raccolto sotto la frase Nuovo Teatro Vecchie Istituzioni, culminati in una tre giorni a Castiglioncello, e da cui purtroppo non sortì molto più di un ampio dibattito. Un grand commis della defunta Democrazia Cristiana come il direttore del CRT di Milano per ben due volte intervenne nei dibattiti proponendo lo sganciamento del sistema culturale dalla politica attraverso la creazione di un ente indipendente, sulla traccia degli Arts Council britannici. Probabilmente non ne fu creduta la buona fede, sicuramente in molti pensarono “da che pulpito!”. Di fatto la proposta, che in sé non era peregrina, cadde nel vuoto cosmico.
L'ETI era certamente un carrozzone di Stato con tutte le contraddizioni e i difetti che ateatro ha già messo più volte in luce. Ma per molti di noi era soprattutto il volto e il lavoro di Anna, Barbara, Donatella, Bruno, Marilisa, Ninni e tutte quelle persone che avrebbero saputo, se solo avessero potuto, trasformarne le politiche e liberarne le risorse. Hanno abbattuto l'ETI e non è volata una mosca. Al suo posto non c'è un'organizzazione diversa più efficiente o desiderabile, ma il niente, e il silenzio rassegnato con cui la scomparsa è stata salutata è l'emblema della nostra autoindotta impotenza, che si aggiunge e non sostituisce l'impotenza che ci viene rovesciata addosso dalla gravità delle cose.
Dopo che gli Istituti Italiani di Cultura sono stati trasformati in una succursale poco convincente del commercio estero (ma è stato abolito del resto anche il Ministero del commercio internazionale), la scomparsa dell'ETI colpisce la possibilità di creare una minima politica di coordinamento e di supporto per l'esportazione del nostro teatro nel mondo, e non è un dettaglio. Ancora di più, il destino degli artisti italiani sarà legato ai rapporti personali che ciascuno saprà intessere con i garanti politici di riferimento. La soppressione dell'Ente, oltre che grave in sé, per le modalità con cui è stata fatta ed accolta ha dato a chi ci governa un'ulteriore rassicurazione sulla propria licenza di uccidere.
Se domani dovessero portare a zero i sussidi pubblici bisognerà sperare nella sollevazione di Riccardo Muti e Luca Barbareschi (Baricco sappiamo già come la pensa...), perché fintanto che il mondo culturale italiano non conquisterà autonomia di movimento nella società non avrà alcuna voce in capitolo. Non dobbiamo parlare ai politici per convincere... il PD. Dovremmo convincere il popolo italiano.




 


 

Cosa resterà dell’Eti?
Tra storia e futuro
di Andrea Porcheddu

 


Parlandone da vivo, l’Ente ha segnato – nel bene e nel male – cinquanta anni di teatro italiano. Impossibile, prima o poi, non porlo al centro di una riflessione sana, scevra da polemiche immediate, in una prospettiva già storicizzata: una riflessione che dovrà essere fatta. Per quel che mi riguarda, mi limito ora solo a alcune considerazioni, personalissime e come tali assolutamente opinabili. Trovo assolutamente meritevole l’iniziativa di Ponte di Pino e Gallina, che ringrazio, nel voler avviare questa analisi sull’Eti, partendo dal dato più recente e eclatante: la chiususa. Brusca nei modi e nei fatti, senza possibilità d’appello. Una chiusura che lascia però ancora ombre e misteri: per le modalità, certo ma anche e soprattutto per le prospettive. Possibile che nessuno si fosse accorto di niente? Che nessuno avesse avuto sentore della chiusura? Come un’orchestrina del Titanic si continuava a suonare nell’imminenza del naufragio? Possibile che un governo possa “avocare” a sé progetti, mandati, iniziative, personale, di un ente con cinquanta anni di vita senza un minimo di contestualizzazione e progettazione? Possibile che l’unico “ente inutile” dei tanti italiani, davvero chiuso sotto la scure di Tremonti sia stato l’Eti? Non sarebbe stato ipotizzabile, e forse più saggio, programmare una dismissione intelligente, pensata entro, che so, un anno? Certo, l’Eti costava tanto, troppo, e ancora costa: visto che, se ho capito bene, oggi è il Fus a pagare gli “ex” dipendenti e i progetti avviati, quindi togliendo risorse al già ridicolo Fondo Unico.
Che l’Eti andasse “riformato” si sapeva da anni, forse da sempre: dopo un lunghissimo (quasi incredibile) periodo di commissariamento, era tornato ad una attività ordinaria, che sembrava però sfuggire a una prospettiva di senso. Prendere come modello l’Onda francese, agenzia snellissima e vivacissima, sembrava paradossale, come cercare di trasformare un Tir in una moto Ducati. Il problema, allo stato dei fatti, è che pur riaffermando l’innegabile e sincera solidarietà per quanti dentro l’Eti lavorano (o hanno lavorato) con passione e competenza, quell’Ente là – con quell’aria elefantiaca, con l’imprimatur perenne di Carmelo Rocca, con quelle pastoiette da sottobosco politico e piccoli cabotaggi, con quelle eccessive spese di (auto)mantenimento – era indifendibile. E se pure si avvertivano segni intriganti (per citarne alcuni: le monografie al Valle, le aperture all’Estero, i piccoli passi di danza) l’impressione generale era di una costante e desolante “invenzione sprecata”.
Cosa fa (o meglio: cosa doveva fare) l’Eti?
Sembrava prioritaria – e siamo già in epoche recentissime – la rinuncia ai teatri direttamente gestiti: quel gioiello del Valle, a Roma; l’incredibile e maestosa Pergola a Firenze; il complicato Duse a Bologna e il Quirino – salone dell’Inps – che è stato l’unico dato in affidamento, dopo gara “europea”, al Teatro Stabile di Calabria e dove è approdata, come organizzatrice, quella Giovanna Marinelli che ha tenuto saldo il timone dell’Eti per molte stagioni.
Dunque si doveva rinunciare, questa era l’ipotesi prima di riforma, alla programmazione.
Io ho avuto il piacere e l’onore di collaborare con l’Eti, già dal 1992 e per alcuni anni, nella realizzazione di un giornale (Etinforma) e in altre iniziative editoriali. E ricordo con affetto la passione di Mauro Carbonoli, allora DG, nel programmare i “suoi” teatri. Era quasi una visione “all’antica italiana” – burbera e diretta – da tournée lunghe e scavalcamontagne, da capocomicato e piazze, che faceva macinare chilometri e recite. Una cosa era certa: alle nove si andava in scena, ovunque. Già allora si faceva altro: i primi spettacoli internazionali (con Donatella Ferrante), la ricerca, il teatro ragazzi
Però al centro di tutto era proprio la programmazione. Che non poteva più bastare, perché il mondo teatrale stava andando altrove. E allora si imposero, come ricettori e trasmettitori di senso, i nuovi “progetti”: ecco l’altra parola magica. L’Eti si doveva aprire al mondo, guardare a un teatro non più e non solo “tradizionale”, si doveva snellire e avviare sulla strada di progettualità ricche di contenuti. Ricordo il lavoro militante, instancabile di Ilaria Fabbri, o gli slanci dell’allora giovane dirigente Ninni Cutaia o della stessa Marinelli non ancora DG.
E dunque, per nominare solo alcune iniziative, vado a memoria, le “aree disagiate”, l’apertura del Valle al teatro contemporaneo, i giovani, etc. Ricordo, ad esempio, come un bellissimo segno simbolico, quando riuscimmo a pubblicare, su Etinforma, un articolo di Iben Nagen Rassmussen o un’intervista a Leo de Berardinis, approdato con strascichi di polemiche e perplessità, per la prima volta alla Pergola. Insomma, un altro teatro era possibile, e l’Eti non solo se n’era accorto, ma lo incoraggiava. Cambiarono gestioni e commissari, ma la linea non mutò.
Il tutto, però, condito da una parola d’ordine che già iniziava a circolare: “impresa”. Forse varrebbe la pena riflettere anche su questo: quanto l’Eti si sia fatto portavoce e amplificatore della “prospettiva aziendale”, ponendo al centro delle future trasformazioni delle “ditte” teatrali il diktat del Marketing, creando indirettamente falsi miti e prospettive alla lunga rivelatesi deleterie. Il mercato salva tutto? Non è stato così, né in teatro né nella società cosiddetta “civile”.
Detto questo, ci troviamo di fronte al reale: ossia al Governo Berlusconi, alla “politica culturale” di Bondi (non è ironico: c’è una precisa politica culturale). Insomma: assistiamo alla sconfitta concreta di 2500 anni di teatro politico, che a nulla sono serviti rispetto a 25 anni di Mediaset. È vero, i teatri italiani sono pieni, c’è un pubblico attento e vivo, ci sono tanti giovani che fanno teatro, tante nuove realtà si aprono ogni anno. Ma l’imbarbarimento italiano, la perdita di (buon) gusto, l’offuscarsi di parole chiave come solidarità o uguaglianza, la progressiva povertà di gran parte della popolazione, la rinuncia a tutto ciò che è riflessione critica, il razzismo, la violenza, il clericalismo, il bigottismo, sono segni concreti di un fatto. Chi – compresi noi “intellettuali militanti” – doveva fare “cultura”, chi doveva formare i nuovi cittadini, chi doveva assicurare una società libera e consapevole, ha perso. Se l’Eti, tra i suoi compiti, aveva quello della promozione e della diffusione della cultura teatrale, in cinquanta anni ha raggiunto solo in parte – in minima, minuscola, parte – il proprio obiettivo. Perché c’è sempre, nonostante tutto, l’impressione che tutto ciò che è vivo, combattivo, vero, sia (stato) lontano, marginale, periferico rispetto alla centralità dell’Eti?
Siamo ormai, ci racconta bene Goffredo Fofi, una minoranza. Ma come tale possiamo e dobbiamo comportaci: tornare a agire, ricominciare a agire. Nel microcosmo del contemporaneo, magari. E anche senza i grandi moloch. Allora l’Eti del futuro: non so, non lo so immaginare. Quel che è certo che ora abbiamo a che fare con gli scarti, con i resti, con le macerie di un Ente che è stato annientato con un colpo di penna. Lo scarto è quel che resta, lo scarto è il “terzo paesaggio” teorizzato da un giardiniere come Gilles Clément: spazio periferico, spesso incolto e abbandonato, dove però fiorisce la (bio)diversità. Luoghi in cui l’attività umana, ufficiale e rigorosa, è finalmente sospesa. E questo “terzo paesaggio”, dice Clément, è naturalmente il rifugio per specie continuamente minacciate, che si possono riprodurre liberamente. Spazi da guardare con stupore. Perché spesso è proprio all’ombra dell’incolto, del non-coltivato, del non regolamentato, che si trova la libertà.
 


 

Aree disagiate: la buona pratica di Primavera dei Teatri
All’Osteria della Torre Infame
di Saverio La Ruina

 

Se si assimilasse l’ETI a un personaggio teatrale ci troveremmo di fronte a un personaggio complesso, come spesso sono i protagonisti delle piece teatrali, con i suoi lati chiari e i suoi lati oscuri. Un attore che dovesse interpretarlo dovrebbe studiarne anche il contesto generale in cui si muove in quanto ne influenza azioni e orientamenti. Per gli stessi motivi dovrebbe studiarne anche la provenienza familiare, così come ci insegna la realtà, dove i padri ne sono altrettanto se non maggiormente responsabili. Secondo questa similitudine l’ETI andrebbe letto attraverso il contesto generale in cui è (stato) inserito e attraverso i padri che ne hanno dettato l’orientamento. A questo punto verrebbe più che lecito pensare che ciò che non ha funzionato dell’ETI andrebbe addebitato esclusivamente alla cattiva politica e ai cattivi padri che ne hanno dettato gli orientamenti sbagliati. E altrettanto lecitamente verrebbe da pensare che questa equazione si ribalterebbe completamente non buttando il bambino con l’acqua sporca, rimanendo quindi senza figlio ma tenendoci i cattivi padri, ma destituendo questi ultimi dando in adozione il figlio a padri migliori. Ma così come è noto non è stato.
Dal nostro piccolo punto di vista ritengo che l’ETI abbia a volte beneficiato di padri adottivi e di un contesto generale che ne hanno dettato comportamenti corretti. E in queste felici congiunture i suoi lati chiari hanno illuminato i percorsi di alcune realtà. Uno di questi è senz’altro rappresentato dalla nostra esperienza a Castrovillari. E mi scuso se parlando della nostra perdo un po’ il generale e mi concentro sul particolare, ma è ciò che conosco meglio avendolo vissuto in prima persona.
La prima edizione di Primavera dei Teatri si è svolta nel ‘99, a seguito di un bando dell’ETI del ‘98 rivolto al teatro contemporaneo. Vinse il nostro progetto insieme ad altri due: Come una rivista di Leo de Berardinis e Cori di Gabriele Vacis. Più prevedibili le vittorie dei nostri due illustri colleghi, ma molto meno la nostra, di eminenti sconosciuti, che riguardava proprio Primavera dei Teatri. L’intervento dell’ETI, finanziato attraverso il decreto sulle aree disagiate, prevedeva una co-partecipazione economica alla realizzazione del progetto da parte degli Enti locali, nel caso specifico della Regione Calabria e del Comune di Castrovillari.
Era il periodo del commissariamento dell’ETI con Giovanna Marinelli e Renzo Tian. Nostro interlocutore principale fu Ninni Cutaia, allora se non sbaglio direttore amministrativo, che portò avanti un lavoro certosino, incontrando gli amministratori locali e coinvolgendoli nel progetto, ma anche accreditandoci efficacemente ai loro occhi. Ricordo ancora i suoi viaggi a Castrovillari. L’umiltà e l’umanità da lui messe in gioco vorrei dirli per primi, ma qui devo rimarcare soprattutto l’intelligenza con cui ha interpretato il ruolo di mediazione politica e la passione con cui ha difeso l’identità del progetto da noi elaborato. Cosa non facile visto che non riguardava i grandi nomi, ma artisti sconosciuti, a volte anche nel nostro stesso settore. Gli Enti hanno accettato e il progetto è partito.
Nel tessere la parte politica e interlocutiva in quei tre anni entusiasmanti caratterizzati dall’attuazione del decreto sulle aree disagiate, a Cutaia si è spesso affiancata Marilisa Amante, partner a dir poco preziosa nella gestione e realizzazione del progetto che entrambi hanno rispettato non entrando mai nel merito delle scelte artistiche effettuate.
Ma il loro apporto non si è fermato alla mediazione politica, all’attuazione tecnica, alla promozione del progetto. Li ricordiamo in giro per le strade del centro storico, seduti a discutere animatamente all’Osteria della Torre Infame, agli spettacoli, nelle discussioni, nei convegni, nei momenti in cui si rideva e si scherzava piacevolmente. Ricordo Ninni sotto un sole cocente di 40° scusarsi prima e mettere la testa poi sotto il getto refrigerante dell’acqua fredda di una fontana. Li ricordo con noi a “fare” clima, con noi a contribuire a quel clima festoso che dà il piacere di ritrovarsi a un’intera comunità. Senza dimenticare chi ci ha adottato e seguito da lontano prima e qualcuno a Castrovillari poi: Anna Selvi, Barbara Bandini, Bruno Palombi, e infine Donatella Ferrante. E lo stesso spirito, la stessa accoglienza ci veniva ricambiata in occasione delle nostre visite all’ETI.
Poi ci sono stati anni di limbo (per usare un eufemismo): all’ETI i padri sono cambiati, come anche il contesto nazionale, così come parallelamente sono mutati i padri e il contesto castrovillaresi. Sono seguiti anni difficili: edizioni realizzate con la sola forza della disperazione, l’edizione del 2004 perfino saltata. Poi si è andati avanti a intermittenza. Nel 2005 la ripresa grazie all’impegno di un consigliere regionale della zona: Mario Albino Gagliardi, cui si è aggiunto ancora un contributo fondamentale da parte dell’ETI direttore Giorgetti, con la sponda dell’allora consigliere d’amministrazione Luciana Libero. Poi si è continuato navigando a vista con aiuti intermittenti tra i quali è stato sempre decisivo il contributo in extremis della Regione. In un altro anno è stato determinante il ruolo di un artista chiamato a gestire per la Calabria il Patto Stato Regione: Giancarlo Cauteruccio. Da sottolineare che la quantità di risorse drenata negli anni è così esigua che non mancherebbe di stupire chiunque la rapportasse ai risultati raggiunti. Ritengo esista in Italia una miriade di situazioni virtuose che ottengono il massimo risultato con il minimo dispendio economico. Ma forse sono risultati possibili solo grazie a un enorme dispendio di energie non adeguatamente retribuito.
Nel 2009 siamo tra i vincitori del bando “Teatri del tempo presente” diramato dall’ETI. Il bando peraltro conteneva proprio quelle caratteristiche già presenti nel dna del nostro festival votato alla promozione dei giovani artisti. E anche stavolta l’ETI si è rivelato un interlocutore prezioso. Per la cronaca, il 2010 è passato faticosamente senza apporti dell’ETI “ma” con un taglio della Regione Calabria. Per l’edizione del 2011 infine prevedevamo di aprire una piccola sezione in cui accogliere delle formazioni internazionali omologhe a quelle italiane ospitate nel festival, con occasioni di scambio e confronto tra i gruppi, incontri con operatori internazionali, messa a punto di strategie di promozione dei giovani gruppi italiani all’estero. E in tal senso ci eravamo rivolti all’ETI quale Ente con un patrimonio di esperienze e competenze in ambito internazionale. Insieme stavamo progettando un percorso in cui coinvolgere anche gli Enti Locali. Ma infine, per ragioni a tutti note, questo processo si è brutalmente interrotto.
Questo è quanto, almeno dal piccolo osservatorio calabrese che a noi fa capo. Qui l’intervento dell’ETI ha rappresentato una buona pratica. Come potrei azzardare per altri luoghi. Andava riformato, riorganizzato in modo più efficiente. Andava soprattutto sganciato dall’ingerenza dei cattivi padri e della cattiva politica. Ma non soppresso!
Personalmente non faccio fatica a notare che le grandi compagnie private, anche quelle con il nome in ditta, così come gli stabili, vivono certamente un periodo di grandi difficoltà. Ma penso anche che le loro difficoltà dovrebbero trovare soluzione in un Fus degno di un Paese civile. All’ETI rifondato lascerei il compito di promuovere in Italia e all’estero i gruppi e gli artisti che portano avanti un percorso di ricerca di grande valore. Gli lascerei il compito di promuovere i giovani, i nuovi gruppi, la nuova drammaturgia (che nelle circolari annuali era ritenuta centrale e nella prassi lettera morta) . Gli chiederei di intervenire ancora più efficacemente in quei territori dove gli enti locali sono più sordi verso il teatro e la cultura in generale. Gli darei il compito da un lato di rinnovare il pubblico e dall’altro di attrarre i giovani. E sono convinto che un volano potentissimo per attrarre i giovani sarebbe proprio il teatro che l’ETI rifondato dovrebbe idealmente promuovere, perché utilizza già quei linguaggi, quei codici e quei contenuti che più corrispondono al loro gusto.
 


 

Perché?
E cosa succederà ora che 'ETI non c'è più?
di Giovanna Marinelli

 

Credo che sia utile premettere che la mia riflessione sulla soppressione dell’Eti non può non essere influenzata dai molti anni (dal 1990 al 2001) trascorsi nell’Ente, prima come dirigente e poi come direttore generale.
Non si dirige una struttura come l’ETI se non si crede fermamente che essa abbia tutte le potenzialità (professionali e di progettualità culturale) necessarie per contribuire al rinnovamento del sistema teatrale italiano. Il lavoro fatto in questi ultimi anni da parte di Ninni Cutaia è una conferma. E sicuramente Ninni si è trovato ad operare in una contingenza politica ed economica più difficile e meno favorevole, in generale, all’impegno culturale.
Fatta questa premessa, che mette chi mi legge nelle condizioni di avere più elementi di valutazione rispetto a quanto dirò, vorrei seguire un ragionamento che è prima di tutto di buon senso (in questo momento anche il buon senso è una parola ardita!).
Perché si abolisce una struttura come l’ETI?
Perché si ha un’idea diversa del sistema teatrale nel suo complesso e del ruolo che l’ETI (non) ha più rispetto al nuovo disegno.
Dunque: le forze politiche responsabili dovrebbero raccontarci questo nuovo progetto e motivare il (non) ruolo conseguente dell’ETI. Non posso pensare che il nuovo progetto sia la proposta di legge che da mesi è ferma, perché essa prevedeva la presenza dell’ETI, né posso pensare che l’ETI sia stato soppresso per disattenzione, per evitare mediazioni che avrebbero reso difficile la soppressione di altri istituti.
Questa ipotesi sarebbe offensiva per quanti a livello politico e professionale si occupano di teatro, per non parlare della dirigenza e del personale dell’Ente
L’ETI forse è stato soppresso perché costava troppo? Sono tempi difficili e i tagli alla cultura non sorprendono più nessuno. Ma credo sia giusto chiedere notizie certe sull’ammontare di questi risparmi e sulla loro destinazione. Così potremmo valutare se si tratta di cannibalismo o meno e se il cannibalismo sia stato almeno proficuo, cioè ancora una volta funzionale a un disegno vero, a una strategia di lungo respiro.
Aspetto/aspettiamo notizie in proposito. E nel frattempo...
Nel frattempo è utile ricordare – per citare solo alcuni temi – che occorre una politica di sostegno al nuovo teatro, un progetto di attenzione alle giovani generazioni, una rappresentanza vera presso le istituzioni internazionali, una azione (non improvvisabile) di sostegno alla circuitazione internazionale del teatro italiano, una proposta di programmazione diversa da quella giustamente commerciale di tante strutture teatrali private ( e pubbliche).
Queste azioni che erano proprie dell’ETI saranno svolte da altri enti? Direttamente il MIBAC? …o tutto sarà rimesso all’iniziativa individuale, alla cosiddetta “plasticità” del sistema, che tende a riempire i vuoti per necessità e per passione, ma continua anche a disperdersi e a disperdere energie.
In tempi così difficile il vero risparmio nasce dal coordinamento delle risorse, dalla condivisione delle azioni, dall’esistenza di punti di riferimento con cui confrontarsi anche dialetticamente, da una vera governace di perequazione.
Aspetto/aspettiamo notizie in proposito.

Roma, 23 settembre
 


 

Il silenzio del teatro italiano
Prima e dopo la dismissione
di Fioravante Cozzaglio

 

Anch’io, come molti di noi, pensavo che alla fine l’Eti ce l’avrebbe fatta, soprattutto perché in Italia le riforme avvengono per sovrapposizione di enti, persone, funzioni, quasi mai azzerando la situazione e ricostruendo sul pulito. Quindi sono tra quelli che avevano mal giudicato la situazione.
Provo ora a interpretare la conseguenza di questo stato di cose, sperando di aiutare la comprensione della nostra prossima realtà.
In un recente colloquio con Ninni Cutaia, in cui chiedevo informazioni su quanto stava accadendo, ho sentito il sincero dispiacere con cui l’ex direttore generale lamentava il silenzio con il quale il teatro italiano ha accolto la “dismissione” (per usare le parole di Ermanno Rea) dell’ente. Non mi era facile contraddirlo, perché in effetti, a parte le doverose parole di circostanza e un paio di manifestazioni abbastanza partecipate, non c’è stata una vera levata di scudi. Ma non c’è stata, a essere sinceri, neanche su tagli molto gravi che colpivano l’universalità dei nostri addetti e soprattutto non c’è stato un vero collegamento tra quanto accade nel teatro italiano e quanto sta accadendo nel resto della società. Quale occasione migliore per saldare la nostra protesta e le nostre necessità con quanto sta accadendo nella scuola, nei musei, nelle università, negli istituti di ricerca e via via allargando il discorso, nei servizi sociali e nell’impianto produttivo del paese?
Se questo tentativo non è stato fatto non è solo perché, come pensano molti, tutto sommato a una parte del teatro italiano stava bene questa “dismissione” o perché la reale e attuale vocazione dell’ente non si era definita con sufficiente chiarezza attraverso le vicende di una storia lunga ormai sessant’anni o perché il bilancio dell’ente non era difendibile; il tentativo non è stato fatto a mio giudizio perché la reazione della società italiana a quanto sta avvenendo è un misto di rassegnazione, di stanchezza, di attesa più o meno insofferente di una svolta che non si avvera mai.
Ma ragionando in questo modo non ci si è accorti che con la “dismissione” dell’Eti si è aperta una diga da cui può passare di tutto: se si è abolito non un ente di stato, ma l’unico ente di stato di cui si era dotato il teatro italiano, è chiaro che il giorno dopo si possono abolire tranquillamente istituzioni meno radicate e abbandonare al loro destino enti privati che hanno come unica difesa il loro lavoro. Infatti per il 2011 si prevede un dimezzamento del Fus e, cosa che a me pare altrettanto grave, un taglio pesantissimo ai bilanci degli enti locali; provate a parlare con i sindaci di tutta Italia per capire cosa sta avvenendo a livello delle amministrazioni locali.
Io non so se la chiusura dell’Eti era evitabile; so che hanno giocato contro questa atmosfera opaca, la lentezza, probabilmente necessaria, con cui l’ente si stava trasformando sotto una gestione più virtuosa delle precedenti, la stessa alienazione dei teatri che era il presupposto della trasformazione dell’ente ma non ha giovato alla sua conservazione, perfino alcune ripicche “politiche” che nel nostro paese non ci facciamo mai mancare. Per evitarla bisognava combattere con energia contro tutti questi fattori e avere un progetto chiaro sul futuro non solo dell’ente ma dell’intero sistema teatrale italiano. Mi sembra quindi che non fosse facile evitarla.
A cose fatte, vorrei dire a delitto consumato, non è che di questa energia e di questa chiarezza di idee non c’è più bisogno. Se il teatro italiano vuol conservare un minimo di autorità per quando verranno tempi migliori (perché verranno, non c’è dubbio), deve trovare il coraggio di fare sistema e di dire, prima a se stesso che agli altri, di cosa ha bisogno: a mio giudizio di una proiezione verso l’Europa che non può che essere guidata da un organismo centrale; di una legislazione certa che fissi regole chiare e uguali per tutti, addetti ai lavori delle vecchie e delle nuove generazioni, istituzioni centrali e sistema delle autonomie; di una riorganizzazione del sistema distributivo, che è vecchio non nei suoi elementi terminali ma nella sua concezione; di un lavoro di promozione a tutto campo sul nostro pubblico, perché non possiamo vantarci di avere da oltre trent’anni lo stesso numero di spettatori, in presenza di una società che si è “spettacolarizzata” in tutte le sue forme. C’è lavoro non solo per un nuovo ente, ma per la nuova generazione che si sta affacciando al teatro.


 


 
 
Copyright © 2001-2015, www.ateatro.it - Proprietà letteraria riservata.

 

 
blog comments powered by Disqus